giovedì 11 dicembre 2025

I volti del tempo

 Tempus fugit, dicevano gli antichi. Il tempo fugge, o scorre, in ogni modo si perde, si consuma. Non solo; esso 'ci' consuma, in un rapporto reciproco di causa-effetto in cui essere e tempo (Sein und Zeit, scriveva qualcuno) risultano quasi sinonimi. Il grande Virgilio, nel libro terzo delle Georgiche, ci lascia una sua felice espressione: Sed fugit interea fugit irreparabile tempus (Ma fugge intanto e s'invola il tempo irrevocabile). Ma c'è tempo e tempo... 

 Parliamo dunque del tempo, della temporalità, di questa 'entità' immateriale in cui siamo immersi dalla nascita (e prima di essa), di ciò che ci rende l'unica specie vivente, noi umani, soggetta alla consapevolezza dello scorrere inesorabile della propria esistenza e della propria durata, quindi dell'idea del limite, della fine di sé. Questo tempo, che ci avvolge dall'inizio alla fine e poi ci lascia (..per andare dove?) è come una corrente elettrica che - finchè dura - ci anima e ci tiene in vita; entriamo in un 'flusso' temporale e non ne usciamo che alla nostra fermata, come quando si prende un metrò. 

Se non possiamo nulla sul passato, perché non esiste più, e non possiamo nulla sul futuro, perché non esiste ancora, il discorso del nostro esistere si riduce al presente. Anzi, all'adesso. Ma se questa affermazione appare secondo logica indubitabilmente vera, essa sembra d'altro canto contraddire le diverse sfaccettature che la categoria di temporalità possiede. In primis il fatto che tutti noi abbiamo una percezione chiaramente distinta della differenza tra il tempo cosiddetto 'reale', oggettivo, scientifico e misurabile (abbiamo inventato apposta gli orologi, che rappresentano lo strumento sul quale è costruita tutta la cosiddetta civiltà moderna), e quello interiore, vissuto, la cui estensione non riguarda lancette e ingranaggi ma soltanto emozioni, sensazioni, memorie,'vissuti' appunto che costellano la sostanza psichica di cui siamo fatti. 

 Potremmo anche dire che esistono un tempo 'corporeo' (il modo oggettivo in cui il nostro corpo subisce il confronto-scontro con il tempo e ne rivela lo scorrere in termini di invecchiamento: “La lotta contro il tempo è l'unico vero problema dell'uomo, oltre a quello del suicidio”, scriveva Camus) ed uno 'psichico' (la rappresentazione interna di un fenomeno in termini affettivi, dunque il ricordo), se questo non ci facesse tornare in mente troppo puntuali distinzioni sulla rex cogitans e la rex extensa di cartesiana memoria, che in questa sede tralasciamo volentieri. 

 Non tralasceremo invece la nouvelle vague filosofica del secolo addietro (Husserl, Heidegger, Bergson..), quando ci descrive l'opposizione tra tempo e durata; uno dei punti nodali di tale visione filosofica gira proprio intorno a questa distinzione, che vede da una parte un tempo astratto-oggettivo e dall'altra una durata concreta-soggettiva, o per altri versi un tempo eternizzato e impersonale di contro a un tempo intimo e personale, quasi fosse una contrapposizione tra una vuota forma contenente e una sostanza materiale in essa contenuta. Secondo Bergson, la vera realtà della nostra coscienza si esplica nel tempo vissuto, nella durata soggettiva delle esperienze, che non corrisponde affatto al tempo meccanico scandito dall'orologio, ripetitivo, uniforme, quantitativo. Il tempo vissuto, egli dice, è invece qualcosa di più reale, simile ad una sostanza in continuo cambiamento qualitativo, cioè in perenne, intima trasformazione. 

 Ovviamente, sono sempre gli artisti, in questo caso poeti e scrittori, ad aver per primi colto ed espresso in modo universalmente diretto ed efficace i molteplici volti del tempo di cui facciamo esperienza. Ne ricordiamo due, per tutti: Marcel Proust e Virginia Woolf, che alla dimensione interiore e vissuta del tempo riservarono una particolare attenzione, se non una vera e propria venerazione (o forse, anche, ossessione). Se Proust infatti, nella Recherche, ricostruisce alchimisticamente un universo vivente attraverso il tempo perduto e poi ritrovato della propria memoria, la Woolf d'altro canto ricerca convulsamente dentro di sé, in tutta la sua opera letteraria, quella peculiare forma narrativa che possa esprimere la cangiante vitalità del mondo interiore che si interseca senza soluzione di continuità in una temporalità molteplice e stratificata. 

 Nel racconto Mrs Dalloway, per esempio, che si comprime nella durata di un solo giorno, fatti e situazioni hanno peso solo in quanto scenari di fondo in cui si agitano emozioni e stati d'animo del soggetto, che si succedono, si alternano e si trasfondono reciprocamente in una temporalità magmatica e sospesa, specchio intimo dell'avvicendarsi delle ore del tempo 'di fuori', scandito dal rintocco del Big Ben, o ancora dell'altro tempo, ciclico e universale, che la protagonista del racconto osserva dalla sua finestra nelle movenze abitudinarie di una anziana signora che abita nella casa di fronte). 

 Se filosofia e letteratura ci hanno dunque parlato già un secolo fa di una diversa concezione del tempo, e se la fisica della relatività ha avuto in tutto questo un ruolo primario, potremmo dire che la psicoanalisi non è stata da meno, arrivando anzi ad estremizzare il discorso nel sostenere che nell'inconscio non c'è tempo, o meglio ci sono tutti, poiché lì convivono senza distinzione di sorta tutti i differenti tempi della nostra vita (e secondo la psicoanalisi junghiana anche quelli dei nostri progenitori su su fino all'origine della specie). O per altri versi, come dice Lacan, la morte (come la donna) non esiste

 Diviene allora fondamentale - e fondante la possibilità di un nuovo e condiviso processo temporale - il costruire ad hoc uno scenario (come fa la psicoanalisi mediante la creazione del setting, cioè la ripetizione dell'esperienza delle sedute all'interno di una cornice di senso, offerta dalla stanza e dall'ora di analisi) che possa costituire l'altra faccia, o anche, come si dice oggi, l'interfaccia, di quel tempo intimo, soggettivo, privato, che il paziente vive, spesso dolorosamente, solo in modo frammentato o cronicizzato, attraverso l'emergenza del sintomo ossessivo, la riemersione disturbante del rimosso in forma di ansia diffusa, o un'angoscia serpeggiante che infine dilaga sommergendolo. 

 Un tempo 'della cura', o 'del dialogo', se si preferisce, che ricuce narrativamente in un percorso dotato di senso quella che era una disarticolata accumulazione di fatti, volti, cose, emozioni, pezzi di vecchie identità, in un processo di significazione potenzialmente senza limiti (l'analisi è sempre 'interminabile', se intesa nella sua dimensione etica di confronto dell'individuo con la propria alterità costitutiva), reso ora reversibile dalla possibilità del ricordo e dalla funzione della memoria, finalmente liberata dalle catene della rimozione.

Il tempo così 'ricomposto' (o ritrovato direbbe Proust) da al soggetto una nuova prospettiva, che può essere ora finalmente osservata senza troppe distorsioni ottiche. E' un tempo insieme intimo e condiviso che ridà un ritmo e una forma alla fine del tempo della catastrofe psicotica, o che spezza la circolarità chiusa della coazione e della ripetizione cieca e sorda della nevrosi ossessiva - che desidera l'arresto del tempo e l'illusione della eternità del quotidiano, secondo la sua paradossale, mirabile sintesi dei contrari - o ancora, che apre un possibile varco al senso di esistere nella patologia depressiva. Egli può così riappropriarsi del suo proprio tempo, declinandolo in molteplici rappresentazioni di sé in rapporto con sé stesso e con gli altri, tra passato e presente, e con lo sguardo finalmente rivolto al futuro.



mercoledì 4 dicembre 2024

Padri e patriarchi

 [..] La crisi del ruolo genitoriale, e di quello di padre in particolare, è infatti oggi un concetto già ampiamente sperimentato, vissuto e acquisito dalle ultime generazioni al punto che sono diventati ormai luoghi comuni i discorsi sulle 'assenze' dei padri e quelli sulle 'supplenze' delle madri, ma in realtà il contesto è ben più ampio dello scenario famigliare e investe i grandi cambiamenti cui è andata incontro nel complesso la nostra società soprattutto negli ultimi decenni.

Che oggi la perdita di autorità della figura paterna sia in genere dovuta alle trasformazioni della famiglia patriarcale e ad una conseguente diversa distribuzione del 'potere' tra i membri della nuova famiglia moderna (spesso inoltre non più rappresentata da entrambi i genitori o con avvicendamenti successivi nel ruolo paterno nelle coppie separate), oppure alla sua sistematica messa in discussione dopo gli anni '60-'70 da parte di una nuova cultura giovanile che ha spesso percepito nella generazione dei padri l'espressione di un sistema sociale retrivo, un ostacolo da rimuovere nel cammino verso una maggiore libertà di espressione individuale e collettiva, il risultato di questa disaffezione alla voce dei padri è stato anche quello, sicuramente meno positivo, di una perdita nel micro e macro-sociale di quelle figure naturalmente incaricate nel porre-il-limite e del conseguente smarrimento di fronte alla possibilità illusoria di un godimento illimitato e infinito.

La funzione della proibizione paterna attraverso lo scenario edipico è simbolicamente diretta sul duplice piano della regolazione del desiderio (divieto dell'incesto) e del riconoscimento della propria separatezza in quanto individuo, per cui la funzione paterna e la Legge-del-Padre hanno sempre rappresentato quell'elemento indispensabile affinché il soggetto potesse appropriarsi del suo stesso desiderio rivolto all'altro-da-sé, superando la stasi della condizione fusionale nel 'paradiso' materno (che ovviamente prevede però anche un suo 'inferno', quando la fusionalità è vissuta come unico orizzonte esistenziale). Accettarne oggi semplicemente la loro obsolescenza equivale a mettere definitivamente in crisi il modello 'naturale' in cui si è per millenni attuata la trasmissione di fondamentali aspetti inter-generazionali, che altrimenti non avrebbero altri 'contenitori' – altri 'significanti' – per svolgere le medesime funzioni evolutive per ciascun nuovo individuo. 

La supremazia della visione tecnologica nello stile di vita moderno e l'ideologia consumistica contribuiscono inoltre ad accentuare la distanza dal modello paterno centrato sulla progressiva accettazione del limite e quindi sul superamento della posizione onnipotente tipica della mente infantile. Il 'mercato' crea in continuazione nuovi falsi bisogni, instillando nelle giovani generazioni l'aderenza ad un meccanismo compulsivo che si placa solo temporaneamente con il possesso (l'acquisto) dell'oggetto del desiderio (peraltro indotto). Nuovi prodotti ricreano infatti in brevissimo tempo il meccanismo di desiderio sotto la spinta di un senso di vuoto interiore e dell'adeguamento conformistico e quindi il rinnovato bisogno dell'acquisto, e così via…

Ciò che la funzione paterna dove assicurare, cioè la regolazione del desiderio, viene dunque ulteriormente intaccata dalla urgenza nel raggiungimento della apparente soddisfazione (in realtà solo una momentanea 'saturazione'), che non tollera dilazione alcuna, pena una condizione interiore di sofferenza esistenziale e vacuità che si declina attraverso tutta una gamma di manifestazioni di disagio soggettivo, tipiche delle nostre società 'avanzate' (basti pensare all'aumento esponenziale delle svariate forme di patologie centrate sul corporeo, quali dipendenza e tossicomania, i vissuti anoressico-bulimici e gli attacchi di panico, esperienze accomunate dall'impossibilità di vivere e tollerare l'urgenza del temuto momento critico in cui ci si sente soli e indifesi nell'affrontare una sensazione di incombente, oscura minaccia al proprio equilibrio fisico e mentale).

Se dunque non è più la voce del Padre a poter essere udita nella odierna nebbia delle incertezze esistenziali, della 'perdita dei valori' (il fatto che si senta ormai ripetere questa espressione come un mantra per spiegare tutto quanto di disfunzionale e di negativo osserviamo intorno a noi non ne scalfisce la realtà oggi operante e fin troppo evidente), della fine delle ideologie e delle Verità rivelate o costruite ex novo e di un unico, eterno presente contrapposto ad una temporalità dotata di un senso di marcia, viene drammaticamente a mancare quella istanza 'Altra' fino a ieri in grado di mettere in moto quelle trasformazioni interiori necessarie al raggiungimento di un assetto psichico adeguato per 'orientarsi' nel mondo (interno ed esterno). 

Occorre forse allora cercare la possibilità di individuare oggi una nuova idea di paternità, che possa sempre conciliare l'istanza della Legge e del limite con le energie vitali del desiderio, senza il gravame di una concezione patriarcale e autoritaristica ma riconoscendo al padre la sua propria funzione (che non può essere assente o ridotta, come a volte accade, a quella dell'amico-confidente-compagno di giochi). Se il padre è una 'metafora', come si diceva, occorre rendere di nuovo questa metafora viva e operante oggi, restituendogli un suo specifico, fondamentale potere simbolico, pur nelle trasformazioni e nei profondi cambiamenti intervenuti nel sociale. Del resto, una tale trasformazione della paternità appare oggi necessaria oltre che inevitabile, affinché si possa continuare a parlare di società civili e responsabili che si prendono cura dei loro figli e dell'ambiente in cui essi vivranno.

Estratto da: Nel Nome del Padre, nella sezione Scritti di questo stesso sito.



mercoledì 20 settembre 2023

Caducità (1915)



"Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero chetutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato e potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato. Da un simile precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è bello e perfetto sappiamo che possono derivare due diversi moti dell’animo. L’uno porta al doloroso tedio universale del giovane poeta, l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto. No! è impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla. Crederlo sarebbe troppo insensato e troppo nefando. In un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi ad ogni forza distruttiva. Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero. Io non sapevo decidermi a contestare la caducità del tutto e nemmeno a strappare un’eccezione per ciò che è bello e perfetto. Contestai però al poeta pessimista che la caducità del bello implichi un suo svilimento.

Al contrario, ne aumenta il valore! Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. Era incomprensibile, dissi, che il pensiero della caducità del bello dovesse turbare la nostra gioia al riguardo. Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno, in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno. Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione dell’opera d’arte o della creazione intellettuale dovessero essere svilite dalla loro limitazione temporale. Potrà venire un tempo in cui i quadri e le statue che oggi ammiriamo saranno caduti in pezzi, o una razza umana dopo di noi che non comprenderà più le opere dei nostri poeti e dei nostri pensatori, o addirittura un’epoca geologica in cui ogni forma di vita sulla terra sarà scomparsa: il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta.

Mi pareva che queste considerazioni fossero incontestabili, ma mi accorsi che non avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull’amico. Questo insuccesso mi portò a ritenere che un forte fattore affettivo intervenisse a turbare il loro giudizio; e più tardi credetti di avere individuato questo fattore. Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello. L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità. Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato e ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare mai ai quali si riconducono altre cose oscure. Noi reputiamo di possedere una certa quantità di capacità d’amare – che chiamiamo libido – la quale agli inizi dello sviluppo è rivolta al nostro stesso Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti, che noi in tal modo accogliamo per coì dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) torna ad essere libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo dunque è il lutto.

La mia conversazione col poeta era avvenuta nell'estate prima della guerra. Un anno dopo la guerra scoppiò e depredò il mondo delle sue bellezze. E non distrusse soltanto la bellezza dei luoghi in cui passò e le opere d'arte che incontrò sul suo cammino; infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste della nostra civiltà, il nostro rispetto per moltissimi pensatori ed artisti, le nostre speranze in un definitivo superamento delle differenze tra popoli e razze. Insozzò la sublime imparzialità della nostra scienza, mise brutalmente a nudo la nostra vita pulsionale, scatenò gli spiriti malvagi che albergano in noi e che credevamo di aver debellato per sempre grazie all'educazione che i nostri spiriti più eletti ci hanno impartito nel corso dei secoli. Rifece piccola la nostra patria e di nuovo lontano e remoto il resto della terra. Ci depredò di tante cose che avevamo amate e ci mostrò quanto siano effimere molte altre cose che consideravamo durevoli.

Non c’è da stupire se la nostra libido, così impoverita di oggetti, ha investito con intensità tanto maggiore ciò che ci è rimasto; se l’amor di patria, la tenera sollecitudine per il nostro prossimo e la fierezza per ciò che ci accomuna sono diventati d’improvviso più forti. Ma questi altri beni, ora perduti, hanno perso davvero per noi il loro valore, perché si sono dimostrati cos’ precari e incapaci di resistere? A molti di noi sembra così, ma anche qui, ritengo, a torto. Io credo che coloro che la pensano così e sembrano preparati a una rinuncia definitiva perché ciò che è prezioso si è dimostrato perituro, si trovano soltanto in ino stato di lutto per ciò che hanno perduto. Noi sappiamo che il lutto, per doloroso che sia, si estingue spontaneamente. Se ha rinunciato a tutto ciò che è perduto, ciò significa che esso stesso si è consunto e allora la nostra libido è di nuovo libera (nella misura in cui siamo ancora giovani e vitali) di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora. C’è da sperare che le cosa non vadano diversamente per le perdite provocate da questa guerra. Una volta superato il lutto si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima."

da: Sigmund Freud, “Caducità”, 1915, volume 8, OSF, Boringhieri, Torino, 1989, pp 173-176.

mercoledì 1 giugno 2022

Né medici né preti

[…] Per quale motivo allora si cerca di mantenere viva la psicanalisi? È a chi rivolge una domanda a uno specialista della salute mentale o a uno psicoterapeuta impegnato a ristabilire un ben-essere perturbato dai rischi dell’esistenza, che lo psicanalista fa la sua offerta? O questa offerta consiste precisamente nel non piegarsi ad accogliere una simile domanda? Su tale questione è decisivo, in effetti, fare chiarezza piuttosto che fare il competente. È giocando sull’equivoco, salvo adoperarsi per toglierlo di mezzo nel corso di ciò che chiamava ancora una “cura”, che Freud ha dovuto mimetizzare la psicanalisi da discorso medico che cura la psicopatologia, mentre si trattava per lui di offrire a un soggetto la possibilità d’impegnarsi nel dire, senza pensarci su e come di getto, le parole che gli passano per la testa. Ebbene, ciò che per mezzo di questa pratica del linguaggio si ottiene, non è affatto la sottomissione passiva a una cura, ma la decisione di considerarsi responsabile della propria sofferenza e di volerci capire qualcosa, impiegando altri mezzi dai trattamenti che ricorrono ai farmaci o ai buoni consigli. Uno psicanalista non è né medico né prete, scriveva Freud al pastore Pfister. Oggi è giunto il momento di fare un passo in più e di gettare la maschera. Se la maggior parte dei governi europei, a causa del disagio sempre più generalizzato prodotto da una civiltà tecnocratica che non sa offrire se non vantaggi materiali, impone ai cittadini un’offerta psicoterapeutica altrettanto generalizzata, allora non possiamo più esimerci dal reclamare la nostra differenza. Se i governi, per perseguire il loro scopo, intendono legiferare nel campo della psicologia, regolamentando il titolo di psicoterapeuta così come l’applicazione dei metodi della psicoterapia, non possiamo più sottrarci dal proclamare chiaro e forte che la quintessenza della psicanalisi non ha niente a che fare con la medicina né con la sanità, e che di conseguenza la psicanalisi non accetta di essere regolamentata giuridicamente o di essere riconosciuta dallo Stato. Considerata la società di controllo in cui viviamo, e l’inevitabilità che anche gli psicanalisti siano sottomessi a un controllo a cui niente e nessuno può e deve sfuggire, se è dunque necessario imporgli uno statuto a qualunque costo, non è dal Ministero della salute né dal Ministero della pubblica istruzione che essi dovrebbero dipendere, ma dal Ministero della Cultura, alla stregua degli scrittori, degli attori, dei pittori, dei musicisti. Gli psicanalisti si dedicano a una ricerca che è solo affine alla Scienza o alla Filosofia, dato che concerne piuttosto una certa Sapienza (Sagesse), perché non possono promettere i risultati prevedibili e misurabili che ci si attende dall’applicazione di una tecnica. Possono solo offrire delle regole – a cui loro stessi si attengono e che non cessano di rielaborare – ai loro co- siddetti “analizzanti”, i quali, applicandole, hanno la possibilità di avere più direttamente e specificamente a che fare con quegli effetti dell’inconscio che fanno zoppicare la loro vita [...].  

 

Brano estratto da: Jacques Nassif - Gli psicanalisti non sono dei professionisti competenti (Tit.orig.: Les psychoanalystes ne sont pas des clercs, trad. M.Manghi)

lunedì 7 giugno 2021

Contro il Pensiero Unico (di Stato)

Ciò a cui abbiamo assistito, da un anno e mezzo a questa parte, da quando cioè siamo stati travolti dalla pandemia virale, è stata una progressiva riduzione delle libertà individuali sotto lo spettro del contagio. Con l’obbligatorietà del vaccino per le categorie sanitarie, e non solo per quelle, si è di fatto chiusa la possibilità di dare spazio ad un pensiero dissonante non omologato alle logiche dell’establishment politico-economico e quindi di un confronto con posizioni diverse da quelle ribadite dalla Sanità Pubblica, che sul binomio più vaccini-meno morti ha costruito la sua campagna mediatica nell’intento di abolire qualsiasi espressione critica rispetto alle scelte governative. Ma se questo è quanto avviene nel rapporto tra soggetto e istituzioni dello Stato, ancor più preoccupante, se non già drammatico, è il sempre maggiore appiattimento della categoria degli psicologi sulle posizioni assunte dalla categoria medica, laddove la stessa possibilità di un pensiero ‘Altro’ viene di fatto abolita per decisione superiore e inappellabile. Recentemente si è assitito a dichiarazioni ufficiali da parte di alcuni presidenti di Ordini regionali francamente sconcertanti, in cui si auspicano ad esempio '..attività di persuasione e di incentivo alla campagna vaccinale grazie al ruolo specifico che potranno esercitare gli psicologi, i quali con attività mirate potranno contribuire a far raggiungere l’immunità di gregge, contrastare le fake news e le attività costanti dei movimenti no-vax'. Probabilmente neanche nella Russia degli anni 'Cinquanta gli psicologi hanno mostrato un analogo spirito di dedizione alla ragione di Partito! E’ dunque questa la Psicologia del futuro, espressione di un Ego di Stato onnipotente, al servizio delle logiche di controllo sociale e di livellamento standardizzato delle coscienze individuali? Che ne è del confronto con quelle parti di Sè che costitutivamente rappresentano la nostra complessità e quindi la possibilità stessa di una dialettica fondante tra identità ed alterità nell’ottica di una processualità dello sviluppo psichico? Gli psicologi - ieri, oggi e si spera anche domani - non fanno attività di persuasione e convincimento delle persone, come non attuano 'opere mirate' per contribuire a far raggiungere l’immunità di gregge, così come non contrastano, magari in armi come novelli cavalieri crociati, le fake news e le attività costanti dei movimenti no-vax; piuttosto, operano per stimolare il pensiero critico, per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e soprattutto per favorire comportamenti assunti in maniera responsabile e consapevole, ciò che in questo momento storico sembra essere troppo spesso delegato a terzi per decreto governativo.

sabato 28 marzo 2020

Alterità virale

«[…] Al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera suo diritto e suo dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo attraversando, quando sembra si verifichi qualcosa di simile a una violenta epidemia […] e desidererebbe poter contare sul senso civico e la collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il propagarsi del contagio.[...] Il Governo è perfettamente consapevole delle proprie responsabilità e si aspetta da coloro ai quali questo messaggio è rivolto che assumano anch’essi, da cittadini rispettosi quali devono essere, le loro responsabilità, pensando anche che l’isolamento in cui ora si trovano rappresenterà, al di là di qualsiasi altra considerazione personale, un atto di solidarietà verso il resto della comunità nazionale, etc..».
In questi giorni quante volte abbiamo ascoltato dalla tv parole simili, stretti dalla morsa del virus nell’isolamento forzato. Eppure non sono quelle pronunciate da esponenti della politica. Alcuni invece avranno riconosciuto passi del romanzo Cecità di J.Saramago(1), dove in una anonima cittadina esplode all’improvviso un’epidemia che rende cieche le persone, che costringe tutti ad una drastico cambiamento dei propri modi di vita e dei rapporti sociali e che fa riflettere sulla natura dei rapporti umani nei momenti più critici, sulle paure della psiche individuale e del corpo sociale prodotte da un evento catastrofico, sulle dinamiche di potere e di sopraffazione che si generano in simili scenari.
Senza scomodare la biopolitica di foucaltiana memoria(2), è infatti sotto gli occhi di tutti come il legame tra politica e medicina sia divenuto un aspetto centrale nella società contemporanea. L’emergenza provocata dall’epidemia virale Covid19 ha di conseguenza attivato un’emergenza politica tesa alla cura e salvaguardia della salute dei cittadini, poiché l’assunto è che lo Stato abbia un potere assoluto sulla loro vita biologica. E’ quindi facilmente comprensibile come una tale facoltà dei poteri centrali, supportata da regime militare e regime sanitario, potrebbe costituire per le società del futuro una grande minaccia ai diritti sociali ed alle libertà individuali. Ma a quale ‘altra’ cecità il suddetto romanzo starebbe accennando? Certamente, le chiavi di lettura possono essere molteplici e riferite ad aspetti diversi della nostra realtà che – per rimanere nella metafora letteraria – non riusciamo più a vedere: l’indifferenza verso il nostro prossimo, l’attuale modo di vivere individuale e collettivo, sempre più atomizzato e orientato alla mercificazione ed al consumo bulimico delle relazioni, la crescente perdita di riferimenti e valori, la negazione dell’idea stessa di un limite naturale delle cose, di fronte al ‘no-limits’ del trionfo ipertecnologico, che si sublima nella negazione della morte quale limite all’esperienza umana. Nella nostra società dell’immagine, dove tutto è sottoposto al maquillage dei trattamenti estetici correttivi alla ricerca del benessere psicofisico, sembra dover essere necessario vedere file di camion che trasportano nei crematori centinaia di morti ad opera del virus per ricordarci, come un pugno in pieno viso, che la morte esiste ed è lì, dietro l’angolo. E così, avendo subito nella nostra cultura una sistematica rimozione, la morte torna nelle vesti dell’Altro a reclamare l’attenzione che – ‘naturalmente’ – le spetta. Il Tragico fa irruzione sulla scena e impone la sua legge. E’ come se una certa visione di mondo, con le sue forme stabilite ed i suoi ritmi cui eravamo assuefatti, fosse stata risucchiata dal buco nero della pandemia e dalla emergenza, che detta ora modi e tempi del vivere quotidiano. Esplode così nelle strade e nelle case con l’evidenza di una realtà aliena e frantuma all’improvviso le nostre pseudo-certezze, le nostre abitudini, il nostro modo consueto di vedere le cose. E il virus stesso sembra beffardamente incarnare la metafora della crescente scotomizzazione della nostra alterità laddove ci vediamo costretti ad evitare gli altri esseri umani, a non avere alcun contatto ravvicinato con loro, ad avere paura del nostro prossimo se lo incrociamo camminando, poiché potrebbe rivelarsi un veicolo di contagio. Un evidente squilibrio dunque sembra governare la Weltanshauung dell’uomo contemporaneo, dove tutto è Io/Ego e non c’è più spazio per l’Altro. Anticamente, l’uomo riusciva a stabilire un dialogo con l’alterità grazie a un rapporto diretto con gli elementi della Natura, quindi attraverso gli Dei, poi con le religioni monoteiste. Il progressivo ritiro delle sue proiezioni psichiche, frutto della civiltà e della cultura, gli ha però lasciato un mondo disabitato di senso e disanimato di emozioni, se non quelle estreme e solipsistiche, ricercate forse nel tentativo di sentirsi ancora esistere, in un mondo che abbiamo riempito con scintillanti quanto superflui oggetti di consumo usa e getta che ci soffocano in solitudini preconfezionate. Oggi parlare del freudiano ‘disagio della civiltà’ si tradurrebbe nell’ostracismo riservato alla dimensione inconscia della psiche, invasa e sostituita da pratiche correttive, riabilitazioni riadattative, procedure di rinforzo e supporti terapeutici a quell’Io sempre più sprofondato in sé stesso e che avrebbe invece solo bisogno del dialogo trasformativo con l’Altro. Un Ego sempre più cieco ed ipertrofico ha infatti assunto la posizione di assoluto comando nella stanza dei bottoni del nostro mondo tecnologizzato. C’è voluto il pericolo mortale del virus per farci riscoprire il valore, l’importanza ed il senso di una comunità, per essere altruisti, generosi fino all’autosacrificio, con chi soffre, con chi muore, per ridestarci dalle nostre fobie, o semplicemente dal torpore, dall’indifferenza. In una parola per riscoprirci propriamente ‘umani’. ‘Andrà tutto bene’, ci diciamo, ma facciamo che questa immane tragedia oggi non ci renda di nuovo ciechi domani.



Note
(1) - Cecità (1995), José Saramago, Ed.Einaudi.
(2) - La volontà di sapere (1978), Michel Foucault, Ed.Feltrinelli. Per Foucault la biopolitica riassume le pratiche con le quali il potere di Stato gestisce il corpo dei cittadini, area d'incontro tra potere politico e sfera della vita (biopotere).












lunedì 25 novembre 2019

L'uomo è un ponte



Nella stanza di analisi la pratica, com'è noto, consiste nel ricreare attraverso il setting - la cornice imprescindibile che mette in scena nel qui ed ora la rappresentazione di sé dell'altro, del paziente, fornendogli le coordinate spazio-temporali dove poter far confluire i suoi vissuti e le sie memorie - quel meccanismo di decostruzione, traduzione, trasformazione e ricostruzione del senso per mezzo della funzione interpretativa, che si dispiega nella struttura dialogica dell'evento e nella reciprocità che si instaura tra analista e analizzando e che la sostiene.
La possibilità del cambiamento, dell'insight che ordina in una nuova gestalt una certa configurazione interna che attraversa i piani cognitivo, affettivo, emotivo, sensoriale, etc. …, deriva dalla congiunzione epifanica di elementi diversi, eterogenei, fino a quel momento lontani o dispersi, che vengono catturati e filtrati all'interno di quella matrice di significato, rappresentata appunto dal setting, dove è possibile focalizzare, ri-nominare e ri-sperimentare le cose della propria vita, o nominarle e sperimentarle per la prima volta. E tutto ciò alla presenza di un testimone, l'analista, che rimanda costantemente la cifra identitaria dell'altro-da-sé, e nel contempo promuove quell'avvicinamento necessario alla propria alterità in una continua dialettica giocata sulle note del riconoscimento-disconoscimento transferale di ciò che è proprio, di ciò che è dell'altro, di quanto ci appartiene, di quanto non ci appartiene più o non ci è mai appartenuto.
Più che costruzione di sé, tuttavia, il processo psicoanalitico si pone, per fini terapeutici non meno che conoscitivi, come decostruzione di una identità 'cristallizzata' nella nevrosi che, in quanto basata su rappresentazioni di sé disfunzionali e ripetitive, impedisce il raggiungimento di un più evoluto e maturo equilibrio tra identità ed alterità, che consentirebbe invece al soggetto una maggiore libertà esistenziale e di pensiero. L'equilibrio identitario, in altri termini, appare per sua natura instabile e precario e necessita per il suo buon funzionamento di un dinamismo che senza soluzione di continuità lo rapporti al polo dell'alterità interna ed esterna. Solo in questa compresenza è possibile il cambiamento del sé in senso evolutivo e lo sviluppo di una modalità esistentiva nel complesso centrata sull'inclusione piuttosto che sull'esclusione dell'Altro.
Possiamo quindi pensare alla psicoanalisi nei termini di una scienza della alterità – se di scienza si può parlare, oggi che le declinazioni della 'verità narrativa' e del post-costruttivismo hanno progressivamente spostato il baricentro psicoanalitico verso il piano ermeneutico, oppure se sia meglio considerarla al pari di una professione di fede in chiave laica – i cui cardini concettuali, da sempre, si sono primariamente articolati sul binomio identità/alterità e sul riconoscimento della funzione centrale di legame svolta dalla coscienza nel tentativo di una migliore integrazione possibile dei contenuti inconsci.
Il tema portante dell'identità e del suo rapporto con l'alterità si snoda infatti attraverso tutto il percorso della riflessione psicoanalitica, attraverso un sempre maggiore riconoscimento alla dimensione inconscia-Altra quale luogo depositario della autenticità profonda del soggetto.
Ed oggi la stessa psicoanalisi, in quanto scienza della alterità, o di frontiera, è sollecitata ad entrare in un rapporto di collaborazione sempre più stretto con le altre discipline confinanti, quali la filosofia, l'antropologia, la semiologia, le neuroscienze, per arricchire i propri paradigmi epistemici e consentire un allargamento ed approfondimento delle proprie ipotesi operative ed interpretative, poiché è proprio in questa area di intersezione tra diversi punti di vista sull'uomo che è possibile rinvenire nuove conoscenze e nuovi stimoli culturali.
Dal registro interno a quello esterno, infatti, la funzione psicoanalitica rimane intatta, in quanto alla base di qualsiasi processo conoscitivo si riscontra un rapporto e, se vogliamo, un incontro di identità tra loro diverse, nella accezione ampia del termine (quindi non solo soggettive, ma culturali, sociali, etc. …) all'interno di una peculiare esperienza emotiva. L'importanza di mantenere una tensione interna funzionale al confronto tra istanze diverse dell'essere, come tra un dentro e un fuori, viene ribadita anche da queste parole di J.P. Vernant, che si riallacciano alla cultura mitologica e ad una visione dell'umano in costante rapporto con le sue determinanti archetipiche:
"Passare un ponte, traversare un fiume, varcare una frontiera, è lasciare lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un orizzonte differente, uno spazio estraneo incognito, ove si rischia - confrontati a ciò che è altro - di scoprirsi senza "luogo proprio", senza identità. Polarità dunque dello spazio umano, fatto di un dentro e di un fuori. Questo "dentro" rassicurante, turrito, stabile e questo "fuori" inquietante, aperto mobile, i Greci antichi lo hanno espresso sotto forma di una coppia di divinità unite e opposte. Hestia ed Hermes. Hestia è la dea del focolare, nel cuore della casa. Tanto Hestia è sedentaria, vigilante sugli esseri umani e le ricchezze che protegge, altrettanto Hermes è nomade, vagabondo: passa incessantemente da un luogo all'altro, incurante delle frontiere, delle chiusure, delle barriere. Maestro degli scambi, dei contatti, è il dio delle strade dove guida il viaggiatore, quanto Hestia mette al riparo tesori nei segreti penetrali delle case. Divinità che si oppongono e pure sono indissociabili. È infatti all'altare della dea che, secondo il rito, sono accolti, nutriti, ospitati gli stranieri venuti da lontano. Perché ci sia veramente un "dentro", bisogna che possa aprirsi su un "fuori", per accoglierlo in sé. Così ogni individuo umano deve assumere la parte di Hestia e di Hermes. Tra le rive del Medesimo e dell'Altro, l'uomo, infatti, è un ponte"(1).


(1) Da una conferenza tenuta dall'autore nel 1999 in occasione del 50° anniversario del Consiglio d'Europa.