mercoledì 30 settembre 2015

Ma il giovane Holden sarà poi diventato uno psicoanalista?


«Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l'avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anatre? Chi sa dove andavano le anatre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelappesca dove. O se volavano via.»
(tratto da: J.D. Salinger, Il Giovane Holden, Einaudi 1977).



Mi sono spesso chiesto perchè Jerome D. Salinger avesse intitolato il suo romanzo più noto, pubblicato nel 1951, “The Catcher in the Rye” (che tradotto suona come:“Il prenditore nella segale”), tanto che alcune traduzioni straniere furono costrette ad inventarsi titoli sostitutivi dal sapore hollywoodiano, come mostra l'allora celebrativo titolo della prima edizione italiana (“Il giovane Holden”), rimasto poi immutato nei decenni successivi.
Sembrerebbe – ma è soltanto una ipotesi – che l'improbabile immagine del catcher (dall'inglese to catch=prendere, afferrare; quindi letteralmente il prenditore, o il ricevitore, che negli States è anche il nome del giocatore di baseball che riceve il lancio dietro al battitore) in un campo di segale si possa riferire ad un verso di una ballad su testo di Robert Burns che il protagonista, il sedicenne Holden Caulfield, riprende in un passaggio del romanzo: la sorellina Phoebe gli chiede cosa voglia fare da grande e lui risponde “che vuole salvare i bambini, afferrandoli prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale..”.
Mi piace pensare, facendo fantasie più piacevoli sul futuro del giovane Holden – futuro ovviamente soltanto virtual-letterario – che egli possa 'in seguito', 'crescendo', esser diventato un medico-pediatra, o piuttosto uno psichiatra infantile, uno psicoterapeuta o uno psicoanalista (verso il finale del racconto si accenna infatti ad un'esperienza analitica che il protagonista sembra voler in futuro sostenere), riuscendo a fare delle sue difficoltà interiori e dei disagi adolescenziali in cui nel romanzo si deve districare un non troppo duro pane per i suoi denti, al fine ultimo di poter aiutare quei bambini ai cui piedi si apre minaccioso il burrone. E penseremmo che un tale esito – come sappiamo – non sia spesso che la naturale conseguenza di un certo vissuto, fatto in prima persona, che costituisce quel terreno adatto su cui si andrà a radicare una certa risoluzione, una scelta esistenziale, una decisione tale che tutte le altre successive non possano che essere secondarie e derivate da questa.
Una simile dimensione non può che definirsi 'etica' in senso terapeutico, nel momento in cui la visione del rapporto tra individui passa attraverso il desiderio dell'uno di aiutare l'altro (e in controluce, ovviamente, di aiutare sé stessi). Etica e rispetto per l'altro sembrano poter essere termini sinonimi, al punto che non si parlerebbe di atteggiamento etico in assenza di un indubbio vantaggio che una certa nostra azione apporterebbe al prossimo, all'interno di un quadro contestuale di significato socialmente e culturalmente definito.
Se le cose stanno così sub specie terapeutica, e quindi in un'ottica – come per es. quella medica innanzitutto – che fa della cura e della guarigione i propri obbiettivi ultimi, non potremmo dire altrettanto per quanto attiene le questioni dell'inconscio, dove l'accezione del termine 'etico' sembra piuttosto doversi declinare in una visione dell'individuo che oltrepassa il confine spazio-temporale della sua ipseità e fare i conti con la sua 'alterità' costitutiva, con quella dimensione che sta tra il me e il non-me (o, potremmo dire, il 'non ancora-me', o il 'mai-me') che si sottrae, per definizione, dal dominio della coscienza. Potremmo infatti dire che, essendo di fronte ad un sistema psichico formato da un duplice (o piuttosto molteplice) piano dimensionale caratterizzato da strutture e processi differenti, ciò che è etico per l'uno possa non necessariamente esserlo anche per l'altro. E viceversa.
C'è infatti – dilagante ormai nei nostri orizzonti culturali planetari e globalizzati di riferimento – tutta una 'retorica del benessere', orbitante soprattutto intorno alla dimensione delle cure mediche e della salute psicofisica (da un po' estesa anche a quella degli 'amici' cani & gatti), che sembra negare in modo radicale – o fuorcludere in senso proprio – qualsiasi elemento di contaminazione con la sfera della sofferenza, della marginalità, della precarietà e della quotidiana fatica del vivere, del caos e della morte in quanto dimensioni 'altre' ma pur sempre fondanti dello psichico. Al punto che questi aspetti sono divenuti materia oscena di quel 'reale' che dall'esterno assedia la nostra vita e perfino la nostra 'civiltà' e viene declinata nei soli discorsi della criminalità, della devianza e della sintomatologia. L'etica della cura diviene allora l'etica del benessere tout court, laddove il 'sintomo', all'interno della odierna cultura medicalistica dei sintomi (vedi alla voce: DSM..), diviene l'elemento sacrificale che, opportunamente debellato ed espunto, deve restituirci un corpo inossidabile ed una psiche riverginata e mondata dalle brutture dell'esistenza, ma soprattutto forte, volitiva, magari con quel pizzico di sensuale spregiudicatezza e di fascinosa arroganza che oggi vediamo associati ai prodotti degli spots pubblicitari. Il tutto su uno sfondo di bagliori epicurei e di narcisismi estremi che coprono il puro vuoto. Se non fosse invece che il sintomo se ne frega delle tendenze e delle convenienze e continua a produrre infaticabile i suoi danni e disagi, se non drammi e tragedie. Anzi, esso si pone in aperta contrapposizione con ciò che connotiamo in termini di piacere personale, oltrepassandolo e aprendo il soggetto al campo sterminato del godimento (quel famoso 'Al di là..' di freudiana memoria), che non ha più la bussola del piacevole-spiacevole ma soltanto l'intensità dell'esperienza che fa di vita e morte un tutt'uno inestricabile.
La grande scoperta di Freud, invece di quella attribuitagli dalla storia recente di un inconscio che forse già gli uomini delle caverne conoscevano in qualche modo, è stata probabilmente proprio quella di indicare, attraverso gli strappi, le omissioni e le incongruenze del testo 'ufficiale', il campo infinito del desiderio sotteso ad un tale godimento impossibile, desiderio che ci rende propriamente ciò che siamo e che attesta la nostra singolarità nel mondo. In un tal senso il sintomo non è, più e solo, un incidente di percorso, un ostacolo da rimuovere sul cammino di gloria dell'Io cosciente, ma godimento intimo con cui il soggetto cerca di recuperare la perdita prodotta dall’iscrizione nel simbolico e al contempo cifra della singolarità del soggetto, che attraverso esso può aprirsi all'altro nello spazio comune della parola.
C'è sempre, dunque, una implicazione etica del soggetto nel suo stesso sintomo, cioè una posizione che il soggetto assume rispetto a quella che potrebbe essere definita come la sua 'più intima estraneità'. Ecco allora che, accanto ed oltre ad un'etica della cura (o della prevenzione) ed in contrapposizione netta ad un'etica del 'benessere', potremmo parlare di un'etica dell'inconscio, ovverossia della misura del desiderio di saperne o della volonta di saperne rispetto ad una tale estraneità-alterità. Ed una tale etica è di fatto pertinenza, diremmo esclusiva (e mai escludente), della psicoanalisi, dai primi esordi freudiani fino al momento sempre rinnovato in cui l'analista assume 'per contratto' con un nuovo paziente la sua posizione di 'soggetto supposto sapere' nei confronti della sua domanda di cura, guarigione e conoscenza di sé. La configurazione iniziale della 'danza' - un pas a deux, ovviamente - è nota: l'uno e l'altro, in misura diversa, accettano il fatto che vi sia una dimensione inconscia cui porre attenzione, mentre al contempo l'analista sostiene e favorisce l'evidenza della realtà di questa presso il paziente. In parallelo, l'azione analitica converge sull'emergenza del desiderio inconscio e sulle molteplici figure metonimiche dell'oggetto materno (la Cosa, l'heideggeriana das Ding..) da sempre perduto e desiderato.
Quest’elemento, questa Cosa, è il primo referente esterno del soggetto, ma al contempo anche il suo più intimo, per quanto estraneo a sé e sconosciuto nella sua reale entità. Intorno ad esso, Altro assoluto e indimenticabile che si tratta di ritrovare e che non può mai esserlo, si struttureranno il desiderio e la domanda d'amore e di riconoscimento al fondo della dimensione inconscia, mentre la distanza da esso è altresì la pre-condizione stessa della parola, quindi della nascita del soggetto propriamente detto. L'edipo, che in seguito sancirà 'per legge' paterna l'intoccabilità della madre da parte del figlio, ribadisce e 'ufficializza', concretizzandola sul piano della sessualità, l'interdizione originaria inserendola nelle forme e nelle dinamiche del famigliare e quindi del sociale.
E' dunque a partire da una tale mancanza, da questo buco originario dell'essere intorno al quale si tesse la tela di una vita, che dovremmo situare il discorso di un'etica dell'inconscio. Essa comincia nel momento in cui il soggetto scopre che l’oggetto del suo desiderio è irraggiungibile anzi introvabile, per sempre perduto ed anzi tenuto da lui stesso a debita distanza, secondo la legge paterna. Ricondurre il desiderio ad una tale matrice può consentire al soggetto di accedere alla propria legge ed al proprio 'destino', ricollocando le tessere di un mosaico al loro posto.
Ma non è sufficiente che vi sia, nel paziente come nel terapeuta, la volontà e la perizia di aiutare e di 'guarire', se un tale movimento non è supportato da un autentico desiderio di sapere su sé stessi in merito alla propria umana fragilità. Un certo 'amore per la verità' si impone ed è solo questo che, alla lunga di un trattamento analitico, riesce ad avere la meglio – se debitamente condiviso dai due attori sulla scena – sui transfert & controtransfert, sulle cadute, le pause, i tempi morti e le riprese. Una passione per la verità, quello della psicoanalisi, che però fa segnare uno scarto decisivo rispetto al discorso della scienza; se in questo il linguaggio dei significanti è incardinato in un ordine prestabilito sotto il dominio della corrispondenza 'esatta' e dimostrabile tra natura ed evento, in quello sono gli stessi significanti che hanno una intrinseca mobilità che li rende fluttuanti, incerti e precari, tal quale è il sottostante desiderio che li anima e alimenta. Alla scoperta scientifica si contrappone così lo svelamento, tuttalpiù illuminante ma fugace, dell'insight psichico che assume un carattere di unicità irripetibile e di sempre e solo relativa certezza.
Ecco perchè quell'immagine del prenditore nella segale rimanda ad una azione ed una posizione etiche che si aprono ad una dimensione ulteriore, in cui cura, benessere e prevenzione non possono che essere manovre sempre insufficienti in una visione dell'uomo caratterizzata da rapporto mai definito e definitivo tra coscienza ed inconscio.
Ed è proprio in questo desiderio di sapere – di saperne su sé stesso cioè sul proprio desiderio – che l’analista sostiene l’analizzante, che lo sorregge nel momento in cui gli si apre sotto i piedi il baratro, quel buco senza fondo che ci appartiene. Poichè solo in questo luogo, dove vita e morte si toccano, dove si avvertono la fondamentale solitudine e lo smarrimento dell'uomo di fronte alla sua intima fragilità, dove egli incontra finalmente sé stesso, può esserci una redenzione.