martedì 21 ottobre 2008

Il potere dell'immaginazione (2a parte)

(continua)
Si va così palesando un sempre più evidente rapporto funzionale tra l’immaginazione ‘attiva’ e le esperienze di significato archetipico: la prima può introdurci nella profondità delle seconde. Jung concepiva infatti gli archetipi come fattori costanti, autonomi, come strutture di significato ‘dominanti’ della psiche, paragonabili alle categorie a priori di Kant e appartenenti alla dimensione inconscia della mente (laddove Husserl invece identifica il suo ‘regno eidetico dell’a-priori’, avente una natura ‘trascendentale’, con un settore dell’ego cosciente). Anche rispetto al carattere di ‘realtà’ di tale dimensione archetipica, la posizione di Jung riecheggia quella kantiana in cui si ribadisce che la conoscenza è possibile soltanto attraverso ‘apparenze’ (o, appunto, per mezzo di ‘rappresentazioni immaginative’), ma con la sottolineatura di una ‘efficacia’ causale che si manifesta e trae il suo carattere di realtà (almeno in termini fenomenologici, cioè attinenti la sfera psicologica soggettiva) da ciò che esercita un’influenza sulla psiche. “Gli archetipi hanno fondamento in egual misura nella psiche - vale a dire nell’immaginazione, poiché ‘immagine è psiche’ - e nel mondo materiale.” [1]
Gli archetipi, dunque, forniscono significato all’essere, ma tale significato è inseparabile dalle immagini nelle quali è incorporato, per cui esso è sempre espresso non concettualmente attraverso la parola, che de-finisce e limita, ma metaforicamente e grazie al simbolo, per sua natura ‘insaturo’,cioè aperto a molteplici interpretazioni e ad ulteriori trasformazioni.di significato. L’immaginazione attiva è dunque una specie di spontanea amplificazione degli archetipi. Un mezzo per liberare le loro prolifiche potenzialità è immaginare attivamente e rendere psichicamente reali i modelli archetipici attuali, capaci di effetti sulla vita psichica dell’immaginante: “Vi sono certe condizioni inconsce collettive (leggi: archetipi) che agiscono come regolatori e stimolatori dell’attività creativa (cioè immaginativa)[2]; è infatti sufficiente osservare come sogni e fantasie perdano il loro iniziale carattere frammentario quando vengono assunti sotto differenti dominanti archetipiche.
Le profondità archetipali della mente sollecitano quindi l’emergenza di strutture di significato ‘trascendente’ che si manifestano attraverso l’esperienza simbolico-immaginativa. Il simbolo, che assolve una funzione sintetica fondamentale tra conscio e inconscio, è quell’elemento-immagine che rappresenta il ‘ponte’ che consente di contattare il sovrasensibile e in termini energetici converte e orienta le caotiche energie psichiche primarie in una esperienza di significato per la psiche individuale.
Ciò è evidente nell’ambito dell’esperienze religiose, spirituali, nell’attività mitopoietica, in quelle cioè che per eccellenza rappresentano le attività distintive della mente umana che risente della prossimità del ‘divino’, come anche in quelle manifestazioni dello spirito che definiamo in termini di esperienze ‘rituali’.
Il racconto mitologico, i mitologemi, rappresentano l’elemento originario che salda cosmo e psiche in una visione cripto-poetica-immaginativa della realtà vissuta dall’uomo, che diventa così co-autore del suo destino insieme agli Dei: “La molteplicità degli dei corrisponde alla molteplicità degli uomini e innumerevoli dei attendono di diventare uomini. Innumerevoli dei sono stati uomini. L’uomo partecipa della natura degli dei.”[3] Possiamo dedurne che in definitiva sia proprio attraverso l’immaginazione ‘ispirata’ dalla dimensione archetipica che diventi possibile quella condizione particolare di ‘vibrazione’ o ‘frequenza’ psichica che consente l’accesso alle divinità, sia in forma di mitologemi - che sotto la scorza narrativa appaiono sempre vivi e fecondi nella loro valenza sapienzale e maieutica - come più intensamente nelle esperienze religiose, estatiche, mistiche, magiche, le più varie e in tutte le latitudini del mondo:“Gli archetipi corrisponderebbero a forme immaginali divine usate quali categorie concettuali aristoteliche o kantiane. Invece di leggi logiche o scientifiche, le figure mitiche offrirebbero le strutture a priori presenti nelle caverne e negli antri della infinita immaginazione.”[4]
Riguardo al ‘rito’, poi, la creazione immaginale, esperita e diluita attraverso una prassi rituaria, consente di strutturare un luogo interiore, un ‘recinto sacro’ (temenos), in cui intense dinamiche psico-energetiche possono essere vissute in maniera non destabilizzante per l’equilibrio mentale soggettivo, poiché:“In quanto operazione avvolta in una rete simbolica, il rito introduce nel processo individuativo una specifica attivazione energetica mediata dal simbolo.”[5]
Il rito rappresenta dunque quella funzione contenitiva che protegge la sfera cosciente dall’irruzione dei contenuti inconsci. La strutturazione del rito - con la sua ripetizione, la regolarità, la codificazione, il ‘metodo’ - è quindi funzionale a stabilizzare la mente di fronte all’ignoto conferendo al pensiero quegli argini, quei limiti necessari affinché ci si possa accostare alla dimensione ignota, sovrasensibile, divina che acquista così per il soggetto la dimensione interiore del ‘sacro’. Anche qui però l’equilibrio tra creatività e coazione - tra vita e morte dello spirito - è sempre fragile e il rito rischia di degradarsi a ‘rituale’, a vuota e ossessiva celebrazione di atti meccanici che hanno perso l’aggancio con le dimensioni profonde di creatività e di rinnovamento energetico della mente. Allora è la stasi, la sterilità, la vuota forma priva di linfa vitale.[6]
Mantenere in vita questa ‘funzione immaginativa’ della mente, quindi, e saperla opportunamente utilizzare attraverso modalità che ne consentano una fruizione in termini di crescita individuale e spirituale, rappresenta allora un vero ‘potere’ nel senso di cui si diceva prima, quello cioè di predisporre la mente ad ‘attrarre’ il divino. Distinguendo tra immaginazione cosciente, o volontaria, e forme ‘attive’ e infine ‘archetipiche’ in cui la presa del reale ‘mondano’ diviene progressivamente meno vincolante, si giunge così a quelle regioni intermedie che Henry Corbin definisce in termini di ‘mundus imaginalis’, luogo di accadimenti teofanici che alimentato dalla corrente profonda dell’inconscio produce il rinnovamento spirituale e giunge ad esperienze vivide di una genuina visionarietà quasi profetica. Corbin parla di questa immaginazione visionaria definendola ‘magica’ - riprendendo lo scenario culturale e operativo della tradizione alchimistica - nel senso in cui essa permette una ‘trasformazione della materia (il mondo oggettuale) in corpi sottili’, cioè in un processo di ‘spiritualizzazione’ delle cose attraverso il potere immaginativo della mente, espressione quest’ultimo della funzione ‘mercuriale’ di mediazione e sintesi tra sensibile ed intelligibile.


F.Maddalena



[1] C.G.Jung,Opere vol.VIII, Ed. Boringhieri.
[2] C.G.Jung,Opere, vol.XIII, Ed Boringhieri.
[3] C.G.Jung, Ricordi,sogni,riflessioni’, Ed.Magi 1991.
[4]J.Hillman,‘Re-visione della psicologia’, Adelphi 1975.
[5] D.Kertzer, Riti e simboli del potere, Laterza 1989
[6] Si ricordi il tema fondamentale del ‘Re malato’ nel ciclo letterario del Graal.