mercoledì 20 settembre 2023

Caducità (1915)



"Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero chetutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato e potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato. Da un simile precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è bello e perfetto sappiamo che possono derivare due diversi moti dell’animo. L’uno porta al doloroso tedio universale del giovane poeta, l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto. No! è impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla. Crederlo sarebbe troppo insensato e troppo nefando. In un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi ad ogni forza distruttiva. Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero. Io non sapevo decidermi a contestare la caducità del tutto e nemmeno a strappare un’eccezione per ciò che è bello e perfetto. Contestai però al poeta pessimista che la caducità del bello implichi un suo svilimento.

Al contrario, ne aumenta il valore! Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. Era incomprensibile, dissi, che il pensiero della caducità del bello dovesse turbare la nostra gioia al riguardo. Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno, in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno. Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione dell’opera d’arte o della creazione intellettuale dovessero essere svilite dalla loro limitazione temporale. Potrà venire un tempo in cui i quadri e le statue che oggi ammiriamo saranno caduti in pezzi, o una razza umana dopo di noi che non comprenderà più le opere dei nostri poeti e dei nostri pensatori, o addirittura un’epoca geologica in cui ogni forma di vita sulla terra sarà scomparsa: il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta.

Mi pareva che queste considerazioni fossero incontestabili, ma mi accorsi che non avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull’amico. Questo insuccesso mi portò a ritenere che un forte fattore affettivo intervenisse a turbare il loro giudizio; e più tardi credetti di avere individuato questo fattore. Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello. L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità. Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato e ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare mai ai quali si riconducono altre cose oscure. Noi reputiamo di possedere una certa quantità di capacità d’amare – che chiamiamo libido – la quale agli inizi dello sviluppo è rivolta al nostro stesso Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti, che noi in tal modo accogliamo per coì dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) torna ad essere libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo dunque è il lutto.

La mia conversazione col poeta era avvenuta nell'estate prima della guerra. Un anno dopo la guerra scoppiò e depredò il mondo delle sue bellezze. E non distrusse soltanto la bellezza dei luoghi in cui passò e le opere d'arte che incontrò sul suo cammino; infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste della nostra civiltà, il nostro rispetto per moltissimi pensatori ed artisti, le nostre speranze in un definitivo superamento delle differenze tra popoli e razze. Insozzò la sublime imparzialità della nostra scienza, mise brutalmente a nudo la nostra vita pulsionale, scatenò gli spiriti malvagi che albergano in noi e che credevamo di aver debellato per sempre grazie all'educazione che i nostri spiriti più eletti ci hanno impartito nel corso dei secoli. Rifece piccola la nostra patria e di nuovo lontano e remoto il resto della terra. Ci depredò di tante cose che avevamo amate e ci mostrò quanto siano effimere molte altre cose che consideravamo durevoli.

Non c’è da stupire se la nostra libido, così impoverita di oggetti, ha investito con intensità tanto maggiore ciò che ci è rimasto; se l’amor di patria, la tenera sollecitudine per il nostro prossimo e la fierezza per ciò che ci accomuna sono diventati d’improvviso più forti. Ma questi altri beni, ora perduti, hanno perso davvero per noi il loro valore, perché si sono dimostrati cos’ precari e incapaci di resistere? A molti di noi sembra così, ma anche qui, ritengo, a torto. Io credo che coloro che la pensano così e sembrano preparati a una rinuncia definitiva perché ciò che è prezioso si è dimostrato perituro, si trovano soltanto in ino stato di lutto per ciò che hanno perduto. Noi sappiamo che il lutto, per doloroso che sia, si estingue spontaneamente. Se ha rinunciato a tutto ciò che è perduto, ciò significa che esso stesso si è consunto e allora la nostra libido è di nuovo libera (nella misura in cui siamo ancora giovani e vitali) di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora. C’è da sperare che le cosa non vadano diversamente per le perdite provocate da questa guerra. Una volta superato il lutto si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima."

da: Sigmund Freud, “Caducità”, 1915, volume 8, OSF, Boringhieri, Torino, 1989, pp 173-176.

mercoledì 1 giugno 2022

Né medici né preti

[…] Per quale motivo allora si cerca di mantenere viva la psicanalisi? È a chi rivolge una domanda a uno specialista della salute mentale o a uno psicoterapeuta impegnato a ristabilire un ben-essere perturbato dai rischi dell’esistenza, che lo psicanalista fa la sua offerta? O questa offerta consiste precisamente nel non piegarsi ad accogliere una simile domanda? Su tale questione è decisivo, in effetti, fare chiarezza piuttosto che fare il competente. È giocando sull’equivoco, salvo adoperarsi per toglierlo di mezzo nel corso di ciò che chiamava ancora una “cura”, che Freud ha dovuto mimetizzare la psicanalisi da discorso medico che cura la psicopatologia, mentre si trattava per lui di offrire a un soggetto la possibilità d’impegnarsi nel dire, senza pensarci su e come di getto, le parole che gli passano per la testa. Ebbene, ciò che per mezzo di questa pratica del linguaggio si ottiene, non è affatto la sottomissione passiva a una cura, ma la decisione di considerarsi responsabile della propria sofferenza e di volerci capire qualcosa, impiegando altri mezzi dai trattamenti che ricorrono ai farmaci o ai buoni consigli. Uno psicanalista non è né medico né prete, scriveva Freud al pastore Pfister. Oggi è giunto il momento di fare un passo in più e di gettare la maschera. Se la maggior parte dei governi europei, a causa del disagio sempre più generalizzato prodotto da una civiltà tecnocratica che non sa offrire se non vantaggi materiali, impone ai cittadini un’offerta psicoterapeutica altrettanto generalizzata, allora non possiamo più esimerci dal reclamare la nostra differenza. Se i governi, per perseguire il loro scopo, intendono legiferare nel campo della psicologia, regolamentando il titolo di psicoterapeuta così come l’applicazione dei metodi della psicoterapia, non possiamo più sottrarci dal proclamare chiaro e forte che la quintessenza della psicanalisi non ha niente a che fare con la medicina né con la sanità, e che di conseguenza la psicanalisi non accetta di essere regolamentata giuridicamente o di essere riconosciuta dallo Stato. Considerata la società di controllo in cui viviamo, e l’inevitabilità che anche gli psicanalisti siano sottomessi a un controllo a cui niente e nessuno può e deve sfuggire, se è dunque necessario imporgli uno statuto a qualunque costo, non è dal Ministero della salute né dal Ministero della pubblica istruzione che essi dovrebbero dipendere, ma dal Ministero della Cultura, alla stregua degli scrittori, degli attori, dei pittori, dei musicisti. Gli psicanalisti si dedicano a una ricerca che è solo affine alla Scienza o alla Filosofia, dato che concerne piuttosto una certa Sapienza (Sagesse), perché non possono promettere i risultati prevedibili e misurabili che ci si attende dall’applicazione di una tecnica. Possono solo offrire delle regole – a cui loro stessi si attengono e che non cessano di rielaborare – ai loro co- siddetti “analizzanti”, i quali, applicandole, hanno la possibilità di avere più direttamente e specificamente a che fare con quegli effetti dell’inconscio che fanno zoppicare la loro vita [...].  

 

Brano estratto da: Jacques Nassif - Gli psicanalisti non sono dei professionisti competenti (Tit.orig.: Les psychoanalystes ne sont pas des clercs, trad. M.Manghi)

lunedì 7 giugno 2021

Contro il Pensiero Unico (di Stato)

Ciò a cui abbiamo assistito, da un anno e mezzo a questa parte, da quando cioè siamo stati travolti dalla pandemia virale, è stata una progressiva riduzione delle libertà individuali sotto lo spettro del contagio. Con l’obbligatorietà del vaccino per le categorie sanitarie, e non solo per quelle, si è di fatto chiusa la possibilità di dare spazio ad un pensiero dissonante non omologato alle logiche dell’establishment politico-economico e quindi di un confronto con posizioni diverse da quelle ribadite dalla Sanità Pubblica, che sul binomio più vaccini-meno morti ha costruito la sua campagna mediatica nell’intento di abolire qualsiasi espressione critica rispetto alle scelte governative. Ma se questo è quanto avviene nel rapporto tra soggetto e istituzioni dello Stato, ancor più preoccupante, se non già drammatico, è il sempre maggiore appiattimento della categoria degli psicologi sulle posizioni assunte dalla categoria medica, laddove la stessa possibilità di un pensiero ‘Altro’ viene di fatto abolita per decisione superiore e inappellabile. Recentemente si è assitito a dichiarazioni ufficiali da parte di alcuni presidenti di Ordini regionali francamente sconcertanti, in cui si auspicano ad esempio '..attività di persuasione e di incentivo alla campagna vaccinale grazie al ruolo specifico che potranno esercitare gli psicologi, i quali con attività mirate potranno contribuire a far raggiungere l’immunità di gregge, contrastare le fake news e le attività costanti dei movimenti no-vax'. Probabilmente neanche nella Russia degli anni 'Cinquanta gli psicologi hanno mostrato un analogo spirito di dedizione alla ragione di Partito! E’ dunque questa la Psicologia del futuro, espressione di un Ego di Stato onnipotente, al servizio delle logiche di controllo sociale e di livellamento standardizzato delle coscienze individuali? Che ne è del confronto con quelle parti di Sè che costitutivamente rappresentano la nostra complessità e quindi la possibilità stessa di una dialettica fondante tra identità ed alterità nell’ottica di una processualità dello sviluppo psichico? Gli psicologi - ieri, oggi e si spera anche domani - non fanno attività di persuasione e convincimento delle persone, come non attuano 'opere mirate' per contribuire a far raggiungere l’immunità di gregge, così come non contrastano, magari in armi come novelli cavalieri crociati, le fake news e le attività costanti dei movimenti no-vax; piuttosto, operano per stimolare il pensiero critico, per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e soprattutto per favorire comportamenti assunti in maniera responsabile e consapevole, ciò che in questo momento storico sembra essere troppo spesso delegato a terzi per decreto governativo.

sabato 28 marzo 2020

Alterità virale

«[…] Al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera suo diritto e suo dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo attraversando, quando sembra si verifichi qualcosa di simile a una violenta epidemia […] e desidererebbe poter contare sul senso civico e la collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il propagarsi del contagio.[...] Il Governo è perfettamente consapevole delle proprie responsabilità e si aspetta da coloro ai quali questo messaggio è rivolto che assumano anch’essi, da cittadini rispettosi quali devono essere, le loro responsabilità, pensando anche che l’isolamento in cui ora si trovano rappresenterà, al di là di qualsiasi altra considerazione personale, un atto di solidarietà verso il resto della comunità nazionale, etc..».
In questi giorni quante volte abbiamo ascoltato dalla tv parole simili, stretti dalla morsa del virus nell’isolamento forzato. Eppure non sono quelle pronunciate da esponenti della politica. Alcuni invece avranno riconosciuto passi del romanzo Cecità di J.Saramago(1), dove in una anonima cittadina esplode all’improvviso un’epidemia che rende cieche le persone, che costringe tutti ad una drastico cambiamento dei propri modi di vita e dei rapporti sociali e che fa riflettere sulla natura dei rapporti umani nei momenti più critici, sulle paure della psiche individuale e del corpo sociale prodotte da un evento catastrofico, sulle dinamiche di potere e di sopraffazione che si generano in simili scenari.
Senza scomodare la biopolitica di foucaltiana memoria(2), è infatti sotto gli occhi di tutti come il legame tra politica e medicina sia divenuto un aspetto centrale nella società contemporanea. L’emergenza provocata dall’epidemia virale Covid19 ha di conseguenza attivato un’emergenza politica tesa alla cura e salvaguardia della salute dei cittadini, poiché l’assunto è che lo Stato abbia un potere assoluto sulla loro vita biologica. E’ quindi facilmente comprensibile come una tale facoltà dei poteri centrali, supportata da regime militare e regime sanitario, potrebbe costituire per le società del futuro una grande minaccia ai diritti sociali ed alle libertà individuali. Ma a quale ‘altra’ cecità il suddetto romanzo starebbe accennando? Certamente, le chiavi di lettura possono essere molteplici e riferite ad aspetti diversi della nostra realtà che – per rimanere nella metafora letteraria – non riusciamo più a vedere: l’indifferenza verso il nostro prossimo, l’attuale modo di vivere individuale e collettivo, sempre più atomizzato e orientato alla mercificazione ed al consumo bulimico delle relazioni, la crescente perdita di riferimenti e valori, la negazione dell’idea stessa di un limite naturale delle cose, di fronte al ‘no-limits’ del trionfo ipertecnologico, che si sublima nella negazione della morte quale limite all’esperienza umana. Nella nostra società dell’immagine, dove tutto è sottoposto al maquillage dei trattamenti estetici correttivi alla ricerca del benessere psicofisico, sembra dover essere necessario vedere file di camion che trasportano nei crematori centinaia di morti ad opera del virus per ricordarci, come un pugno in pieno viso, che la morte esiste ed è lì, dietro l’angolo. E così, avendo subito nella nostra cultura una sistematica rimozione, la morte torna nelle vesti dell’Altro a reclamare l’attenzione che – ‘naturalmente’ – le spetta. Il Tragico fa irruzione sulla scena e impone la sua legge. E’ come se una certa visione di mondo, con le sue forme stabilite ed i suoi ritmi cui eravamo assuefatti, fosse stata risucchiata dal buco nero della pandemia e dalla emergenza, che detta ora modi e tempi del vivere quotidiano. Esplode così nelle strade e nelle case con l’evidenza di una realtà aliena e frantuma all’improvviso le nostre pseudo-certezze, le nostre abitudini, il nostro modo consueto di vedere le cose. E il virus stesso sembra beffardamente incarnare la metafora della crescente scotomizzazione della nostra alterità laddove ci vediamo costretti ad evitare gli altri esseri umani, a non avere alcun contatto ravvicinato con loro, ad avere paura del nostro prossimo se lo incrociamo camminando, poiché potrebbe rivelarsi un veicolo di contagio. Un evidente squilibrio dunque sembra governare la Weltanshauung dell’uomo contemporaneo, dove tutto è Io/Ego e non c’è più spazio per l’Altro. Anticamente, l’uomo riusciva a stabilire un dialogo con l’alterità grazie a un rapporto diretto con gli elementi della Natura, quindi attraverso gli Dei, poi con le religioni monoteiste. Il progressivo ritiro delle sue proiezioni psichiche, frutto della civiltà e della cultura, gli ha però lasciato un mondo disabitato di senso e disanimato di emozioni, se non quelle estreme e solipsistiche, ricercate forse nel tentativo di sentirsi ancora esistere, in un mondo che abbiamo riempito con scintillanti quanto superflui oggetti di consumo usa e getta che ci soffocano in solitudini preconfezionate. Oggi parlare del freudiano ‘disagio della civiltà’ si tradurrebbe nell’ostracismo riservato alla dimensione inconscia della psiche, invasa e sostituita da pratiche correttive, riabilitazioni riadattative, procedure di rinforzo e supporti terapeutici a quell’Io sempre più sprofondato in sé stesso e che avrebbe invece solo bisogno del dialogo trasformativo con l’Altro. Un Ego sempre più cieco ed ipertrofico ha infatti assunto la posizione di assoluto comando nella stanza dei bottoni del nostro mondo tecnologizzato. C’è voluto il pericolo mortale del virus per farci riscoprire il valore, l’importanza ed il senso di una comunità, per essere altruisti, generosi fino all’autosacrificio, con chi soffre, con chi muore, per ridestarci dalle nostre fobie, o semplicemente dal torpore, dall’indifferenza. In una parola per riscoprirci propriamente ‘umani’. ‘Andrà tutto bene’, ci diciamo, ma facciamo che questa immane tragedia oggi non ci renda di nuovo ciechi domani.



Note
(1) - Cecità (1995), José Saramago, Ed.Einaudi.
(2) - La volontà di sapere (1978), Michel Foucault, Ed.Feltrinelli. Per Foucault la biopolitica riassume le pratiche con le quali il potere di Stato gestisce il corpo dei cittadini, area d'incontro tra potere politico e sfera della vita (biopotere).












lunedì 25 novembre 2019

L'uomo è un ponte



Nella stanza di analisi la pratica, com'è noto, consiste nel ricreare attraverso il setting - la cornice imprescindibile che mette in scena nel qui ed ora la rappresentazione di sé dell'altro, del paziente, fornendogli le coordinate spazio-temporali dove poter far confluire i suoi vissuti e le sie memorie - quel meccanismo di decostruzione, traduzione, trasformazione e ricostruzione del senso per mezzo della funzione interpretativa, che si dispiega nella struttura dialogica dell'evento e nella reciprocità che si instaura tra analista e analizzando e che la sostiene.
La possibilità del cambiamento, dell'insight che ordina in una nuova gestalt una certa configurazione interna che attraversa i piani cognitivo, affettivo, emotivo, sensoriale, etc. …, deriva dalla congiunzione epifanica di elementi diversi, eterogenei, fino a quel momento lontani o dispersi, che vengono catturati e filtrati all'interno di quella matrice di significato, rappresentata appunto dal setting, dove è possibile focalizzare, ri-nominare e ri-sperimentare le cose della propria vita, o nominarle e sperimentarle per la prima volta. E tutto ciò alla presenza di un testimone, l'analista, che rimanda costantemente la cifra identitaria dell'altro-da-sé, e nel contempo promuove quell'avvicinamento necessario alla propria alterità in una continua dialettica giocata sulle note del riconoscimento-disconoscimento transferale di ciò che è proprio, di ciò che è dell'altro, di quanto ci appartiene, di quanto non ci appartiene più o non ci è mai appartenuto.
Più che costruzione di sé, tuttavia, il processo psicoanalitico si pone, per fini terapeutici non meno che conoscitivi, come decostruzione di una identità 'cristallizzata' nella nevrosi che, in quanto basata su rappresentazioni di sé disfunzionali e ripetitive, impedisce il raggiungimento di un più evoluto e maturo equilibrio tra identità ed alterità, che consentirebbe invece al soggetto una maggiore libertà esistenziale e di pensiero. L'equilibrio identitario, in altri termini, appare per sua natura instabile e precario e necessita per il suo buon funzionamento di un dinamismo che senza soluzione di continuità lo rapporti al polo dell'alterità interna ed esterna. Solo in questa compresenza è possibile il cambiamento del sé in senso evolutivo e lo sviluppo di una modalità esistentiva nel complesso centrata sull'inclusione piuttosto che sull'esclusione dell'Altro.
Possiamo quindi pensare alla psicoanalisi nei termini di una scienza della alterità – se di scienza si può parlare, oggi che le declinazioni della 'verità narrativa' e del post-costruttivismo hanno progressivamente spostato il baricentro psicoanalitico verso il piano ermeneutico, oppure se sia meglio considerarla al pari di una professione di fede in chiave laica – i cui cardini concettuali, da sempre, si sono primariamente articolati sul binomio identità/alterità e sul riconoscimento della funzione centrale di legame svolta dalla coscienza nel tentativo di una migliore integrazione possibile dei contenuti inconsci.
Il tema portante dell'identità e del suo rapporto con l'alterità si snoda infatti attraverso tutto il percorso della riflessione psicoanalitica, attraverso un sempre maggiore riconoscimento alla dimensione inconscia-Altra quale luogo depositario della autenticità profonda del soggetto.
Ed oggi la stessa psicoanalisi, in quanto scienza della alterità, o di frontiera, è sollecitata ad entrare in un rapporto di collaborazione sempre più stretto con le altre discipline confinanti, quali la filosofia, l'antropologia, la semiologia, le neuroscienze, per arricchire i propri paradigmi epistemici e consentire un allargamento ed approfondimento delle proprie ipotesi operative ed interpretative, poiché è proprio in questa area di intersezione tra diversi punti di vista sull'uomo che è possibile rinvenire nuove conoscenze e nuovi stimoli culturali.
Dal registro interno a quello esterno, infatti, la funzione psicoanalitica rimane intatta, in quanto alla base di qualsiasi processo conoscitivo si riscontra un rapporto e, se vogliamo, un incontro di identità tra loro diverse, nella accezione ampia del termine (quindi non solo soggettive, ma culturali, sociali, etc. …) all'interno di una peculiare esperienza emotiva. L'importanza di mantenere una tensione interna funzionale al confronto tra istanze diverse dell'essere, come tra un dentro e un fuori, viene ribadita anche da queste parole di J.P. Vernant, che si riallacciano alla cultura mitologica e ad una visione dell'umano in costante rapporto con le sue determinanti archetipiche:
"Passare un ponte, traversare un fiume, varcare una frontiera, è lasciare lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un orizzonte differente, uno spazio estraneo incognito, ove si rischia - confrontati a ciò che è altro - di scoprirsi senza "luogo proprio", senza identità. Polarità dunque dello spazio umano, fatto di un dentro e di un fuori. Questo "dentro" rassicurante, turrito, stabile e questo "fuori" inquietante, aperto mobile, i Greci antichi lo hanno espresso sotto forma di una coppia di divinità unite e opposte. Hestia ed Hermes. Hestia è la dea del focolare, nel cuore della casa. Tanto Hestia è sedentaria, vigilante sugli esseri umani e le ricchezze che protegge, altrettanto Hermes è nomade, vagabondo: passa incessantemente da un luogo all'altro, incurante delle frontiere, delle chiusure, delle barriere. Maestro degli scambi, dei contatti, è il dio delle strade dove guida il viaggiatore, quanto Hestia mette al riparo tesori nei segreti penetrali delle case. Divinità che si oppongono e pure sono indissociabili. È infatti all'altare della dea che, secondo il rito, sono accolti, nutriti, ospitati gli stranieri venuti da lontano. Perché ci sia veramente un "dentro", bisogna che possa aprirsi su un "fuori", per accoglierlo in sé. Così ogni individuo umano deve assumere la parte di Hestia e di Hermes. Tra le rive del Medesimo e dell'Altro, l'uomo, infatti, è un ponte"(1).


(1) Da una conferenza tenuta dall'autore nel 1999 in occasione del 50° anniversario del Consiglio d'Europa.

lunedì 10 settembre 2018

Per un'etica della alterità


Sappiamo che l’etica (dal greco antico èthos, ovvero 'carattere', 'comportamento', 'costume', 'consuetudine') è quella branca della filosofia che studia la condotta degli esseri umani e i criteri in base ai quali si valutano i loro comportamenti e le loro scelte. Le riflessioni sull’etica, e quindi sulle implicazioni dell'agire umano, hanno origini molto antiche e i primi a farne vero e proprio oggetto di riflessione filosofica per quanto riguarda l’occidente furono (ça va sans dire..!) i Greci antichi: Socrate, Platone, Aristotele, ci hanno lasciato scritti sui quali in seguito con l’Illuminismo, e in particolare con Immanuel Kant, si è andata costruendo la visione etica dell'uomo moderno, definendo i presupposti razionali dell’agire morale dell’uomo e richiamandosi alla necessità di un’etica improntata su un rigoroso senso del dovere e del rispetto della libertà altrui.
Semplificando il concetto, parlando di etica ci si riferisce ad ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, al fine di individuare cosa sia bene per lui e i mezzi atti a conseguirlo, ma anche quali siano i doveri morali dell’uomo verso sé stesso e verso gli altri e quali i criteri per giudicare sulla moralità delle azioni umane rispetto alle categorie di ‘bene’ e ‘male’. Definire ciò che è etico o meno, e quindi ciò che è bene da ciò che è male, è tuttavia complicato dal fatto che alla base di tale distinzione sta una determinata visione dell’uomo e dei rapporti umani spesso correlata ad una particolare religione o ideologia. Possiamo quindi ad esempio distinguere tra un'etica religiosa, le cui norme di comportamento sono da intendersi come valide a priori, ed un'etica laica (o un approccio laico ad un problema etico), più incline a misurarsi con le esigenze umane in riferimento al concreto contesto storico-sociale in cui si esprimono.
Se la psicoanalisi ha una sua etica (o forse oggi potremmo anche dire che 'è' anch'essa un'etica, divenuta tale dopo un secolo e mezzo di freudismo culturale..) questa deve essere ravvisata nella stessa natura dell'inconscio in quanto Altro, cioè nella sua dimensione di alterità rispetto alla coscienza di sé propria della dimensione dell'Io.
La maggiore 'scoperta' freudiana e della psicoanalisi tutta, secondo cui in definitiva 'l’io non è padrone in casa propria', (ma sappiamo come questa 'rivelazione' sia stata in realtà preparata e assimilata nel tempo precedente l'avvento del freudismo anche grazie all'esplosione del 'fenomeno' Nietzsche..), ha rappresentato probabilmente il vero motivo di una ostilità latente da parte di una certa cultura positivista fin de siecle nei confronti del discorso psicoanalitico fin dal suo primo apparire e che permane a vari livelli anche oggi, quando una certa visione iperscientifica e tecnicistica dei processi mentali pretende di 'spiegare', con tanto di statistiche e di diagrammi di flusso, cosa accade nella mente degli individui. Ma una tale pretesa di scientificità finisce solo per privarci di quella dimensione di alterità, di quella presenza dell'Altro che è costitutiva della natura umana, che sola ci può rendere non definiti a priori da meccanismi stimolo-risposta ed aperti ad una forma di trascendenza (laica!) che dà una connotazione simbolica, poetica e ulteriore alla nostra esperienza di essere nel mondo.
Qualcuno mezzo secolo fa (1) parlava in proposito dello psicoanalista come di un 'rebut de la societè', un rifiuto della società, uno scarto, indicando che chi vuole praticare la psicanalisi deve accettare di rimanere in questo 'altrove' - o secondo una più recente espressione di G.Le Gaufey (2):“ai confini delle terre giuridicamente accatastabili” - dove le norme giuridiche e le leggi dello Stato, come anche quelle implicite della società in quanto aggregato di soggetti (i 'cittadini'), non hanno autorità nè potere, essendo questo 'altrove' caratterizzato da un'altra logica, sua propria, che risponde alla sola clausola di unicità dell'individuo: non replicabile, non categorizzabile, non omologabile, quindi non riducibile a riduttivi schematismi e statistiche predittive. Questo fondamentale 'vuoto' giuridico, politico e sociale, è speculare alla mancanza di fini ed obiettivi della stessa psicanalisi, al di là della possibilità di instaurare col paziente un discorso di verità che si determina sulla base della sua unicità e procede solo ed esclusivamente nel transfert, cioè nel rapporto a due col terapeuta.
In tal senso, abbracciare l'etica dell'alterità significa allora creare le condizioni interiori affinchè il nostro Io non insista nell'illusione di essere onnipotente, che il nostro essere si risolva interamente nel nostro Io e in ciò che conosciamo ed accettiamo in noi, bensì indebolire una certa rappresentazione di noi stessi che ci ha evidentemente condotto ad un punto morto, alla paralisi della nevrosi, mettendolo dunque nella possibilità di ascoltare quelle voci di dentro e di fuori che suonano a tutta prima stonate, stridule, cupe, incomprensibili, voci che nel togliere centralità assoluta all’io offrono al soggetto l’opportunità di scoprire quei territori di ombre e nebbie, di indefinito, di vago e immaginifico, al di là e oltre le 'terre giuridicamente accatastabili'..
In tutto questo, è il ruolo della parola stessa nella sua potenzialità creativa, espressiva e maieutica a divenire centrale e ad alimentare il processo di trasformazione nell'ottica della alterità; lapsus, vuoti di parola, amnesie, tutti questi piccoli 'sintomi' ci mostrano come il linguaggio, unitamente ai sogni (che è in realtà un parlare per immagini), rappresenti il canale principale attraverso cui la nostra 'alterità costitutiva' si rende palesemente operativa (a volte fin troppo!..Se pensiamo a come ci sentiamo quando commettiamo un lapsus che svela un pensiero sottostante non proprio in sintonia con la nostra personalità cosciente).
Un etica della alterità propone dunque un recupero, anzi una salvaguardia, di tali territori d'ombra e nebbie perenni; piuttosto che considerare tali manifestazioni – così come i sintomi psicopatologici veri e propri – come 'errori' da eliminare, come input difettosi, occorre preservare una tale originaria indefinitezza e informità, dove la congiunzione (questo e quello) si sostituisce sempre alla alternativa (questo o quello).
Oggi, nei nostri mondi ipertecnologici, ci si scopre sempre più deprivati di questa fondamentale alterità, quasi che si rischiasse una 'perdita di inconscio' di fronte ad una crescente ipertrofia dell'Io (3). La corsa consumisitca all'oggetto nuovo, subito sostituito con un altro ancora, sembra l'equivalente esterno di un tale atteggiamento interiore in cui più che il godimento dell'oggetto in quanto conosciuto e valorizzato vige il suo possesso, anche se effimero e fugace.
In questo scenario, in cui la soggettività stessa tende a scomparire a vantaggio degli apparati sociali di conformismo e adattamento, l'atteggiamento analitico rimane dunque un sapere letteralmente 'critico' – in quanto aderente alla dimensione di crisi permanente della condizione umana, ma pure orientato nel senso di valorizzare l'unicità del singolo contro il potere soverchiante del collettivo-sistema – un sapere cioè che non mira a convalidare e legittimare l’ordine sociale egemone, adottando logiche e valori prestabiliti dalla Legge o piuttosto dal 'mercato globale'.
E questo almeno finchè ci sarà 'un pezzo di terra non accatastabile', dove continuare a coltivare il sintomo, il sogno, l’immaginazione, la poesia e la speranza.


(1) Jacques Lacan
(2) Guy Le Gaufey – Appartenere a sé stessi. Anatomia della terza persona. Polimnya Edizioni
(3) Gli antichi, sicuramente più saggi di noi, sapevano difendersi da una tale sciagura attraverso le molte divinità che veneravano. Ma poi giunse il Cristianesimo..

mercoledì 27 dicembre 2017

Le ultime parole di Lord Chandos



“Singole parole giravano rapide attorno a me,si mutavano in occhi
che mi fissavano ed in cui io a mia volta dovevo concentrarmi:
erano vortici in un perenne turbinare che a fissarli nel profondo si è
presi da un senso di capogiro ed al di là dei quali si è nel vuoto"
.
(Der Brief des Lord Chandos, H.V. Hofmannsthal)

Ho perso le parole, oppure sono loro che perdono me.
(L.Ligabue, cantante pop)



Siamo abituati a considerare la parola come la dimensione sonora e scritta della cosa, in un binomio inscindibile e sacrale che fissa stabilmente l'una all'altra e si pone a fondamento di ogni pensiero umano, di qualsivoglia costruzione culturale, estetica, scientifica, religiosa.
Le parole e le cose (1) hanno così, da sempre, mantenuto una implicita relazione di reciprocità, una rassicurante santa alleanza che ha consentito alla mente umana di estendere progressivamente il suo dominio sul mondo, di rappresentarselo in modo unitario e coerente e di renderlo conoscibile e finanche ampiamente prevedibile pur nelle sue continue trasformazioni.
Che l'atto di nominare, la parola, sfiori solo tangenzialmente le cose e le lasci nella loro sostanziale impenetrabilità è un'acquisizione della mente umana solo relativamente recente, pressappoco da quando Kant parlò di quella 'Cosa'(2) che invece si ostina a rimanere lontanissima dalla sempre rinnovata seduzione della parola nei suoi confronti.
Più vicini a noi, la epocale distinzione saussuriana(3) tra significante e significato, e quella successiva tra mappa e territorio di A.Korzibsky(4), sono concetti che ci hanno portato a prendere maggiore confidenza con una tale estraneità, o piuttosto alienità, della cosa dalla parola, sancendo in modo definitivo e irreversibile quella spaccatura che l'originaria religiosa simbiosi teneva celata(5).
Cosa accada, nell'universo letterario, quando la parola non dice più la cosa (oppure, se volete, quando è la cosa a non farsi più dire dalle parole) è stato, sicuramente tra i primi, Hugo von Hofmannsthal(6) a portarcene una 'diretta' testimonianza attraverso il suo personaggio, l'aristocratico Lord Chandos, prima un giovane e ambizioso scrittore-poeta, ora un uomo che ha 'perduto le parole' e che cerca, nonostante ciò, di spiegare per lettera all’amico e suo grande estimatore Francis Bacon la natura di un particolare malessere personale che sembra inesorabilmente condurlo ad un prematuro ritiro da quell'agognato orizzonte artistico:
“..Come tentare di descrivervi questi straordinari tormenti spirituali, questo improvviso ergersi verso l’alto di rami pregni di frutta che si sfuggono dinanzi alle mie mani protese, questo ritrarsi dell’acqua gorgogliante dinanzi alle mie labbra assetate? Il mio caso in breve è questo: ho smarrito del tutto la facoltà di pensare e parlare con logica su qualsiasi argomento. In un primo tempo mi divenne gradualmente impossibile intrattenermi su argomenti tanto elevati quanto comuni, e quindi proferire proprio quelle parole di cui gli uomini comunemente usano servirsi.
Soltanto a pronunciare le parole spirito, animo o corpo, avvertivo un inspiegabile turbamento. Mi riusciva impossibile nell’intimo esprimere giudizi sui fatti della corte, sulle questioni del parlamento, o su qualsiasi altro argomento vogliate immaginare. E questo non per una sorta di prudenza: vi è nota la mia franchezza che si perde con la leggerezza! Piuttosto le astratte parole di cui la lingua naturalmente usa servirsi per portare una qualsiasi idea alla luce del giorno, mi si sfarinavano in bocca come funghi marci […] Ed una tale infezione andò dilatandosi nel tempo come ruggine che tutto macera all’intorno. Persino nel discorrere domestico e familiare, l’esprimere un qualsiasi parere di quelli che si offrono leggermente e con non curata sicurezza, divenne per me così problematico che dovetti cessare di partecipare a queste conversazioni. Provavo un’indescrivibile irritazione che solo a fatica riuscivo a dissimulare nell’ascoltare frasi del genere: 'la tal cosa è per il tale o per il talaltro andata bene o male; il predicatore T. è un brav’uomo; Il fittavolo M. è da compatire perché ha dei figli scialacquatori; un altro è da invidiare perché le sue figlie sono parsimoniose; una famiglia sale ed un’altra declina..'. Tutto ciò mi appariva indimostrabile, falso, vuoto, sino al parossismo. Per di più il mio spirito m’induceva a vedere vicina in modo inquietante qualsiasi cosa fosse attinente a tali discorsi: così come una volta un lembo di pelle del mio dito mignolo, osservato attraverso una lente di ingrandimento, mi era apparso come un territorio cosparso di profondi solchi e voragini, così mi accadeva ora con gli uomini e con le loro azioni; non riuscivo più a coglierli nello sguardo semplificato dell’abitudine. Ogni cosa mi si sfaldava incoerentemente in più parti, e queste ancora in ulteriori parti, e nulla si lasciava più ricondurre ad un unico concetto. Singole parole giravano rapide attorno a me, si mutavano in occhi che mi fissavano ed in cui io a mia volta dovevo concentrarmi: erano vortici in un perenne turbinare che a fissarli nel profondo si è presi da un senso di capogiro ed al di là dei quali si è nel vuoto..”.

Lord Chandos abbandona la vocazione di scrittore perché nessuna parola gli sembra poter più esprimere la realtà oggettiva delle cose, degli animali e delle persone intorno a lui. E' come se il flusso caotico della vita lo coinvolgesse totalmente, a tal punto che egli vi si smarrisce completamente e gli oggetti, ora semplici cose, appaiono come corpi estranei, trasfigurati rispetto ai loro antichi rimandi, che lo fissano da una distanza siderale e non gli consentono di essere approcciati dalle sue parole, che a stento cercano, ormai senza più trovarli, trame e itinerari conosciuti per potersi dispiegare e rendere un'immagine unitaria e coerente di ciò che gli sta dinanzi. In questo progressivo decentramento dell’io, parallelamente, l'apparente unità della persona mostra la sua natura composita, le sue agglutinazioni successive, i limiti strutturali del linguaggio umano si accentuano fino a diventare afasia e il reale, la 'cosalità' materiale del mondo, prende il sopravvento liberando dal basso moltitudini di cose ormai non più nominabili né dominabili dal Logos. Ciò che sconvolge interiormente il giovane letterato infatti non è tanto il silenzio della realtà, ma la simultanea molteplicità delle sue voci sempre meno prossime alle parole, che germina ininterrotta in una straniante e sfibrante epifania.
Ciò che Lord Chandos ci sta dicendo nella sua breve e malinconica lettera sembra anticipare in pochi accorati accenni quanto il recente pensiero filosofico, quello psicoanalitico e la linguistica moderna, ognuno dal proprio vertice – da Heidegger a Foucault, da Freud a Lacan (via Saussure) – hanno in seguito elaborato e analizzato concettualmente giungendo ad una visione sempre più decentrata del rapporto tra uomo e mondo-realtà. Intanto la consapevolezza dell'insufficienza 'strutturale' del linguaggio umano quale strumento della rappresentabilità della realtà: esiste cioè uno scollamento fondamentale tra le parole e le cose, la realtà è irriducibile al pensiero-parola che pure la nomina e la descrive, laddove il segno (la parola, o la scrittura) riempie quel vuoto originario ma a condizione di non poterlo mai colmare.
L’io che nomina le cose ha definitivamente perso il suo statuto metafisico di centro unificatore e questa perdita di referenza incarna lo spirito stesso della condizione moderna, al punto che oggi possiamo affermare che non è più l'uomo, ma è la parola (il linguaggio umano) che pensa, e lo fa in uno scarto - in una differanza, direbbe Derrida(7) -dalle cose, che si mantengono così ad una distanza incolmabile sia dall'uno che dall'altra.
Eppure, in una tale radicale impossibilità, è lo stesso Chandos nella sua lettera a suggerire un varco, una almeno temporanea apertura dell'orizzonte che rimanda ad una ulteriore e inattingibile armonia tra le cose o forse ad un diverso linguaggio, stavolta non codificabile né esprimibile con le sole parole:
“..Mi sembra allora che tutto, tutto ciò che esiste, tutto ciò di cui mi rammento e che i miei più confusi pensieri accarezzano, sia un qualcosa che esista. Ed allora anche quella certa pesantezza, quella strana ottusità del mio cervello, si prospetta come un qualcosa: in me e attorno a me avverto un seducente e semplicemente infinito gioco delle parti. In tale armoniosa corrispondenza non rinvengo un solo elemento nel quale sia impedito a trasfondermi. E quasi per magia mi si svela allora come il mio corpo si scomponga in chiare cifre che si mostrano la chiave di ogni cosa, o che potremmo entrare in un nuovo toccante rapporto con tutto ciò che comunque pulsa, solo che principiassimo a pensare con il cuore. Ma come questo straordinario incantesimo si separa da me, ecco allora che non sono più capace di descriverlo, né potrei mai esprimere con parole coerenti in cosa sia realmente consistita questa straordinaria armonia che permea me ed il mondo intero e come mi si sia manifestata, allo stesso modo di come io non potrei con sufficienza descrivere i moti del mio intestino o i flussi del mio sangue..”.
Forse lo 'straordinario incantesimo' cui il nostro (ex)letterato-poeta accenna è quello stato di grazia, quel sempre effimero contatto emotivo con le dimensioni più profonde della coscienza, che ci restituisce una esperienza totalizzante del nostro essere in rapporto alla realtà in un unicum inscindibile, la sensazione di essere ancora compresi nell'abbraccio materno, quella 'qualità' dell'esperire umano che insieme ci sostiene e ci nutre e a cui, al di là dello strumento linguistico e 'paterno' che ci situa nella realtà, facciamo necessariamente ritorno per alleviare la fatica del quotidiano.
Ma è quando le nostre parole divengono incapaci di farsi tramite con le emozioni più profonde che esse restano lì, in superficie, come meri oggetti inservibili, come frigoriferi rotti che riempiono lo spazio delle discariche delle loro vecchie superfici smaltate. Oggi, che la cultura mediatica si propone quale farmaco universale in grado di farci sfuggire alle nostre solitudini esistenziali, assorbiamo continuamente parole che articolano acrobazie verbali sul nulla e che ci consegnano al totale silenzio interiore: flatus vocis che rincorrono un improbabile punto di convergenza in un senso già masticato da altri. La chiacchiera, la parola vuota, la parola riempitivo che gonfia la forma, il 'si dice'..Tutte forme di quel disancoramento della parola dalla sua anima cui siamo soggetti, volenti o nolenti, nel nostro quotidiano incontro con 'gli altri', ma soprattutto in profondità con noi stessi.
Il campo psicoanalitico, che si configura come la dimensione per eccellenza in cui la parola ha uno statuto epistemico assoluto in quanto consente ed esprime la relazione con l'inconscio, ha ulteriormente mostrato e chiarito come siamo presi quindi all'interno di una condizione paradossale: siamo 'esseri parlanti', o meglio 'parlati' dalle parole e da un linguaggio che ci precede, ci struttura e ci condiziona fin dalla nascita e a cui ci affidiamo totalmente ma, oggi ancor più di ieri, pure pienamente consapevoli della solo parziale possibilità delle parole di poter lambire la realtà delle cose e rubarne granelli in termini di conoscenza.
Per poter attingere alla parola in senso più pieno è allora necessario per ognuno lasciar emergere ed esprimere il proprio idioma, il proprio linguaggio più profondo, che attinge ai processi legati alla metafora, alla metonimia, alla sospensione della razionalità e del giudizio, andando oltre la dimensione meramente convenzionale con cui si può intendere il linguaggio, abbandonandosi quindi alla parola nella sua dimensione originaria, creativa e creatrice.
Poichè – come testimonia la malattia spirituale di Lord Chandos – nel cercare di comprendere la realtà con il solo linguaggio ci si può smarrire, e ciò accade quando le parole non incontrano più le cose.




Note
(1) Titolo pure di un celebratissimo libro del 1966 del filosofo francese Michel Foucault (1926-1984).
(2) La 'Cosa in sé' (Ding an sich) compare nella filosofia di I.Kant riprendendo ed articolando il concetto platonico di Noumeno, inteso come ciò che non può essere percepito nel mondo reale, ma a cui si può arrivare solo tramite il ragionamento. Da tale distinzione tra la 'cosa reale' (fuori dal pensiero) e la 'cosa pensata' (oggetto di pensiero) Kant farà derivare la sua critica alla metafisica come pretesa scienza della cosa in sé.
(3) Ferdinand De Saussure (1857-1913), linguista e semiologo svizzero, fondatore della linguistica moderna.
(4) Alfred Korzybski (1879-1950)filosofo e matematico polacco, noto per i suoi studi sulla General Semantics.
(5) “.. e il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio..”, dal Vangelo secondo Giovanni.
(6) Hugo von Hofmannsthal (1874-1929), scrittore austriaco della corrente simbolista, dedito soprattutto al teatro, scrisse questo breve racconto nel 1902.
(7) Jacques Derrida (1930-2004),filosofo francese fautore del decostruttivismo.