lunedì 20 giugno 2011

Panta rei


Idealmente, una qualunque seduta di psicoterapia è un momento di un percorso, un fotogramma di un lungometraggio, una frase musicale di una composizione strutturalmente complessa e articolata. Praticamente, il susseguirsi di una seduta all'altra produce un effetto storiografico, per cui il vissuto di una persona viene a determinarsi in senso longitudinale, diacronico, secondo una logica stringente di causa-effetto che ne riempie i vuoti, le dimenticanze e le omissioni; una narrazione piana, lineare, comprensibile, viene progressivamente a saturare la dimensione della ricerca soggettiva di senso, consentendo la messa a fuoco di aspetti-parti-tempi-luoghi di/del sé, che in tal modo possono essere riconosciuti, ordinati, finanche catalogati, dandoci l'impressione di una operazione demiurgica di costruzione di un Kosmos laddove c'era solo il Caos primigenio.
Tecnicamente, in senso diremmo 'psychoanalytically correct', ogni seduta d'altro canto è (o dovrebbe essere) una trascrizione sui registri pulsionale e affettivo di una variegata mole di dati inerenti il vissuto soggettivo dell'analizzando, così come il susseguirsi delle vicissitudini di rapporto con figure parentali interiorizzate rivissute nel transfert, oppure – in un'ottica junghiana-archetipale – l'individuazione di costellazioni archetipiche attive e predominanti in un dato momento evolutivo. E via discorrendo...Ma, al di là delle diverse angolazioni da cui si osservano le cose, soprattutto ogni seduta è qualcosa di unico, di irripetibile, dove una particolare confluenza di eventi, dentro e fuori di noi, caratterizza in modo peculiare l'atmosfera del momento. L'incontro-scontro di due sistemi umani altamente differenziati, ognuno con le proprie contingenze e vicissitudini esistenziali dell'hic et nunc, quali sono i partners analitici (ma così come qualsiasi altro dispositivo di relazione tra due o più persone che non si limiti ad una solo superficiale conoscenza reciproca), produce risultati solo in parte prevedibili, aprendo invece il campo a molteplici livelli di interazione, identificazione, coinvolgimento, di cui il famigerato 'transfert' a stento riesce a suggerirne le abissali profondità e ancora meno una loro realistica estensione.
Non vi sono mai, quindi, due sedute simili. E se così fosse – se la nostra percezione presumesse di trovarsi nella stessa condizione rispetto ad una precedente seduta – saremmo legittimati nel ritenere che, contrariamente all'affermazione di Eraclito, sia possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume (1)...
Se rimaniamo infatti all'interno della metafora 'fluviale', ci è facile osservare come il rituale statico e immutabile delle sedute (stesso luogo, stessa ora, stesso giorno della settimana..) introduca in realtà ad un oltrepassamento, al superamento di una soglia, all'accesso in uno spazio-tempo che, pur caratterizzato da coordinate ben riconoscibili nell'al-di-quà del quotidiano, allude ad una alterità di sostanza di cui solo i confini e l'involucro esterno rimangono conosciuti, anzi usuali nel loro monotono ripetersi, mentre 'all'interno' riposa il mistero (ciò che 'accade' tra terapeuta e paziente, o meglio, tra i loro due 'inconsci' in reciproca comunicazione).
Singolare paradosso: lo 'spazio-tempo' della seduta, quei cinquanta-e-passa minuti che intercorrono tra l'ingresso del paziente e la sua uscita dalla stanza di analisi, rappresentano un 'momento di eternità' incastonato a forza tra le ore x e y di un qualsiasi giorno della settimana: coordinate che individuano quello spazio 'sacro' ( non ce ne vogliano i religiosi di ogni fede per l'utilizzo solo apparentemente improprio di tale termine!) dove vengono sospese le logiche identitarie del quotidiano, dove passato e presente tornano a mescolarsi in nuove, spesso inusitate geometrie. Luogo creativo per eccellenza, l'ora di seduta concentra e amplifica le dissonanze del vivere per tendere verso una faticosa, ritrovata armonia, una ostinata volontà di ricomposizione degli strappi e dei buchi sul tessuto dell'esistenza.
Ma è soprattutto la possibilità di condividere il proprio dolore e i propri affanni, così come la speranza di una catarsi benigna che la presenza dell'altro dovrebbe garantire 'per contratto' (ma bisognerebbe prima o poi mettersi tutti d'accordo su cosa vuol dire 'guarire' in senso psicologico più profondo, al di là della ricerca del benessere ad ogni costo..), che nei fatti spingono i più ad un trattamento psicoterapeutico e i meno ad una psicoanalisi classica. La sovra-dimensione ulteriore e potenzialmente generativa del rapporto terapeutico rimane un discorso ai margini del processo, a latere, e in fieri, e mantiene tale statuto solitamente per l'intera durata del rapporto, salvo forse l'emergere in particolari momenti di particolare limpidezza del senso soggettivo di essere-con-l'altro o di reciproca ispirazione dei partners.
Ciò che accade in una seduta accade dunque sempre per la prima volta, per quanto le forme esteriori possano sembrare già viste, i discorsi dell'altro già uditi, le conclusioni già scontate. L'essenza misterica o sacrale dell'incontro risiede in quel senso di fiduciosa intimità e vicinanza emotiva all'altro (in realtà un 'perfetto estraneo', ma in virtù di ciò tanto più preziosa è la sua funzione terapeutica che consente di approcciare la propria, intima estraneità), che scorre anch'esso e si rafforza attraverso le sedute, nelle settimane, nei mesi, negli anni.
E se dunque 'tutto scorre', così scorrono – e in modo irrecuperabile – i minuti della seduta verso la loro conclusione. In ogni fine-seduta si mette in scena la tragedia della perdita e si allude al potere senza limiti della morte; tutto finisce, sembra ribadire ogni volta la fine dell'ora analitica al sempre impreparato paziente, che scuotendosi un poco sulla poltrona si prepara a riconquistare non senza fatica le dimensioni più note e consolidate del suo Sè. Ma anche in questo ripetuto commiato può sopravvivere nel tempo una possibilità: che qualcosa rimanga, vivo e presente, in fondo all'anima solitaria, e che continui a fare domande e a richiedere risposte.


(1) Com'è noto, Cratilo, suo discepolo, inflazionerà il concetto giungendo ad affermare che non solo non ci si può immergere due volte nello stesso fiume, ma neanche una singola volta 'poiché l'acqua che bagna la punta del piede non sarà quella che bagna il tallone'. Pur essendo tale conclusione logicamente irreprensibile, è nota la passione dei filosofi greci per il paradosso, per cui - per sostenere la tesi eraclitea che qui ci interessa - ammettiamo che, se non due, almeno una volta ci sia concesso bagnarci nello stesso fiume.