lunedì 20 settembre 2010

Quando si dice 'Inconscio'




L'immagine che sorge spontanea in tutti noi quando si pensa all'inconscio è probabilmente quella di un luogo nascosto, oscuro, un sotterraneo dove si rintanano i fantasmi del passato, ricordi cancellati, pulsioni e desideri rimossi, o abbozzi di pensieri mai pensati. Una sorta di cantina dei nonni, dove nel tempo è finito di tutto, pentole e piatti sbreccati, culle in disuso, bici arruginite, fino ad ingombrare tutto lo spazio disponibile, lasciando solo un passaggio angusto in direzione dell'unica finestrella, troppo in alto e troppo piccola e opaca di sporco rappreso per lasciar filtrare più che un incerto chiarore dall'esterno...
La nozione di “un inconscio”, di un 'entità cioè definita e dotata di una sua realtà fisica e fenomenica e non solo concettuale o virtuale, è cosa relativamente recente nella storia della cultura umana (perlomeno intesa nei termini della cultura dominante, o 'di massa' come si dice oggi) e coincide con l'apparizione - appena cento anni fa - e la diffusione della psicoanalisi ad opera di Sigmund Freud prima e dei suoi seguaci e sostenitori poi. Freud per primo, nel suo saggio sull'inconscio del 1915, ne aveva messo in risalto il carattere di 'sistema' autonomo, articolato su specifiche modalità di funzionamento quali la condensazione, lo spostamento, l'assenza di reciproca contraddizione, l'atemporalità e la sostituzione della realtà esterna con quella interna-psichica, come potè rilevare anche dal lavoro analitico sulla formazione dei sogni e sulla loro interpretazione. La sua sottolineatura poi di 'processi psichici primari' contrapposti ad altri 'secondari', sancisce al contempo la complementarietà e la diversità dei due sistemi psichici di Inconscio e Coscienza, che soltanto interrelati ed integrati permettono la vita psichica ed un funzionamento mentale adeguato.
Talmente recente tutto ciò, dicevamo, che una tale 'scoperta' - che potremmo definire copernicana per l'influenza avuta sul pensiero umano - non sembra ancor oggi essere patrimonio di tutti noi, nel senso di una effettiva acquisizione di conoscenza; anche se il termine 'inconscio' circola nei discorsi di qualunque caratura, più spesso nelle frasi fatte (“Sì, ma inconsciamente tu invece volevi dire che etc etc..”), la sua reale valenza rimane limitata alla consapevolezza ed all'interesse di coloro che per vari motivi sono entrati in contatto con certe tematiche, studiosi o cultori della materia e/o persone che per loro particolari bisogni e vicende personali si sono accostati alla psicoanalisi per un percorso di conoscenza di sé.
L'idea che l'inconscio sia un aspetto fondamentale della nostra mente e del suo funzionamento, che sia cioè rappresentabile in termini di un sistema-processo sempre attivo, parallelo ma ben più vasto (anzi 'infinito',per dirla con I. Matte Blanco) rispetto a quello riferibile all'Io-coscienza, non sembra ancora essere 'patrimonio dell'umanità', e viene da chiedersi se lo sarà mai, in futuro...Prevale infatti nel senso comune una visione parziale e al contempo rigida dell'inconscio, caratterizzato esclusivamente dal ricorso a similitudini spaziali; appunto, una specie di luogo delle cose dimenticate (un 'dimenticatoio', diremmo..), o una 'parte' o 'zona' della mente dove far confluire certi contenuti scomodi o secondari. Insomma, una specie di grande pattumiera dove si accumulano rifiuti, 'scarti' prodotti dalla nostra mente, laddove poi quest'ultima viene ad essere identificata col solo aspetto cosciente, razionale, logico...
Pare indubbio e anche ben comprensibile che uno dei motivi, o forse 'il' motivo, di questa concezione semplicistica dell'inconscio sia attribuibile all'inquietudine che tutti ci prende allorquando sentiamo vacillare le nostre pseudo-certezze costruite su una supposta razionalità, quando cioè percepiamo di essere attraversati e spesso agiti da forze ben più potenti di quelle gestibili dal nostro piccolo (ma eroico, gliene va dato merito!) Io. D'altronde, l'illusione del 'controllo assoluto' sul proprio mondo interno, oltre che esterno, è anzi necessaria, almeno in una fase iniziale del proprio sviluppo psicologico, quando abbiamo bisogno di costruire certezze più o meno durature che ci permettano di consolidare e rafforzare una sufficiente 'fiducia di base' in noi stessi.
Vero è anche però che i casi della vita ci portano a volte, o meglio sempre, sotto la spinta di un continuo adattamento alla realtà di per sé instabile e mutevole, a dover rimettere in discussione, anche radicalmente, quelli che credevamo essere dei 'punti fermi' e dei riferimenti inamovibili del nostro vivere. Viene a delinearsi ad un certo punto una crescente esigenza di cambiamento, unitamente alla percezione che certe modalità di controllo sul proprio mondo interno non hanno più effetto e il rapporto con noi stessi inizia a declinarsi in senso sintomatico, attraverso il disagio e la sofferenza. E' in questi casi, solitamente, che ci si rivolge a qualcosa o 'a qualcuno'; come 'allo psicologo', per esempio...
La richiesta di una psicoterapia è innanzitutto richiesta fatta ad un 'altro' di un ascolto attento e partecipe alle proprie vicissitudini e nel contempo possibilità di trovare un senso ed un significato alla propria sofferenza. Si può rispondere in modi diversi a tale richiesta, come diversi e molteplici sono gli orientamenti teorico-clinici in campo psicoterapeutico.
Potremmo dire che il compito principale, la 'missione' di una psicoterapia analiticamente orientata – e ciò che la differenzia da altre forme di psicoterapia – è primariamente quello di far prendere 'coscienza' al paziente che appunto esiste un inconscio (ma stavolta in carne ed ossa, diremmo, e non per frasi fatte; in un modo tale che ne possa sentire cioè l'effettiva presenza operare da dietro le quinte dello scenario psichico), che la sua mente è eterogenea e complessa, che la sua coscienza razionale non ha il monopolio della situazione e che è anzi 'ospite' in un tutto più grande, quindi che il suo Io non è che un piccolo guscio di noce sull'immenso mare ignoto del Sè. Quindi, paradossalmente, una tale visione apporta all'individuo anche la consapevolezza di una intrinseca alterità e di essere per certi versi strutturalmente, ontologicamente, irreparabilmente scisso, separato, distante. Straniero a sé stesso. Ma proprio su questa rottura, su questa faglia intima che lacera la continuità del quotidiano sentimento di essere un individuo, la psicoanalisi ha costruito la sua visione dell'uomo, ponendone in luce le contrastanti pulsioni, le contraddizioni talora insanabili di una solo apparente razionalità, i lati oscuri della mente, la sua distruttività.
Se nonostante ciò il paziente, sorretto dal rapporto terapeutico, non perde la speranza e la fiducia di poter operare un cambiamento evolutivo nel proprio modo di essere e di 'stare' al mondo, e se questa visione, per certi versi terrifica, non lo costringe a rigettare la realtà, a rifugiarsi in agiti o in vane illusioni, ma permette al desiderio di conoscere la 'sua' verità conoscendo meglio il proprio mondo interno, allora potremo senz'altro dire che la psicoterapia ha avuto successo e il terapeuta, compagno di un lungo e faticoso viaggio in terra straniera, può esserne soddisfatto e intrinsecamente ripagato. Infine, il 'massimo dono' che un paziente può ricevere dal terapeuta, dopo la scoperta in sé stesso di una vita inconscia sullo sfondo del suo stato di veglia, è imparare ad entrare in un rapporto nuovo e diverso con una tale dimensione, in una modalità più evoluta e meno conflittuale, quanto più possibile creativa e arricchente per l'individuo.