venerdì 24 dicembre 2010

I volti del tempo




Tempus fugit, dicevano gli antichi. Il tempo fugge, o scorre, in ogni modo si perde, si consuma. Non solo; esso 'ci' consuma, in un rapporto reciproco di causa-effetto in cui essere e tempo (Sein und Zeit, scriveva qualcuno) risultano quasi sinonimi. Il grande Virgilio, nel libro terzo delle Georgiche, ci lascia una sua felice espressione: Sed fugit interea fugit irreparabile tempus (Ma fugge intanto e s'invola il tempo irrevocabile). Ma c'è tempo e tempo... Parliamo dunque del tempo, della temporalità, di questa 'entità' immateriale in cui siamo immersi dalla nascita (e prima di essa), di ciò che ci rende l'unica specie vivente, noi umani, soggetta alla consapevolezza dello scorrere inesorabile della propria esistenza e della propria durata, quindi dell'idea del limite, della fine di sé.Questo tempo che ci avvolge dall'inizio alla fine, e poi ci lascia (..per andare dove?), è come una corrente elettrica che, finchè dura, ci anima e ci tiene in vita; entriamo in un 'flusso' temporale e non ne usciamo che alla nostra fermata, come quando si prende un metrò. Se non possiamo nulla sul passato, perché non esiste più, e non possiamo nulla sul futuro, perché non esiste ancora, il discorso del nostro esistere si riduce al presente. Anzi, all'adesso. Ma se questa affermazione appare secondo logica indubitabilmente vera, essa sembra d'altro canto contraddire le diverse sfaccettature che la categoria di temporalità possiede.
In primis il fatto che tutti noi abbiamo una percezione chiaramente distinta della differenza tra il tempo cosiddetto 'reale', oggettivo, scientifico e misurabile (abbiamo inventato apposta gli orologi, che rappresentano lo strumento sul quale è costruita tutta la cosiddetta civiltà moderna), e quello interiore, vissuto, la cui estensione non riguarda lancette e ingranaggi ma soltanto emozioni, sensazioni, memorie,'vissuti' appunto che costellano la sostanza psichica di cui siamo fatti. O potremmo anche dire che esistono un tempo 'corporeo' (il modo oggettivo in cui il nostro corpo subisce il confronto-scontro con il tempo e ne rivela lo scorrere in termini di invecchiamento: “La lotta contro il tempo è l'unico vero problema dell'uomo, oltre a quello del suicidio”, scriveva Camus) ed uno 'psichico' (la rappresentazione interna di un fenomeno in termini affettivi, dunque il ricordo), se questo non ci facesse tornare in mente troppo puntuali distinzioni sulla rex cogitans e la rex extensa di cartesiana memoria, che in questa sede tralasciamo volentieri. Non tralasceremo invece la nouvelle vague filosofica del secolo addietro (Husserl, Heidegger, Bergson..), quando ci descrive l'opposizione tra tempo e durata; uno dei punti nodali di tale visione filosofica gira proprio intorno a questa distinzione, che vede da una parte un tempo astratto-oggettivo e dall'altra una durata concreta-soggettiva, o per altri versi un tempo eternizzato e impersonale di contro a un tempo intimo e personale, quasi fosse una contrapposizione tra una vuota forma contenente e una sostanza materiale in essa contenuta.
Secondo Bergson, la vera realtà della nostra coscienza si esplica nel tempo vissuto, nella durata soggettiva delle esperienze, che non corrisponde affatto al tempo meccanico scandito dall'orologio, ripetitivo, uniforme, quantitativo. Il tempo vissuto, egli dice, è invece qualcosa di più reale, simile ad una sostanza in continuo cambiamento qualitativo, cioè in perenne, intima trasformazione.Ovviamente, sono sempre gli artisti, in questo caso poeti e scrittori, ad aver per primi colto ed espresso in modo universalmente diretto ed efficace i molteplici volti del tempo di cui facciamo esperienza. Ne ricordiamo due, per tutti: Marcel Proust e Virginia Woolf, che alla dimensione interiore e vissuta del tempo riservarono una particolare attenzione, se non una vera e propria venerazione (o forse, anche, ossessione). Il primo infatti, nella Recherche, ricostruisce alchimisticamente un universo vivente attraverso il tempo perduto e poi ritrovato della propria memoria, laddove la seconda ricerca convulsamente dentro di sé, in tutta la sua opera letteraria, quella peculiare forma narrativa che possa esprimere la cangiante vitalità del mondo interiore che si interseca senza soluzione di continuità in una temporalità molteplice e stratificata (nel racconto Mrs Dalloway, per esempio, che si comprime nella durata di un solo giorno, fatti e situazioni hanno peso solo in quanto scenari di fondo in cui si agitano emozioni e stati d'animo del soggetto, che si succedono, si alternano e si trasfondono reciprocamente in una temporalità magmatica e sospesa, specchio intimo dell'avvicendarsi delle ore del tempo 'di fuori', scandito dal rintocco del Big Ben, o ancora dell'altro tempo, ciclico e universale, che la protagonista del racconto osserva dalla sua finestra nelle movenze abitudinarie di una anziana signora che abita nella casa di fronte). Se filosofia e letteratura ci hanno dunque parlato già un secolo fa di una diversa concezione del tempo, e se la fisica della relatività ha avuto in tutto questo un ruolo primario, potremmo dire che la psicoanalisi non è stata da meno, arrivando anzi ad estremizzare il discorso nel sostenere che nell'inconscio non c'è tempo, o meglio ci sono tutti, poiché lì convivono senza distinzione di sorta tutti i differenti tempi della nostra vita (e secondo la psicoanalisi junghiana anche quelli dei nostri progenitori su su fino all'origine della specie). O per altri versi, come dice Lacan,la morte (come la donna) non esiste.
Diviene allora fondamentale - e fondante la possibilità di un nuovo e condiviso processo temporale - il costruire ad hoc uno scenario (come fa la psicoanalisi mediante la creazione del setting, cioè la ripetizione dell'esperienza delle sedute all'interno di una cornice di senso, offerta dalla stanza e dall'ora di analisi) che possa costituire l'altra faccia, o anche, come si dice oggi, l'interfaccia, di quel tempo intimo, soggettivo, privato, che il paziente vive, spesso dolorosamente, solo in modo frammentato o cronicizzato, attraverso l'emergenza del sintomo ossessivo, la riemersione disturbante del rimosso in forma di ansia diffusa, o un'angoscia serpeggiante che infine dilaga sommergendolo. Un tempo 'della cura', o 'del dialogo', se si preferisce, che ricuce narrativamente in un percorso dotato di senso quella che era una disarticolata accumulazione di fatti, volti, cose, emozioni, pezzi di vecchie identità, in un processo di significazione potenzialmente senza limiti (l'analisi è sempre 'interminabile', se intesa nella sua dimensione etica di confronto dell'individuo con la propria alterità costitutiva), reso ora reversibile dalla possibilità del ricordo e dalla funzione della memoria, finalmente liberata dalle catene della rimozione.
Il tempo così 'ricomposto' (o ritrovato direbbe Proust) da al soggetto una nuova prospettiva, che può essere ora finalmente osservata senza troppe distorsioni ottiche. E' un tempo insieme intimo e condiviso che ridà un ritmo e una forma alla fine del tempo della catastrofe psicotica, o che spezza la circolarità chiusa della coazione e della ripetizione cieca e sorda della nevrosi ossessiva - che desidera l'arresto del tempo e l'illusione della eternità del quotidiano, secondo la sua paradossale, mirabile sintesi dei contrari - o ancora, che apre un possibile varco al senso di esistere nella patologia depressiva.
Egli può così riappropriarsi del suo proprio tempo, declinandolo in molteplici rappresentazioni di sé in rapporto con sé stesso e con gli altri, tra passato e presente, e con lo sguardo finalmente rivolto al futuro.