lunedì 3 dicembre 2012

Storie che curano


Prendiamo a prestito questo titolo – essenziale, pregnante, esaustivo nella sua concisione – di un noto libro di James Hillman, per ribadire alcuni elementi centrali dell'attuale discorso e prassi psicoanalitici e della costante evoluzione del progetto freudiano, testimonianza di una sua perdurante vitalità che contraddice i tanti, troppi, detrattori odierni della psicoanalisi, che la vogliono relegata ormai ad una pratica antiquata ormai agonizzante se non già bell'e sepolta...Al di là della declinazione archetipica propria della visione hillmaniana, che qui non prenderemo in considerazione, le 'storie che curano' evocano infatti in modo diretto il ruolo fondamentale che riveste nel processo terapeutico l'azione del racconto, il raccontarsi, il narrare la propria esperienza soggettiva inserendola in un 'testo', scritto o parlato che sia, comunque condivisibile e quindi storicizzabile.In opposizione ad una accezione denigratoria del termine 'storie', intese anche, almeno nella lingua italiana, come argomentazioni fantasiose o poco convincenti ('..le tue sono tutte storie!') – suggerendo che la psicoanalisi in definitiva non sia altro che un modo per 'raccontare/inventare storie al fine di costruire una pseudo-realtà condivisa del presente e del passato del paziente, o nel peggiore dei casi addirittura 'impostagli' dall'analista attraverso le sue teorie ed interpretazioni – il senso che si vuole qui ribadire è quello invece di una narrazione di sé sostenuta da fatti, sentimenti ed emozioni vissute che cercano nella parola una naturale possibilità di espressione, di comunicazione e, talvolta, o spesso nel caso di sedute terapeutiche, di liberazione.
La possibilità di riscrivere la propria storia non deve essere quindi considerata come un tentativo onnipotente di cambiare le carte in tavola rispetto ai fatti ed al proprio passato, quanto piuttosto un modo nuovo di osservarli e di trarne ulteriori rimandi e significazioni, che possano essere utilizzati per una più comprensiva e consapevole rappresentazione di sé. Non si tratta cioè di ricostruire il 'testo' storico, secondo una certa deformata visione della prassi freudiana (la 'metafora archeologica' della ricomposizione pezzo per pezzo del mosaico del proprio tempo vissuto è stata fin troppo utilizzata ed intesa quasi alla lettera), quanto di costruire ex novo per mezzo della parola uno scenario più realistico in cui far convergere anche tutto quanto non ha né ha mai avuto accesso alla propria consapevolezza, o lo ha avuto solo parzialmente attraverso le deformazioni del sintomo nevrotico o in modo implicito attraverso il corpo e le sue patologizzazioni.
Il processo di 'soggettivazione', che conduce l'individuo ad essere sempre più coincidente con la propria parabola esistenziale, in una continua riappropriazione di sé e della propria storia, presuppone che si inneschi una dinamica di continuo scambio tra passato e presente ma in cui il primo termine non sia una forma meramente predeterminata, stabilita in illo tempore e una volta per tutte, quasi fosse una specie di 'versione ufficiale' della propria vita, dogmatica e immodificabile, o un racconto cristallizzato della 'fiaba' della propria infanzia e adolescenza.
L'esistenza, in altri termini, si storicizza a partire dal movimento di apertura che il tempo presente, nel suo incessante declinarsi al futuro, imprime alle nostre vicende anagrafiche: il risultato è una continua ri-significazione di ciò che è stato (che si contrappone per esempio a ciò che Lacan intende con il 'limite del reale', che non consente alcuna ulteriore trasformazione simbolica).
E' invece proprio questa possibilità di trasformare il passato in una nuova conoscenza di sé operante nel presente a mantenere aperto il proprio orizzonte esistenziale, e questo fatto ci consente di stabilire anche un diverso significato della temporalità del nostro vissuto, che non è quella di uno sviluppo uniforme e progressivo ma è un avvicendarsi di movimenti complessi e contrastanti, di epifanie e riordinamenti, di morti e rinascite e di continue vicissitudini del proprio essere nel mondo. Potremmo dunque dire che il soggetto individuale si realizza e giunge a compimento (ma sempre e solo relativo, poiché non c'è fine al modo di essere se stessi) soltanto nella perenne attività di soggettivazione di ciò che è stato, e tutto questo accade grazie e attraverso la parola. 
E' lo strumento della parola che permette infatti di ricongiungere passato e presente di volta in volta da un vertice differente, da un diverso punto di osservazione, che ora è rappresentato da un sentimento, ora da un ricordo, ora da un'emozione che stiamo vivendo, qui ed ora. In ogni caso la parola (e/o la sua scrittura, ovviamente) interroga il nostro passato e in tal modo lo resuscita e lo conduce a nuova vita. In questo ciclico riaprirsi dello spazio/tempo soggettivo la parola 'condivisa' (quella cioè che viene concepita e scambiata dagli interlocutori analitici) introduce di volta in volta i semi che porteranno ad una nuova fioritura di senso e di significato su di sé e sul proprio mondo. E questo al di là e oltre il discorso degli obiettivi terapeutici, che soprattutto oggi vengono rincorsi e sbandierati da troppe psicoterapie come indubitabili indicatori di 'guarigione del paziente' (rinforzo dell'Io, aumento della stima di sé, miglioramento delle relazioni sociali e altri adattamenti più o meno conformistici alla realtà, etc..), queste sì 'storie' nel senso inferiore del termine, in quanto espressione di una totale adesione a certi moderni modelli sociali e di pensiero prevalenti o imperanti in cui ogni divergenza dalla norma prestabilita viene vista come alterità o patologia.
Ma le storie che curano, quelle vere, non si lasciano irretire dalle mode culturali e dai condizionamenti sociali, seppure forti e dilaganti come in questi nostri tempi, poiché hanno a che fare con l'unicità della persona, e con la sua intima alterità costitutiva, che esige un confronto autentico all'interno dello scenario del proprio Sè, lontano dai paludamenti del benessere per tutti e a costi popolari... Esse 'curano' in quanto storie e narrazioni di sé sempre aperte alla possibilità di un proprio superamento e di una nuova riscrittura nel presente, e a patto che siano sentite di volta in volta più vere e definitive rispetto a tutte le altre precedenti che pure integrano, arricchiscono e poi sostituiscono, lasciandosele infine alle spalle. 
Come se, storia dopo storia su e intorno a noi stessi, ci si avvicinasse sempre più alla nostra vera storia, a quello che siamo diventati, poiché in ognuno di noi sembra esserci il bisogno, a volte la improrogabile necessità, di raccontarci a noi stessi, magari alla presenza di un testimone benevolo.



mercoledì 12 settembre 2012

Uno, due, tanti Io





«Sia sul piano scientifico che su quello morale, venni dunque gradualmente avvicinandomi a quella verità, la cui parziale scoperta m'ha poi condotto a un così tremendo naufragio: l'uomo non è veracemente uno, ma veracemente due.»
R.L.Stevenson - Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde, Einaudi tascabili, 1996

«Nell’età odierna, siamo giunti a comprendere come i nostri sé siano compositi, spesso contradditori, persino internamente incompatibili. Abbiamo capito che ciascuno di noi è molte differenti persone. I nostri sé più giovanili differiscono dai nostri sé più anziani; possiamo essere spavaldi in compagnia di chi ci ama e timorosi di fronte ai nostri impiegati, di sani principi quando educhiamo i nostri bambini e corrotti quando ce ne venga offerta qualche segreta tentazione; siamo seri e frivoli, chiassosi e silenziosi, aggressivi e facilmente turbati. La concezione del diciannovesimo secolo di un sé integrato è stata rimpiazzata da questa folla sgomitante di “Io”. E tuttavia, a meno che noi non siamo danneggiati, o squilibrati, abbiamo di solito un senso relativamente chiaro di chi siamo. Concordo coi miei molti sé per chiamarli tutti "me".»
  
S.Rushdie, India at five-O. Time Magazine, 11.8.1997




Probabilmente, la prima domanda che gli uomini si sono posti – dopo aver stabilito di essere qualcosa e poi qualcuno – è stata 'Chi sono io?'. La domanda fu subito oggetto di interesse di alcuni tra essi che intravidero in questa (apparentemente) innocente interrogazione la possibilità di dare il loro contributo al gruppo sociale (ma spesso anche per esercitarvi una forma di potere e di controllo: vedi 'il buon pastore e le pecorelle smarrite' per quanto riguarda il versante religioso o in seguito il mito della 'normalità' su quello delle scienze psico-sociologiche ..). Vennero così prima gli sciamani, poi i sacerdoti, poi i filosofi dell'antichità, quindi quelli dell'età moderna e in ultimo psichiatri, psicologi e psicoanalisti che ne stanno ancora discutendo. Ad oggi tuttavia la risposta è ancora incerta e la storia dell'umanità procede in attesa che si riesca finalmente un giorno a trovarla. Alla voce 'io', per esempio, così recita il vocabolario (1) : […] Come s.m., l'uomo in quanto ha coscienza di se stesso e del proprio mondo. (estens.) La persona in quanto egoisticamente circoscritta […]. Nella filosofia moderna: la coscienza e la personalità umana in quanto soggettività. Nella psicoanalisi: L'Io (con iniziale maiuscola) è l'organizzazione più coerente dei processi psichici: è la parte della psiche che si mette in relazione sia con l'ambiente esterno che con il proprio inconscio e permette al soggetto di adattarsi alla realtà nel miglior modo possibile, valutando le percezioni, gli aspetti spazio-temporali, e interpretando i fatti in senso critico..1Per il senso comune, ne sortisce l'idea di una comunione indissolubile tra l'io e la soggettività dell'individuo, ciò che è più propriamente sé stesso, che gli appartiene e lo distingue da tutti gli altri. Potremmo anche dire che così come l'inconscio ci rende 'tutti uguali' (primo esempio di principio personificato di democrazia della natura umana!), la coscienza – e l'Io che ne è l'espressione diretta – ci fa diversi, ci 'identifica', ci separa da tutti gli altri e ci costringe in una rappresentazione di noi stessi, in un ruolo, in un modo particolare – unico anzi – di essere e di sentire. Che cosa infatti ci rende differenti gli uni dagli altri, se non il nostro Io, costruitosi nel tempo giorno dopo giorno, esperienza dopo esperienza, ricordo dopo ricordo, pezzi di vita che si accumulano nella coscienza incastrandosi in irripetibili opere uniche?
.. Ma che fine ha fatto oggi l’io? Intanto, come visto, si è duplicato, anche concettualmente, dall'avvento della psicoanalisi, che lo ha titolato in maiuscolo (forse per 'risarcirlo moralmente' in qualche modo dopo averlo ridotto a semplice comprimario di Es e SuperIo: ..una specie di nobile decaduto!). Ma soprattutto si è passati dalla iniziale domanda dell'umanità: 'chi sono io?', a quella ben più complicata: 'che cos'è l'Io', che apre un vuoto abissale sotto i piedi della coscienza storicamente intesa come centro della soggettività raziocinante e autoconsapevole.
Un passo indietro. Fino a un secolo fa avevamo lasciato l'io, ancora integro, nelle mani di Cartesio, che pose il 'cogito' a fondamento della sua costruzione filosofica: 'penso, dunque sono' diceva, sottintendendo chiaramente un 'io' all'inizio della frase e/o tra la seconda e la terza parola. E questo 'io', conchiuso e definito in sé stesso, aveva viaggiato per secoli, simile ad un veliero sul mare infinito, sfidando onde e tempeste. Ma qualcosa deve essersi cominciato a rompere già sul finire del '700, quando la rivoluzione francese, portando all'estremo la fiducia nel 'lume della Ragione' , tagliò le teste regali e dimostrò che esse potevano tutto sommato essere sostituite da altre teste, affatto regali, ma ugualmente raziocinanti (dall'assolutismo della monarchia a quello della ragione..). Tra Sette ed Ottocento, la filosofia occidentale, con Kant prima ed Hegel poi, ha tessuto le lodi della Ragione autocritica che riesce a sottoporre ad esame la sua stessa capacità di conoscere, pervenendo ad un ideale di conoscenza che passa attraverso un approdo 'trascendentale' alla problematica soggetto-oggetto. Come al solito però fu l'arte a farsi carico di mettere alla portata di tutti un certo cambiamento nel modo di considerare il proprio 'io'. Quando nel 1886 R.L.Stevenson pubblica il suo 'Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde', e pochi anni dopo Oscar Wilde pubblica Il ritratto di Dorian Gray, il mondo culturale ha già da tempo ingerito il virus che porterà la coscienza dell'uomo moderno ad una progressiva destrutturazione e allo sfaldamento di assetti consolidati sotto la spinta dei cambiamenti radicali apportati dal progresso scientifico e dalla nascente tecnologia industriale. L’io che Freud si ritrova tra le mani sul finire del secolo scorso è quindi una entità già minata da una profonda scissione interna, ed il compito della psicoanalisi nei decenni successivi è stato appunto quello di mostrarne il reale funzionamento tra meccanismi difensivi di adattamento, compromessi nevrotici e rotture psicotiche. Ed è soprattutto nella sua concezione del sogno, come rappresentazione della conflittualità della mente in una sorta di 'teatro interiore', che Freud per primo ci mostra in dettaglio come funziona il nostro io e a quale profondità arrivino le sue radici, evidenziandone la struttura composita ed assegnando ai personaggi del sogno ruoli e funzioni diverse all'interno della complicata dinamica relazionale tra i diversi aspetti del proprio sè .
L'io di Freud (l'Io della seconda topica, per intenderci) ha subito anch'esso una trasformazione sostanziale rispetto alla sua iniziale concezione dei sistemi psichici differenziati in Conscio-Preconscio-Inconscio. In questa prima formulazione, propugnata fino agli anni '20 del Novecento, l'io freudiano coincideva con la personalità totale e in sostanza con l’aspetto cosciente del funzionamento mentale; qui la nevrosi ed il conflitto psichico è originato dal rapporto tra l'Io e la sessualità (intesa nel senso di una sessualità infantile 'perversa e polimorfa', secondo la definizione delo stesso Freud), ciò che determina il fenomeno centrale della rimozione ed il rimosso. Con la pubblicazione di Introduzione al narcisismo (1914) questa visione comincia a subire un primo cambiamento e l'Io viene considerato non più come il semplice censore delle rappresentazioni attinenti la sfera sessuale ma piuttosto come esso stesso strutturato ed alimentato dalla componente libidica (le fasi orale, anale e fallico-genitale corrispondenti alla attivazione libidica sequenziale di specifiche zone erogene). Qui tuttavia l'Io è ancora espressione di un sistema 'pulsionale' interno-soggettivo che si contrappone all’investimento oggettuale, cioè all’investimento nei confronti di un oggetto esterno. Intorno agli anni '20, la svolta del pensiero freudiano giunge a una rappresentazione della struttura psichica in termini di 'istanze', cioè l’Io, l’Es ed il Super-Io ed alla differenziazione delle pulsioni fondamentali in pulsioni di vita e di morte. In questa nuova visione emerge da un lato tutto il potere smisurato dell'Es, da cui lo stesso Io trae energia, e dall'altro la funzione censoria del Super-Io, che costringono l'Io ad un ruolo di perenne mediazione e compromesso rispetto alle sempre mutevoli esigenze della realtà esterna. A questo drastico ridimensionamento dell'autonomia dell'Io rispetto alle prime concettualizzazioni si devono poi aggiungere altri aspetti relativi alle dinamiche primarie di relazione oggettuale quali l'imitazione, l'introiezione, l'identificazione, dinamiche approfondite da Freud proprio in quegli anni, che rendono ancor più complesso il quadro e portano ad una concezione del ruolo e della funzione dell'Io in senso sempre più relazionale e dipendente dalle precoci identificazioni con l'oggetto genitoriale. Questo nuovo scenario, e le molteplici dinamiche alla base dei meccanismi di formazione del sistema dell'Io, rendono quindi sempre più complessa la sua struttura ed al contempo anche più fragile e sottoposta al rischio potenziale di una 'destrutturazione', o di una 'frattura', in concomitanza di momenti e circostanze della vita particolarmente carichi di valenze e significati emotivi ed affettivi. In una famosa metafora, Freud parla di 'linee di frattura' della struttura dell'Io paragonandole a quelle che si osservano nei cristalli, che si verificano invariabilmente sulla base delle loro dinamiche strutturali di formazione. L'io, dunque, in determinate situazioni si 'romperebbe' secondo linee precostituite, rintracciabili nelle strutturazioni più deficitarie della nostra psiche e in determinati 'punti di fissazione' o di patologica deviazione dello sviluppo evolutivo. Ciò che emerge con evidenza da questa nuova concezione, che verrà più tardi ampliata e ribadita da Freud in La scissione dell'Io (1938), è dunque l'aspetto strutturalmente diviso e frammentato, ab origine, dell'Io, un sistema che funziona solo in quanto sintesi più o meno armonica di elementi eterogenei, integrati in una struttura complessa e sottoposta a forze spesso soverchianti che possono provocarne in qualsiasi momento l'indebolimento e lo sfaldamento...(continua


Il presente brano è tratto dal saggio breve dal titolo omonimo, di prossima pubblicazione nella sezione 'Scritti' del sito web: www.fernandomaddalena.it






1Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli

lunedì 21 maggio 2012

Il simbolo tra presenza e assenza



Non si darà mai troppa importanza, nella psicoanalisi come in tutte le altre discipline che hanno al centro del loro interesse l'uomo ed il suo funzionamento mentale, al potere del simbolo e del simbolico, inteso questo come l'universo di significati che fungono da cornice ad un dato accadimento psichico.
In ambito psicologico potremmo definire il simbolo (dal greco sym-ballein, che sta per legare, collegare, mettere insieme) come il risultato della complessa operazione psichica di attribuzione di un senso ad un dato oggetto (mentale o fisico), in attesa di un significato più pienamente condiviso in termini logico-scientifici e socio-culturali.
Il simbolo si caratterizza allora in questa accezione come uno stato di tensione o di 'gravida' sospensione tra dimensioni psichiche non omogenee, cioè non appartenenti ad una stessa matrice di significato (per esempio la struttura di coscienza) e pertanto tra loro solitamente non rapportabili e di cui una non altrimenti conoscibile, se non per il tramite di quel sottile 'ponte' che la congiunge alla terraferma della ratio logica.
Il simbolo infatti non indica, ma 'allude', non definisce, ma suggerisce, non conclude, ma apre. Esso tende ad una verità 'altra' rispetto alla ferrea concatenazione dei fatti della nostra mente cosciente, e in tal senso promuove una sorta di 'alterità controllata', una immersione o ascensione – a seconda dei punti di vista – in una dimensione presente solo in potenza e che in tal modo, attraverso questo dispiegamento di senso, può essere almeno in parte meglio integrata nel nostro abituale sistema di pensiero.
Se infatti il nostro pensiero razionale utilizza una modalità analitica in cui percezione e cognizione 'frantumano' l'oggetto e ne traggono gli ingredienti di base, per poi riassemblarli eventualmente in nuove configurazioni di significato costruite consensualmente ad un dato codice culturale di appartenenza, quindi una modalità essenzialmente 'dissociativa' che separa e distingue, il pensiero simbolico utilizza invece un codice eminentemente affettivo – potremmo dire un 'pathos' al posto del 'logos' – che unisce, comprende e include l'oggetto in una più ampia esperienza cognitiva ed emotiva insieme, esperienza che non de-finisce in base al già acquisito, ma che istituisce una tensione in grado di stimolare un nuovo campo semantico, in cui possono trovare spazio fertile nuove interpretazioni senza per questo concludere e saturare di senso (il simbolo è di per sé un'oggetto 'insaturo', che vive finchè è attraversato da molteplici significati e muore quando lo si riduce ad un oggetto concreto o ad un concetto definito).
Potremmo dire che ogni nuovo oggetto che si forma nella nostra mente, quindi ogni 'cambiamento mentale' (ed è di questo che, come sappiamo, tratta in particolare la psicoanalisi), risenta delle vicissitudini proprie di un processo di simbolizzazione in cui si ripete – ogni volta con le dovute diversificazioni – una dinamica, una trama o un percorso, che in un tempo antico, anzi ab initio, ha già avuto luogo in noi nel mentre che il nostro universo prendeva forma e dimensione sull'immagine dei nostri 'primi oggetti', cioè le nostre prime figure di riferimento: i nostri genitori...
In 'Al di là del principio di piacere' (1920), S.Freud inserisce la descrizione di una scena del suo quotidiano che, da acuto osservatore qual'era, trasfigura in un esempio 'vivente' di simbolizzazione quale avvenimento centrale per la vita psichica del bambino. E' il famoso episodio del 'rocchetto', in cui il nipotino di un anno e mezzo gioca con un rocchetto di filo, dipanandolo e riavvolgendolo ripetutamente, mentre al contempo pronuncia in successione due distinti fonemi, 'o-o-o' e 'da', che Freud identifica nelle parole tedesche 'fort' e 'da', che stanno per 'via, lontano' e 'qui'. L'attenzione di 'nonno' Freud si concentra soprattutto sulla modalità giocosa ma molto coinvolta in cui il bambino allestisce la sequenza dei gesti e delle parole pronunciate, infine sulla visibile soddisfazione che sembra ricavarne, dopo aver lanciato il rocchetto, in concomitanza della fase di recupero dello stesso attraverso il filo, sottolineata dall'esclamazione 'da'.
L'intuizione freudiana interpreterà la scena come la messa in atto da parte del bambino di un tentativo di padroneggiamento della assenza della madre, che quando non è stata presente percettivamente per il bambino ha fino a quel momento ingenerato in lui un sentimento di perdita, che il gioco 'inventato' dal bambino stesso ha il compito di trasformare in una esperienza meno dolorosa, producendo così in lui una sensazione di potenza soggettiva ed affermazione di sè. In altri termini il bambino sta trasformando un'esperienza di perdita che vive in maniera totalmente passiva in una condizione 'attiva' in cui attraverso l'azione volontaria riesce a simboleggiare la possibilità di un controllo dell'oggetto perduto, che può così far riapparire egli stesso 'a volontà'...
In questa piccola scena domestica – dice Freud – sta avvenendo un'esperienza fondamentale di simbolizzazione che consentirà al bambino, con le sue proprie forze e risorse (nessuno infatti gli ha mai insegnato il gioco, e in ogni caso ovviamente nessuno al suo posto ha caricato quel gioco di una tale significazione) di compiere un salto enorme nel suo sviluppo psicologico, poichè a partire dalla ripetizione di quelle semplici sequenze egli sta in sostanza affrontando e portando a compimento una operazione psichica di incalcolabile importanza, centrale affinchè egli possa affrontare la vita futura che lo attende con una almeno sufficiente capacità di adattamento ed intraprendenza.
Diremmo che l'episodio del rocchetto magistralmente descritto da Freud potrebbe quindi essere identificato quale metafora centrale non solo del processo di simbolizzazione che si dispiega nel bambino a partire dal primo anno e mezzo di vita (l'acquisizione della capacità linguistica è solo il punto di arrivo di un processo ben più complesso dal punto di vista psicologico), bensì del processo evolutivo globale della mente infantile che riesce ad affermare se stessa nel mondo a partire da una condizione di dipendenza totale dalle proprie originarie figure di accudimento.
Ma la stessa metafora potremmo applicarla in realtà anche a ciò che accade nel profondo del processo psicoterapeutico, dove il sintomo nella sua accezione più ampia non è che un 'simbolo' che ha perduto in parte la sua funzione originaria e si è bloccato nel suo potenziale trasformativo: simbolo depotenziato in cui il paziente ha malgrè soi circoscritto, senza peraltro definire né conoscere nella sua essenza, una sua intima sofferenza, un certo male di vivere di cui si fa portatore e che permane come una ferita aperta che non riesce a rimarginare.
Sarà allora la possibilità di ripristinare appieno questa primaria capacità di simbolizzare e di generare ulteriore senso e significati nuovi – e questa volta non più da soli ma con l'aiuto del terapeuta – che potrà far progredire in direzione di una maggiore capacità di dinamicizzare ed integrare contenuti psichici più problematici, consentendo così una migliore comprensione di sé stessi e anche di stabilire relazioni più autentiche e gratificanti. E nel corso della terapia verrà infine un momento in cui il paziente, come il bambino col rocchetto, potrà finalmente affrontare in modo nuovo e creativo le proprie angosce e non sentirsi più disperatamente solo, ma insieme a se stesso e così anche unito agli altri.

lunedì 13 febbraio 2012

In viaggio


L'idea della finitudine dell'essere umano e il suo perenne confronto con la propria alterità costitutiva, sono stati espressi ab origine in ogni cultura attraverso innumerevoli forme di rappresentazione simbolica. Queste hanno dato luogo nel tempo alle grandi narrazioni mitologiche, poi religiose e infine a specifici temi letterari, di cui troviamo nel tempo una traccia ininterrotta attraverso la metafora del viaggio.
Il motivo del viaggio nell'Aldilà, per esempio, nel mondo classico è disseminato ovunque; basti pensare alle grandi narrazioni tramandateci dai miti greci e latini, che sovente prevedono una 'discesa agli inferi' (la nekia, dal greco νεκρός, 'morto'). Tra questi, solo per citarne alcuni più noti: Persefone rapita da Ade, l'omerica discesa agli inferi di Ulisse, poi di Enea che nel sonno Virgilio fa scivolare nell'Averno. Oppure, su un versante contiguo, troviamo narrazioni che si sviluppano sul tema del viaggio iniziatico, come le fatiche di Ercole, gli Argonauti alla conquista del vello d'oro, l'Odissea, etc... Mentre in altre il viaggio è più palesemente associato alla tematica del confronto con l'alterità, come in Teseo e Arianna nel labirinto del Minotauro, nelle Metamorfosi di Apuleio, etc... In seguito, le religioni monoteistiche si appropriano di tali nuclei narrativi, spesso riadattandoli e talora trasformandoli in base ad una visione escatologica: essi parlano così di un luogo infero - lo sheol ebraico e l'infernus cristiano - dove risiede il principio del Male e in cui si scontano i peccati dell'esistenza (nei Vangeli Gesù parla di questo luogo associandolo al 'fuoco eterno'). Anche in questo contesto religioso poi, innumerevoli sono i riferimenti a viaggi iniziatici (tra tutti la Commedia dantesca), così come nella letteratura posteriore (dal Don Chisciotte al Pinocchio collodiano fino, se vogliamo, ai viaggi di Chatwin).
Ma una immagine che, per estrema semplicità e forte suggestione, concentra e racchiude l'idea stessa del viaggio metafisico è quella del Tuffatore di Paestum, ritratto in uno dei pannelli murari facenti parte dell'arredo funerario di una tomba (definita appunto 'del tuffatore') di artista sconosciuto databile intorno al 480 a.C..
La scena, altamente evocativa e simbolica, ritrae un corpo maschile visto di profilo fissato nel momento del tuffo da un'alta piattaforma, verso il basso dove scorre quella che sembra una lingua di mare ceruleo. Anche di quel momento così grave come può essere il trapasso, l'antico genio greco-italico ci ha dato una rappresentazione eccezionalmente dinamica ed atletica, che volge in gesto esteticamente perfetto e compiuto nel suo mantenersi sospeso tra aria ed acqua, quasi a voler sottrarre la scena all'elemento terra, mortale e quotidiano, espresso solo dal richiamo pittorico di un esile albero laterale. E' il biancore accecante, infatti, che riempie la scena acromatica su cui spicca l'agile figuretta bruna, mentre in basso un accenno azzurrognolo appena increspato rimanda all'elemento acqueo dei flutti, la dimensione altra che il tuffatore si appresta a penetrare.
Il tuffatore ci insegna la pacata determinazione del momento supremo, nel suo distacco dal già noto per inoltrarsi nel mistero, nell'oltremondo, nell'alterità. Il tutto con un gesto di stile e di complessione plastica perfetta, che l'immagine del corpo in volo rivela nella sua lineare essenzialità. E' come se, nella sua agile sospensione sull'infinito, egli tenesse insieme le due dimensioni e ne garantisse la continuità, come medium tra opposti, vita e morte. Simbolo dunque, nella piena accezione del termine (dal greco symballein, che sta per legare, collegare, mettere insieme) che allude ad una verità non altrimenti dicibile.
Proprio in quanto simbolica di un movimento da un qui verso l'ignoto infinito, la scena si presta a sostenere una rappresentazione parimenti drammatica, se non tragica, come potrebbe essere quella di un 'trapasso' della coscienza, di un tuffo nell'Altrove, o anche se vogliamo nell'alterità dell'inconscio (e qui l'elemento liquido ne ribadisce la sua natura mobile e avvolgente) che, dopo Freud, per le nostre società secolarizzate e desacralizzate, diviene il ricettacolo 'laico' di tutto ciò che pertiene all'antico Aldilà.
Proprio la psicoanalisi, in particolare, in quanto esperienza interiore di una modalità nuova e diversa di osservare il proprio percorso esistenziale, si presta a metafore e luoghi simbolici che hanno a che fare con l'idea del viaggio, in special modo – come si osserva nei sogni – del viaggio per mare, data la vastità dell'elemento acqueo, o in terre lontane e sconosciute. Se un tempo si ricorreva dunque ad espedienti narrativi quali il viaggio iniziatico o le discese agli inferi, in cui la dimensione immaginifica era centrale e propulsiva, oggi la metafora centrale di una fuoriuscita dal mondo e dalle realtà del quotidiano per inoltrarsi nel grande mistero della vita si è a tal punto impoverita e progressivamente ristretta ad un più prossimo e prosaico 'al-di-qua', in uno 'sballo' parossistico, in un 'trip' ripetuto e monotono, sorretto da sostanze chimiche in cui è soprattutto la fisiologia del cervello e delle sue sinapsi ad essere interrogata e fatta oggetto di speculazione scientifica.
La rappresentazione artistica e drammatizzata di un vissuto collettivo fondamentale, come quello inerente la tematica antropologica centrale del rapporto vita-morte, sembra aver perduto il suo substrato immaginativo e si è talmente 'ospedalizzata' – cioè rinchiusa in un ambito asettico e senza contatti con le altre dimensioni del vivere – da diventare una mera registrazione di flussi, di concentrazioni di liquidi organici in determinate regioni cerebrali, di osservazione clinica di diagrammi e parametri standardizzati di funzionamento corporeo.
Questo svuotamento del nostro mondo interiore in nome della scienza e di una visione sempre più tecnologizzata dell'esperienza umana, che ci lascia orfani delle potenzialità creative e immaginative nell'affrontare le contingenze quotidiane come le problematiche di fondo del vivere, ci rende sicuramente più adattati al mondo moderno e alle sue richieste, ma anche più fragili e infinitamente più insicuri nella nostra attuale mancanza di più autentiche trame di senso in cui inserire le nostre esistenze (sarà anche per questo che oggi i social networks così come i giochi di ruolo sul web hanno una tale fortuna?)
Osservando la complessità della nostra mente, arriviamo prima o poi a convincerci che esistono due distinti livelli di funzionamento mentale, che Freud definì in termini di cosciente e inconscio. Se il primo riflette la nostra costruzione razionale del mondo, in cui possiamo accedere ad una conoscenza codificata e sottoposta a principi formali condivisi, il secondo risiede invece nella dimensione psichica più profonda, dove avvengono fenomeni che non riusciamo a spiegare con la razionalità ma soltanto ad 'intuire' o a raffigurarci in qualche modo attraverso le nostre facoltà immaginative, oniriche ed artistiche.
In questa seconda dimensione, possiamo ipotizzare con W.R.Bion che risieda la possibilità di un diverso processo di conoscenza, che egli nomina con la lettera O, che non si basa sulle modalità abituali del pensiero in base allo schema soggetto-oggetto ma è approcciabile soltanto con un salto diretto 'dentro' tale dimensione (“Essere all'unisono con O”), quindi evitando il ricorso a schemi mentali preordinati e ponendosi di fronte all'ignoto. Ed è a questo livello che possono verificarsi le più profonde trasformazioni della psiche, quelle che inducono un cambiamento radicale che si riflette poi sull'intera personalità.
Questo salto, questo tuffo dentro il mistero dell'essere, questo viaggio verso l'ignoto, richiedono alla mente un atteggiamento fideistico (Bion parla appunto di 'fede in O'), un lasciarsi andare fiduciosi nel proprio intuito e nelle potenzialità del proprio inconscio, passo necessario affinchè si raggiunga una nuova consapevolezza che ci aiuti a vedere le cose in modo nuovo, senza i condizionamenti derivanti dal nostro passato e dalle nostre abitudini. E' allora che l'antica, agile figuretta dell'antico tuffatore che plana sui flutti sottostanti torna a sembrarci come la migliore metafora – sia che la si intenda in senso escatologico come Aldilà, sia che la si consideri come la dimensione Altra rispetto alla nostra mente cosciente – dell'abbandono fiducioso ad una alterità che ci accoglie e ci trasforma rinnovandoci, al grande mistero di un Altrove che mettendoci in viaggio si fa meno distante.