lunedì 10 settembre 2018

Per un'etica della alterità


Sappiamo che l’etica (dal greco antico èthos, ovvero 'carattere', 'comportamento', 'costume', 'consuetudine') è quella branca della filosofia che studia la condotta degli esseri umani e i criteri in base ai quali si valutano i loro comportamenti e le loro scelte. Le riflessioni sull’etica, e quindi sulle implicazioni dell'agire umano, hanno origini molto antiche e i primi a farne vero e proprio oggetto di riflessione filosofica per quanto riguarda l’occidente furono (ça va sans dire..!) i Greci antichi: Socrate, Platone, Aristotele, ci hanno lasciato scritti sui quali in seguito con l’Illuminismo, e in particolare con Immanuel Kant, si è andata costruendo la visione etica dell'uomo moderno, definendo i presupposti razionali dell’agire morale dell’uomo e richiamandosi alla necessità di un’etica improntata su un rigoroso senso del dovere e del rispetto della libertà altrui.
Semplificando il concetto, parlando di etica ci si riferisce ad ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, al fine di individuare cosa sia bene per lui e i mezzi atti a conseguirlo, ma anche quali siano i doveri morali dell’uomo verso sé stesso e verso gli altri e quali i criteri per giudicare sulla moralità delle azioni umane rispetto alle categorie di ‘bene’ e ‘male’. Definire ciò che è etico o meno, e quindi ciò che è bene da ciò che è male, è tuttavia complicato dal fatto che alla base di tale distinzione sta una determinata visione dell’uomo e dei rapporti umani spesso correlata ad una particolare religione o ideologia. Possiamo quindi ad esempio distinguere tra un'etica religiosa, le cui norme di comportamento sono da intendersi come valide a priori, ed un'etica laica (o un approccio laico ad un problema etico), più incline a misurarsi con le esigenze umane in riferimento al concreto contesto storico-sociale in cui si esprimono.
Se la psicoanalisi ha una sua etica (o forse oggi potremmo anche dire che 'è' anch'essa un'etica, divenuta tale dopo un secolo e mezzo di freudismo culturale..) questa deve essere ravvisata nella stessa natura dell'inconscio in quanto Altro, cioè nella sua dimensione di alterità rispetto alla coscienza di sé propria della dimensione dell'Io.
La maggiore 'scoperta' freudiana e della psicoanalisi tutta, secondo cui in definitiva 'l’io non è padrone in casa propria', (ma sappiamo come questa 'rivelazione' sia stata in realtà preparata e assimilata nel tempo precedente l'avvento del freudismo anche grazie all'esplosione del 'fenomeno' Nietzsche..), ha rappresentato probabilmente il vero motivo di una ostilità latente da parte di una certa cultura positivista fin de siecle nei confronti del discorso psicoanalitico fin dal suo primo apparire e che permane a vari livelli anche oggi, quando una certa visione iperscientifica e tecnicistica dei processi mentali pretende di 'spiegare', con tanto di statistiche e di diagrammi di flusso, cosa accade nella mente degli individui. Ma una tale pretesa di scientificità finisce solo per privarci di quella dimensione di alterità, di quella presenza dell'Altro che è costitutiva della natura umana, che sola ci può rendere non definiti a priori da meccanismi stimolo-risposta ed aperti ad una forma di trascendenza (laica!) che dà una connotazione simbolica, poetica e ulteriore alla nostra esperienza di essere nel mondo.
Qualcuno mezzo secolo fa (1) parlava in proposito dello psicoanalista come di un 'rebut de la societè', un rifiuto della società, uno scarto, indicando che chi vuole praticare la psicanalisi deve accettare di rimanere in questo 'altrove' - o secondo una più recente espressione di G.Le Gaufey (2):“ai confini delle terre giuridicamente accatastabili” - dove le norme giuridiche e le leggi dello Stato, come anche quelle implicite della società in quanto aggregato di soggetti (i 'cittadini'), non hanno autorità nè potere, essendo questo 'altrove' caratterizzato da un'altra logica, sua propria, che risponde alla sola clausola di unicità dell'individuo: non replicabile, non categorizzabile, non omologabile, quindi non riducibile a riduttivi schematismi e statistiche predittive. Questo fondamentale 'vuoto' giuridico, politico e sociale, è speculare alla mancanza di fini ed obiettivi della stessa psicanalisi, al di là della possibilità di instaurare col paziente un discorso di verità che si determina sulla base della sua unicità e procede solo ed esclusivamente nel transfert, cioè nel rapporto a due col terapeuta.
In tal senso, abbracciare l'etica dell'alterità significa allora creare le condizioni interiori affinchè il nostro Io non insista nell'illusione di essere onnipotente, che il nostro essere si risolva interamente nel nostro Io e in ciò che conosciamo ed accettiamo in noi, bensì indebolire una certa rappresentazione di noi stessi che ci ha evidentemente condotto ad un punto morto, alla paralisi della nevrosi, mettendolo dunque nella possibilità di ascoltare quelle voci di dentro e di fuori che suonano a tutta prima stonate, stridule, cupe, incomprensibili, voci che nel togliere centralità assoluta all’io offrono al soggetto l’opportunità di scoprire quei territori di ombre e nebbie, di indefinito, di vago e immaginifico, al di là e oltre le 'terre giuridicamente accatastabili'..
In tutto questo, è il ruolo della parola stessa nella sua potenzialità creativa, espressiva e maieutica a divenire centrale e ad alimentare il processo di trasformazione nell'ottica della alterità; lapsus, vuoti di parola, amnesie, tutti questi piccoli 'sintomi' ci mostrano come il linguaggio, unitamente ai sogni (che è in realtà un parlare per immagini), rappresenti il canale principale attraverso cui la nostra 'alterità costitutiva' si rende palesemente operativa (a volte fin troppo!..Se pensiamo a come ci sentiamo quando commettiamo un lapsus che svela un pensiero sottostante non proprio in sintonia con la nostra personalità cosciente).
Un etica della alterità propone dunque un recupero, anzi una salvaguardia, di tali territori d'ombra e nebbie perenni; piuttosto che considerare tali manifestazioni – così come i sintomi psicopatologici veri e propri – come 'errori' da eliminare, come input difettosi, occorre preservare una tale originaria indefinitezza e informità, dove la congiunzione (questo e quello) si sostituisce sempre alla alternativa (questo o quello).
Oggi, nei nostri mondi ipertecnologici, ci si scopre sempre più deprivati di questa fondamentale alterità, quasi che si rischiasse una 'perdita di inconscio' di fronte ad una crescente ipertrofia dell'Io (3). La corsa consumisitca all'oggetto nuovo, subito sostituito con un altro ancora, sembra l'equivalente esterno di un tale atteggiamento interiore in cui più che il godimento dell'oggetto in quanto conosciuto e valorizzato vige il suo possesso, anche se effimero e fugace.
In questo scenario, in cui la soggettività stessa tende a scomparire a vantaggio degli apparati sociali di conformismo e adattamento, l'atteggiamento analitico rimane dunque un sapere letteralmente 'critico' – in quanto aderente alla dimensione di crisi permanente della condizione umana, ma pure orientato nel senso di valorizzare l'unicità del singolo contro il potere soverchiante del collettivo-sistema – un sapere cioè che non mira a convalidare e legittimare l’ordine sociale egemone, adottando logiche e valori prestabiliti dalla Legge o piuttosto dal 'mercato globale'.
E questo almeno finchè ci sarà 'un pezzo di terra non accatastabile', dove continuare a coltivare il sintomo, il sogno, l’immaginazione, la poesia e la speranza.


(1) Jacques Lacan
(2) Guy Le Gaufey – Appartenere a sé stessi. Anatomia della terza persona. Polimnya Edizioni
(3) Gli antichi, sicuramente più saggi di noi, sapevano difendersi da una tale sciagura attraverso le molte divinità che veneravano. Ma poi giunse il Cristianesimo..