mercoledì 27 dicembre 2017

Le ultime parole di Lord Chandos



“Singole parole giravano rapide attorno a me,si mutavano in occhi
che mi fissavano ed in cui io a mia volta dovevo concentrarmi:
erano vortici in un perenne turbinare che a fissarli nel profondo si è
presi da un senso di capogiro ed al di là dei quali si è nel vuoto"
.
(Der Brief des Lord Chandos, H.V. Hofmannsthal)

Ho perso le parole, oppure sono loro che perdono me.
(L.Ligabue, cantante pop)



Siamo abituati a considerare la parola come la dimensione sonora e scritta della cosa, in un binomio inscindibile e sacrale che fissa stabilmente l'una all'altra e si pone a fondamento di ogni pensiero umano, di qualsivoglia costruzione culturale, estetica, scientifica, religiosa.
Le parole e le cose (1) hanno così, da sempre, mantenuto una implicita relazione di reciprocità, una rassicurante santa alleanza che ha consentito alla mente umana di estendere progressivamente il suo dominio sul mondo, di rappresentarselo in modo unitario e coerente e di renderlo conoscibile e finanche ampiamente prevedibile pur nelle sue continue trasformazioni.
Che l'atto di nominare, la parola, sfiori solo tangenzialmente le cose e le lasci nella loro sostanziale impenetrabilità è un'acquisizione della mente umana solo relativamente recente, pressappoco da quando Kant parlò di quella 'Cosa'(2) che invece si ostina a rimanere lontanissima dalla sempre rinnovata seduzione della parola nei suoi confronti.
Più vicini a noi, la epocale distinzione saussuriana(3) tra significante e significato, e quella successiva tra mappa e territorio di A.Korzibsky(4), sono concetti che ci hanno portato a prendere maggiore confidenza con una tale estraneità, o piuttosto alienità, della cosa dalla parola, sancendo in modo definitivo e irreversibile quella spaccatura che l'originaria religiosa simbiosi teneva celata(5).
Cosa accada, nell'universo letterario, quando la parola non dice più la cosa (oppure, se volete, quando è la cosa a non farsi più dire dalle parole) è stato, sicuramente tra i primi, Hugo von Hofmannsthal(6) a portarcene una 'diretta' testimonianza attraverso il suo personaggio, l'aristocratico Lord Chandos, prima un giovane e ambizioso scrittore-poeta, ora un uomo che ha 'perduto le parole' e che cerca, nonostante ciò, di spiegare per lettera all’amico e suo grande estimatore Francis Bacon la natura di un particolare malessere personale che sembra inesorabilmente condurlo ad un prematuro ritiro da quell'agognato orizzonte artistico:
“..Come tentare di descrivervi questi straordinari tormenti spirituali, questo improvviso ergersi verso l’alto di rami pregni di frutta che si sfuggono dinanzi alle mie mani protese, questo ritrarsi dell’acqua gorgogliante dinanzi alle mie labbra assetate? Il mio caso in breve è questo: ho smarrito del tutto la facoltà di pensare e parlare con logica su qualsiasi argomento. In un primo tempo mi divenne gradualmente impossibile intrattenermi su argomenti tanto elevati quanto comuni, e quindi proferire proprio quelle parole di cui gli uomini comunemente usano servirsi.
Soltanto a pronunciare le parole spirito, animo o corpo, avvertivo un inspiegabile turbamento. Mi riusciva impossibile nell’intimo esprimere giudizi sui fatti della corte, sulle questioni del parlamento, o su qualsiasi altro argomento vogliate immaginare. E questo non per una sorta di prudenza: vi è nota la mia franchezza che si perde con la leggerezza! Piuttosto le astratte parole di cui la lingua naturalmente usa servirsi per portare una qualsiasi idea alla luce del giorno, mi si sfarinavano in bocca come funghi marci […] Ed una tale infezione andò dilatandosi nel tempo come ruggine che tutto macera all’intorno. Persino nel discorrere domestico e familiare, l’esprimere un qualsiasi parere di quelli che si offrono leggermente e con non curata sicurezza, divenne per me così problematico che dovetti cessare di partecipare a queste conversazioni. Provavo un’indescrivibile irritazione che solo a fatica riuscivo a dissimulare nell’ascoltare frasi del genere: 'la tal cosa è per il tale o per il talaltro andata bene o male; il predicatore T. è un brav’uomo; Il fittavolo M. è da compatire perché ha dei figli scialacquatori; un altro è da invidiare perché le sue figlie sono parsimoniose; una famiglia sale ed un’altra declina..'. Tutto ciò mi appariva indimostrabile, falso, vuoto, sino al parossismo. Per di più il mio spirito m’induceva a vedere vicina in modo inquietante qualsiasi cosa fosse attinente a tali discorsi: così come una volta un lembo di pelle del mio dito mignolo, osservato attraverso una lente di ingrandimento, mi era apparso come un territorio cosparso di profondi solchi e voragini, così mi accadeva ora con gli uomini e con le loro azioni; non riuscivo più a coglierli nello sguardo semplificato dell’abitudine. Ogni cosa mi si sfaldava incoerentemente in più parti, e queste ancora in ulteriori parti, e nulla si lasciava più ricondurre ad un unico concetto. Singole parole giravano rapide attorno a me, si mutavano in occhi che mi fissavano ed in cui io a mia volta dovevo concentrarmi: erano vortici in un perenne turbinare che a fissarli nel profondo si è presi da un senso di capogiro ed al di là dei quali si è nel vuoto..”.

Lord Chandos abbandona la vocazione di scrittore perché nessuna parola gli sembra poter più esprimere la realtà oggettiva delle cose, degli animali e delle persone intorno a lui. E' come se il flusso caotico della vita lo coinvolgesse totalmente, a tal punto che egli vi si smarrisce completamente e gli oggetti, ora semplici cose, appaiono come corpi estranei, trasfigurati rispetto ai loro antichi rimandi, che lo fissano da una distanza siderale e non gli consentono di essere approcciati dalle sue parole, che a stento cercano, ormai senza più trovarli, trame e itinerari conosciuti per potersi dispiegare e rendere un'immagine unitaria e coerente di ciò che gli sta dinanzi. In questo progressivo decentramento dell’io, parallelamente, l'apparente unità della persona mostra la sua natura composita, le sue agglutinazioni successive, i limiti strutturali del linguaggio umano si accentuano fino a diventare afasia e il reale, la 'cosalità' materiale del mondo, prende il sopravvento liberando dal basso moltitudini di cose ormai non più nominabili né dominabili dal Logos. Ciò che sconvolge interiormente il giovane letterato infatti non è tanto il silenzio della realtà, ma la simultanea molteplicità delle sue voci sempre meno prossime alle parole, che germina ininterrotta in una straniante e sfibrante epifania.
Ciò che Lord Chandos ci sta dicendo nella sua breve e malinconica lettera sembra anticipare in pochi accorati accenni quanto il recente pensiero filosofico, quello psicoanalitico e la linguistica moderna, ognuno dal proprio vertice – da Heidegger a Foucault, da Freud a Lacan (via Saussure) – hanno in seguito elaborato e analizzato concettualmente giungendo ad una visione sempre più decentrata del rapporto tra uomo e mondo-realtà. Intanto la consapevolezza dell'insufficienza 'strutturale' del linguaggio umano quale strumento della rappresentabilità della realtà: esiste cioè uno scollamento fondamentale tra le parole e le cose, la realtà è irriducibile al pensiero-parola che pure la nomina e la descrive, laddove il segno (la parola, o la scrittura) riempie quel vuoto originario ma a condizione di non poterlo mai colmare.
L’io che nomina le cose ha definitivamente perso il suo statuto metafisico di centro unificatore e questa perdita di referenza incarna lo spirito stesso della condizione moderna, al punto che oggi possiamo affermare che non è più l'uomo, ma è la parola (il linguaggio umano) che pensa, e lo fa in uno scarto - in una differanza, direbbe Derrida(7) -dalle cose, che si mantengono così ad una distanza incolmabile sia dall'uno che dall'altra.
Eppure, in una tale radicale impossibilità, è lo stesso Chandos nella sua lettera a suggerire un varco, una almeno temporanea apertura dell'orizzonte che rimanda ad una ulteriore e inattingibile armonia tra le cose o forse ad un diverso linguaggio, stavolta non codificabile né esprimibile con le sole parole:
“..Mi sembra allora che tutto, tutto ciò che esiste, tutto ciò di cui mi rammento e che i miei più confusi pensieri accarezzano, sia un qualcosa che esista. Ed allora anche quella certa pesantezza, quella strana ottusità del mio cervello, si prospetta come un qualcosa: in me e attorno a me avverto un seducente e semplicemente infinito gioco delle parti. In tale armoniosa corrispondenza non rinvengo un solo elemento nel quale sia impedito a trasfondermi. E quasi per magia mi si svela allora come il mio corpo si scomponga in chiare cifre che si mostrano la chiave di ogni cosa, o che potremmo entrare in un nuovo toccante rapporto con tutto ciò che comunque pulsa, solo che principiassimo a pensare con il cuore. Ma come questo straordinario incantesimo si separa da me, ecco allora che non sono più capace di descriverlo, né potrei mai esprimere con parole coerenti in cosa sia realmente consistita questa straordinaria armonia che permea me ed il mondo intero e come mi si sia manifestata, allo stesso modo di come io non potrei con sufficienza descrivere i moti del mio intestino o i flussi del mio sangue..”.
Forse lo 'straordinario incantesimo' cui il nostro (ex)letterato-poeta accenna è quello stato di grazia, quel sempre effimero contatto emotivo con le dimensioni più profonde della coscienza, che ci restituisce una esperienza totalizzante del nostro essere in rapporto alla realtà in un unicum inscindibile, la sensazione di essere ancora compresi nell'abbraccio materno, quella 'qualità' dell'esperire umano che insieme ci sostiene e ci nutre e a cui, al di là dello strumento linguistico e 'paterno' che ci situa nella realtà, facciamo necessariamente ritorno per alleviare la fatica del quotidiano.
Ma è quando le nostre parole divengono incapaci di farsi tramite con le emozioni più profonde che esse restano lì, in superficie, come meri oggetti inservibili, come frigoriferi rotti che riempiono lo spazio delle discariche delle loro vecchie superfici smaltate. Oggi, che la cultura mediatica si propone quale farmaco universale in grado di farci sfuggire alle nostre solitudini esistenziali, assorbiamo continuamente parole che articolano acrobazie verbali sul nulla e che ci consegnano al totale silenzio interiore: flatus vocis che rincorrono un improbabile punto di convergenza in un senso già masticato da altri. La chiacchiera, la parola vuota, la parola riempitivo che gonfia la forma, il 'si dice'..Tutte forme di quel disancoramento della parola dalla sua anima cui siamo soggetti, volenti o nolenti, nel nostro quotidiano incontro con 'gli altri', ma soprattutto in profondità con noi stessi.
Il campo psicoanalitico, che si configura come la dimensione per eccellenza in cui la parola ha uno statuto epistemico assoluto in quanto consente ed esprime la relazione con l'inconscio, ha ulteriormente mostrato e chiarito come siamo presi quindi all'interno di una condizione paradossale: siamo 'esseri parlanti', o meglio 'parlati' dalle parole e da un linguaggio che ci precede, ci struttura e ci condiziona fin dalla nascita e a cui ci affidiamo totalmente ma, oggi ancor più di ieri, pure pienamente consapevoli della solo parziale possibilità delle parole di poter lambire la realtà delle cose e rubarne granelli in termini di conoscenza.
Per poter attingere alla parola in senso più pieno è allora necessario per ognuno lasciar emergere ed esprimere il proprio idioma, il proprio linguaggio più profondo, che attinge ai processi legati alla metafora, alla metonimia, alla sospensione della razionalità e del giudizio, andando oltre la dimensione meramente convenzionale con cui si può intendere il linguaggio, abbandonandosi quindi alla parola nella sua dimensione originaria, creativa e creatrice.
Poichè – come testimonia la malattia spirituale di Lord Chandos – nel cercare di comprendere la realtà con il solo linguaggio ci si può smarrire, e ciò accade quando le parole non incontrano più le cose.




Note
(1) Titolo pure di un celebratissimo libro del 1966 del filosofo francese Michel Foucault (1926-1984).
(2) La 'Cosa in sé' (Ding an sich) compare nella filosofia di I.Kant riprendendo ed articolando il concetto platonico di Noumeno, inteso come ciò che non può essere percepito nel mondo reale, ma a cui si può arrivare solo tramite il ragionamento. Da tale distinzione tra la 'cosa reale' (fuori dal pensiero) e la 'cosa pensata' (oggetto di pensiero) Kant farà derivare la sua critica alla metafisica come pretesa scienza della cosa in sé.
(3) Ferdinand De Saussure (1857-1913), linguista e semiologo svizzero, fondatore della linguistica moderna.
(4) Alfred Korzybski (1879-1950)filosofo e matematico polacco, noto per i suoi studi sulla General Semantics.
(5) “.. e il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio..”, dal Vangelo secondo Giovanni.
(6) Hugo von Hofmannsthal (1874-1929), scrittore austriaco della corrente simbolista, dedito soprattutto al teatro, scrisse questo breve racconto nel 1902.
(7) Jacques Derrida (1930-2004),filosofo francese fautore del decostruttivismo.



lunedì 26 giugno 2017

La Peste



Diciamo subito che il titolo non allude all'omonimo romanzo di Camus, ma al noto episodio in cui Freud, in viaggio per gli Stati Uniti, parlando con l'allora suo discepolo Jung lasciò trapelare un intenzione tutt'altro che pacifica verso il popolo americano...
Risale infatti al 1909 il viaggio di Freud in America, condiviso coi seguaci Jung e Ferenczi a bordo del piroscafo G.Washington. Ad invitarlo negli 'States' sopra tutti G. Stanley Hall, psicologo e presidente della Clark University nel Massachussets, nelle cui intenzioni era la diffusione del 'verbo' psicoanalitico nel nuovo continente. Fu poco prima di sbarcare che Freud stesso – con la sua acuta ironia unita ad una superiore perspicacia in termini di conoscenza dell'indole del popolo americano, che non stimava particolarmente – confidandosi con Jung disse, non senza un intento eversivo, che in realtà 'stavano portando loro la peste', intendendo con ciò che il metodo psicoanalitico avrebbe introdotto il virus di una visione della realtà basata sulla complessità, sull'alterità, sul dubbio – in sostanza sulla subalternità della coscienza all'inconscio – in una Paese già fortemente orientato in senso capitalista e incardinato sui parametri dell'utilitarismo pragmatico, dell'ottimismo aprioristico e narcisista, del mito della frontiera adattato in chiave espansionistica e commerciale (con le conseguenze che tutti conosciamo, a partire da quel tragico e sempre rimosso peccato originale, il genocidio dei nativi americani).
Nonostante la buona accoglienza complessiva da parte di uomini di scienza e di cultura, della stampa e del pubblico, l'esperienza non si rivelò il successo che soprattutto molti della vecchia guardia freudiana avevano pronosticato. Basti pensare che William James, psicologo americano autore nel 1890 del fortunato Principles of Psychology, di impostazione funzionalista-pragmatista, dopo aver conosciuto Freud scrisse: “Confesso che mi ha fatto personalmente l'impressione di un uomo ossessionato da idee fisse. Non posso fare niente nel mio caso con le sue teorie dei sogni e ovviamente il 'simbolismo' è un metodo alquanto pericoloso”.
Piuttosto, nell'ambiente americano si ingenerò una sorta di reazione anticorpale che finì per assorbire prima il potenziale virale della nuova scienza della psiche e poi per snaturarla trasformandola in una versione psicoanalitica riveduta e corretta assoggettata alla centralità del sistema dell'Io (la 'Psicologia dell'Io', appunto, propugnata soprattutto da Hartmann, Rapaport ed altri. Lo stesso Lacan, nella sua rilettura di Freud degli anni '50, scrisse pagine di fuoco contro questa che considerava una deriva del pensiero freudiano). In altri termini, il potenziale eversivo del messaggio freudiano centrato sullo statuto primario dell'inconscio nel sistema psichico venne abilmente ridimensionato, grazie anche alle contingenze storico-politiche che consentirono negli Stati Uniti, nel ventennio tra le due guerre mondiali, il passaggio da una economia di sussistenza ad una economia di consumo, che sfocerà nella società consumistica degli anni 'Cinquanta sottoposta al regime di iperproduzione industriale, modello presto esportato su scala planetaria dalla vincente potenza Usa. Ma soprattutto è il cambiamento intervenuto a livello dell'immaginario, sorretto dalla invenzione di una pubblicità mirata e onnipervasiva, a determinare una vera e propria mutazione antropologica modificando la stessa esperienza del piacere psichico: il piacere non è più dato dal soddisfacimento di un bisogno, o dalla realizzazione di un desiderio, ma dalla realizzazione di un desiderio 'attraverso' l’acquisto di un prodotto, proposto-imposto dalle logiche industriali. Queste 'strategie del desiderio', pianificate a tavolino dai professionisti della vendita (tra i quali gli psicologi non hanno mai mancato di dare il loro prezioso contributo) hanno negli ultimi 70 anni a tal punto cambiato l'esperienza del nostro quotidiano da introdurre una vera e propria 'etica' del consumo, dove tutto in sostanza viene decodificato in termini di acquisto (tutto è in vendita, tutto si può comprare) e immesso nella sequenza input-desiderio-acquisto-gratificazione (quest'ultima assai breve, secondo uno schema collaudato in cui il prodotto e quindi il desiderio corrispondente devono essere presto rinnovati e condurre ad un nuovo acquisto che rilancia il ciclo praticamente all'infinito). Come tutto ciò poi agisca a livello dei processi di strutturazione dell'identità soggettiva, di relazione e di socializzazione apre un ambito di riflessioni che inquadra uno scenario non futuro, ma presente ormai nella realtà del mondo globalizzato, dai risvolti a dir poco inquietanti.
D'altra parte, l'assedio quotidiano dei media alle nostre menti, con il suo carico ingestibile e indigeribile di morte, violenza, distruzioni e ingiustizie ha originato un' alterazione della genetica psichica del nostro approccio alla vita che si risolve solitamente in uno sterile atto di compunzione ed una meccanica alzata di spalle, aventi la funzione di regolare il transito delle sempre ultimissime “news” senza che intacchi oltre la superficie delle cose e possa così venire evacuata in tempi rapidi, mantenendo aperto lo spazio di ricezione per quelle che a breve seguiranno. In breve, all'etica del consumismo illimitato si è via via affiancata, con un effetto amplificante assai potente e reattivo rispetto alle dinamiche , quella della deresponsabilizzazione sistematica, dell'edonismo sfrenato, della fuga dalla realtà (consumo di droghe e alcol ai livelli massimi, ma anche ideologie deliranti che promettono 72 vergini nell'aldilà a chi ammazza un congruo numero di infedeli). Il 'libera nos a malo' – dovunque e comunque – oggi infatti non fa solo parte dello strascico di un certo corredo religioso occidentale, ma sempre più inteso laicamente come posizione aprioristica del pensiero globalizzato postmoderno, un ingenuo ma pervicace atteggiamento mentale di purificato edonismo, ramificato ed esteso a tutti gli aspetti del quotidiano e che è divenuto il leit motiv dell'uomo contemporaneo e cardine della sua prassi esistenziale, costretta a schivare le innumerevoli minacce cresciute in una società globale ormai molto prossima al collasso (non solo ecologico, come vediamo). In un simile scenario complessivo, anche il discorso sulle forme di intervento psicologico ha risentito negli ultimi decenni di una profonda trasformazione, divaricandosi sempre più in un approccio 'esperienziale-conoscitivo', sulla linea dell'ideale psicoanalitico, ed in uno 'pratico-curativo', secondo un'impostazione più propriamente psicoterapeutica, sempre più variegata in una moltitudine di approcci più o meno differenziati ma comunque sempre più declinati nel senso di offrire un surrogato, quindi una gratificazione sostitutiva, al desiderio: migliore gestione – o talora 'scomparsa'(!) – dei propri sintomi, miglior adattamento a contesti famigliari, sociali, lavorativi, aumentata sensazione di 'benessere', etc.. In sintesi, diremmo cioè che laddove le varie psicoterapie perseguono l'ideale della 'guarigione dalla malattia' (o più spesso dal sintomo, inteso sostanzialmente quale deviazione e degenerazione di uno stato di presunta normalità) e del 'benessere' come livellamento a regola o norma sociale, la psicoanalisi si pone invece in termini di conoscenza, di 'sapere su' quel singolo individuo, unico, irripetibile, la cui vita è un unicum di vissuti e fantasie non sovrapponibili a quelle di qualsiasi altro. Sapere psicoanalitico, inoltre, che sa che 'il male' e la malattia sono aspetti del vitale e in quanto tali connaturati con l'esperienza di 'essere un essere umano', e dove 'il sintomo' non è visto come l'ostacolo allo stare bene con se stessi o con gli altri, bensì come la porta per accedere ad un discorso di verità, cioè di maggiore conoscenza su e di sé stessi. E questo in quanto il discrimine fondamentale tra i due approcci risiede proprio nella diversa ottica con cui osservare il soggetto: l'individuo con le sue peculiarità, la sua storia, i suoi legami, la sua esperienza soggettiva di essere nel mondo, oppure l'individuo la cui mente assomiglia ad un elaboratore di informazioni, in cui allo stimolo segue necessariamente 'la' risposta e che valuta sé stesso, gli altri e il mondo – almeno ipoteticamente – in modo sempre razionale, logico e consequenziale. Ma è probabilmente soprattutto rispetto ad una specifica dimensione che le strade degli approcci 'analitici' e 'cognitivi' divergono inesorabilmente; quella che si riferisce alla centralità dell'esperienza di un'alterità soggettiva, di quell' “essere stranieri a sé stessi” – in sostanza al riconoscimento e ridimensionamento del proprio sistema Io-Coscienza tanto caro a tutto il pensiero occidentale – che Freud seppe legare mirabilmente al concetto stesso di Inconscio costruendoci sopra tutto l'edificio psicoanalitico. Potremmo allora dire che l'intenzione di diffondere 'la peste' di una certa visione dell'uomo ha avuto successo solo in quanto fenomeno culturale (a proposito, Woody Allen continua ad andare dallo psicoanalista..?), trovando nella realtà capitalistica e consumistica del nuovo mondo occidentale una insormontabile barriera i cui anticorpi hanno svolto in modo eccellente il loro programma genetico: trasformare il desiderio umano in prodotto seriale e creare la nuova etica del consumo-ergo-sum, impedendo di conseguenza il pensiero critico e facendo assurgere il progresso scientifico-tecnologico a unica indiscussa divinità suprema. Ma la psicoanalisi ha questo dalla sua: sa prendersi carico e parlare delle miserie dell'uomo, delle sue paure, dei suoi desideri, delle sue speranze, senza doversi sentire in obbligo di offrirgli una qualche ricompensa o gratificazione immediata per lenire le sue ferite, poiché questa è già racchiusa nel raggiungimento di una migliore conoscenza di sé.



venerdì 24 febbraio 2017

Fors'anche sognare...

“Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e le nostre piccole vite sono circondate dal sonno.”
(W.Shakespeare, La Tempesta, atto IV)

“Somnio, ergo sum.”
(convinzione soggettiva dello scrivente)


Che rapporto abbiamo con i nostri sogni? Che importanza concediamo oggi – presi da una ipertrofia del quotidiano che sempre più ci appiattisce in modalità di rapporto 'orizzontali', stereotipate e modellate ormai su canali mediatici, con l'altro come anche con noi stessi – a quella cosiddetta 'attività onirica' che, nonostante l'abituale nostra incuria, incessantemente sembra riproporci, notte dopo notte, l'esigenza di un confronto con le dimensioni abissali della nostra psiche, che affonda le radici in quell'Onphalos irraggiungibile, che lo stesso Freud ipotizzava quale oscuro ed originario punto germinale del sogno?
Potremmo, sub specie onirica, delineare uno spartiacque fondamentale tra le persone, una loro primaria distinzione in senso tipologico. Esistono infatti 'in natura' persone che sognano, e che traggono dai loro sogni elementi di interesse, o di autoconoscenza, quando non di veri e propri segni, segnali, messaggi, comunicazioni insomma che provengono da una qualche parte di sé, così come persone che non sognano – almeno secondo la loro stessa esperienza (di veglia, ovviamente..) – e che considerano i sogni più che altro come bizarrie della mente e l'argomento di un loro eventuale senso ulteriore viene chiuso in partenza. Possiamo però sempre notare in entrambe le categorie almeno le tracce di una antica attività onirica, risalente solitamente al periodo infantile, di certi sogni che rimangono poi come scolpiti nel ricordo; attività che in seguito per alcuni ha continuato a crescere e svilupparsi col tempo (ci sono ad es. sognatori così abili che sembrano veri artisti nel rievocare dettagli e scenografie dei loro sogni), mentre per altri si è come gradualmente impoverita e infine quasi disseccata, finendo per convincerli di quanto sia inutile e dispendioso per le loro energie mentali il cercare di 'capirci qualcosa' ...
La questione non è, mi pare, di lana caprina. Poiché dalla maggiore o minore importanza che attribuiamo ai nostri sogni, così come in certi casi dal trascurarli in modo assoluto o dal ritenerli meramente superflui, consegue l'importanza che attribuiamo nella nostra vita al concetto ed all'esperienza stessa di Inconscio, al confronto che stabiliamo con esso, al modo in cui ne siamo vissuti attraverso e al di là dell'esperienza cosciente. Dare non solo uno spazio ai sogni, ma ospitarli con tutti gli onori favorisce inoltre una maggiore 'verticalizzazione' della nostra esperienza soggettiva collegandola allo psichismo profondo e quindi un più saldo senso di continuità ed identità, che sempre più latita nelle odierne esistenze frammentate e scandite dai ritmi ossessivi della pubblicità.
Chi si accosta, per desiderio o necessità, ad un percorso psicoterapeutico di tipo analitico, impara molto presto quanta attenzione ed impegno vengano in questa sede solitamente riservati ai sogni (a differenza da quanto accade in altri orientamenti psicoterapeutici che prediligono un lavoro centrato sulla modificazione di convinzioni e schemi mentali disfunzionali e di comportamenti) al punto di sentirsi spesso quasi 'in dovere' di produrne di sempre nuovi e di particolarmente significativi.
In realtà, è lo stesso processo analitico che una volta avviato sembra dinamicizzare e arricchire la dimensione onirica, anche in quei soggetti solitamente impermeabili ai sogni (o forse piuttosto al ricordo di essi), che così progressivamente sembrano recuperare uno spazio onirico – o anche in certi casi accedervi per la prima volta – attingendo ai materiali del loro passato, a fantasie semicoscienti o del tutto inconsce, ad elementi sparsi carichi di affettività ed emozioni che possono così essere riuniti in una struttura di significato ed espressi attraverso quella forma narrativa tipica del sogno fatta di simboli, allusioni, distorsioni, aggiunte, mancanze, etc...
Stabilito dunque che sognare sia pur sempre un'attività universale (checchè ne dicano i supposti non-sognatori!), quotidiana e 'democratica' , non possiamo non rilevare quale importanza il sogno abbia da sempre per gli uomini, fin dalle prime manifestazioni di civiltà organizzate intorno a modelli culturali. Le culture antiche anzi prevedevano un settore specifico della terapeutica medica interamente dedicato alla guarigione di corpo e anima attraverso i sogni.
Nell'antica Grecia, ad es., erano famosi gli asclepiei, i santuari dedicati ad Asclepio (Esculapio per i romani), dio della medicina, presso Epidauro, Pergamo e Coo, dove si praticavano trattamenti terapeutici basati su rituali e cerimoniali in cui il paziente veniva sottoposto ad una accurata preparazione e purificazione che prevedevano il digiuno e l'assunzione di acqua attinta da fonti sacre (probabilmente addizionata con sostanze allucinogene che favorivano stati oniroidi). In alcuni passaggi particolarmente significativi e suggestivi, il paziente beveva l'acqua della 'fonte dell'oblio' e poi della 'fonte del ricordo'; ma il momento centrale dell'intera cerimonia era rappresentato dalla 'incubatio', in cui il paziente, indossata una speciale veste ornata di strisce color porpora e una corona sul capo, veniva condotto in una camera sotterranea del tempio (l'abaton), le cui pareti erano solitamente coperte da iscrizioni che descrivevano precedenti guarigioni e miracoli avvenuti nel luogo e lì, in una condizione di relativa deprivazione sensoriale, al buio e nel silenzio, trascorreva la notte disteso sul kline, un divanetto che rendeva più comoda la sua permanenza (unica concessione 'moderna' della successiva cultura tardo-greca, poiché nei tempi arcaici, prima che fossero costruiti i templi, la incubatio veniva praticata in luoghi naturali, solitamente caverne sacre, e il malato giaceva direttamente sulla nuda terra). Accadeva così che durante il sonno il paziente avesse particolari visioni, apparizioni, oracoli, oppure incubi, o più in generale sogni, che costituivano per lui una infallibile indicazione terapeutica in risposta alle proprie problematiche psichiche o fisiche, aiutato in ciò dai sacerdoti del tempio, che il giorno seguente ponevano il paziente sulla 'sedia della memoria', perchè potesse riferire ciò che aveva visto in sogno...
Duemilacinquecento anni dopo gli psicoterapeuti continuano a chiedere ai propri pazienti (e a sé stessi), distesi sul lettino o seduti in poltrone, cosa abbiano sognato nelle notti precedenti, e discorrono ampiamente e approfonditamente su di essi, forse per ribadire che c'è pur sempre un filo, invisibilmente sottile ma tenace, che lega passato e presente e che ci lega anche gli uni agli altri.


(Nel riquadro, mosaico raffigurante Ippocrate, sul pavimento dell'asclepieion di Kos, con Asclepio al centro).

(Reminder giugno 2010)