giovedì 20 febbraio 2014

Ubi sunt


“Non molto tempo fa feci d'estate una passeggiata in una ridente campagna insieme ad un amico taciturno e ad un giovane ma già famoso poeta. Il poeta ammirava la bellezza del paesaggio ma non ne provava alcuna gioia. Era turbato dal pensiero che tutta quella bellezza fosse destinata fatalmente all'estinzione, che sarebbe svanita col sopraggiungere dell'inverno, come tutta la bellezza umana e tutta la bellezza e lo splendore che gli uomini hanno creato o possono creare. Tutto ciò che altrimenti avrebbe amato e ammirato gli sembrava spoglio di valore a causa della transitorietà che era nel suo destino...” Così Freud, in un suo breve ma intenso scritto intitolato 'Caducità' (tit. orig. “Verganglichkeit”, 1916), iniziava una accorata riflessione sulla natura fugace dell'esperienza umana e sulla durata effimera benchè periodica delle manifestazioni della natura, per mettere in risalto come il valore intrinseco delle cose, la loro bellezza, si sostanzi proprio di quel limite, di quell'arresto della presenza che 'la fine' impone indistintamente a tutti i figli di questo mondo.
Lo scritto freudiano, col suo alone nostalgico che attenua la durezza del richiamo all'idea della finitudine umana e della morte, potrebbe essere in realtà inserito in quel ricco filone letterario conosciuto sotto il nome latino di 'ubi sunt' (dall'interrogazione 'Ubi sunt qui ante nos fuerunt?), fiorito nel tardo medioevo ma presente fin dalle prime redazioni delle scritture bibliche nella sua concezione di esortazione ad una riflessione sulla vanità e la transitorietà di tutto quanto è vita terrena.
Fin dagli albori della civiltà d'altronde la 'deperibilità' delle vicende umane è stata sempre correlata alla fugacità dell'esistente ed ai limiti di durata imposti dalla Natura al nostro organismo fisico. I primi Greci, presi nella tenaglia dell'angoscia tra il panta rei e l'horror vacui, se ne fecero una malattia e perseguirono gesta follemente eroiche che tramandassero il loro nome ai posteri, così che potesse sopravvivere all'oblio del tempo.
Due millenni dopo ancora un nostalgico Francois Villon chiedeva con insistenza e con pari smarrimento dove fossero andate a finire 'le nevi di un tempo': Ou sont les neiges d'antan? Qui, nella famosa Ballade des Dames du temps jadis (metà del 1400), forse non a caso il sentimento della perdita viene sublimato in un caleidoscopio di figure femminili, regine, miti e donne celebri, che sembrano riflettere la scomposizione di un'unica ideale e ormai perduta immagine materna...
Ma, tornando a Freud...Il suo acume clinico fin dall'inizio individuò nella dimensione temporale del ricordo e della memoria (cosciente ma più spesso inconscio) la causa dell'ammalarsi di nervi. Che l'isterica soffra di reminiscenze è una delle sue prime conclusioni, quando agli inizi della psicoanalisi scrisse con Josef Breuer gli Studi sull'isteria. Potremmo dire che, più che i singoli ricordi 'patologici' o 'traumatici', è proprio la dimensione di centralità, talora assoluta, che il passato assume nella vita di una persona a determinarne la stasi ed il permanere ancorati in uno scenario in cui continua a rappresentarsi un'unica commedia, o dramma (o talora, purtroppo, tragedia). Si pensi soltanto, ad esempio, a quanto della nostra vita mentale 'adulta' continui a ruotare intorno o ad essere letteralmente assorbita dallo scenario edipico della nostra infanzia...
In seguito, Freud affronterà direttamente ed in profondità la tematica della perdita e del lutto (Lutto e melanconia, 1915), dove la centralità del passato nella vita dell'uomo e la persistenza dei sentimenti di perdita e di nostalgia in molte forme di sofferenza mentale assumono un tale spessore da configurare una visione della salute psichica strettamente intrecciata alla possibilità o meno di superare ed elaborare un certo passato, ed il connesso senso della perdita, spostando così anche il baricentro dell'economia psichica da una dimensione quasi atemporale e ormai cristallizzata in modalità ripetitive e spesso centrate sulla sofferenza ad una più in contatto con il presente e con le richieste della realtà. In sostanza cioè la possibilità di trasformare un proprio sentimento rispetto a certe figure del passato, o effettuare nuovi investimenti affettivi in sostituzione di altri ormai perduti.
Ecco allora che il sentimento dell'ubi sunt – potremmo definirlo così ? – col suo alone denso di perdita e di nostalgica ricerca di un tempo e di un mondo perduti (il mondo materno delle nostre origini, per capirci), sembra incarnare una certa visuale soggettiva del/sul nostro passato, prediligendo la dimensione rassicurante della apparente prossimità di un passato che perdura in noi ostinatamente, nonostante ogni giorno nuovo ci porti in realtà più lontano da esso, e in un altro tempo.
Ma la risposta 'definitiva' alla imperitura domanda dell'ubi sunt, senza sconti di sorta alla nostra nostalgica petizione sul passato, ce la da la fiction. E non potrebbe essere altrimenti, nel nostro mondo sempre più virtuale e artefatto. Essa è affidata appunto ad un 'replicante', il ribelle Roy Batty del film-cult Blade Runner (1982), che dinanzi all'imminente scadere del proprio tempo vitale affida a poche ma intense ultime parole la sua natura (fin troppo umana, potremmo aggiungere..) di androide: “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi, etc etc … E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.” Difficile anche per un umano trovare parole più adatte per esprimere il senso di perdita ineluttabile e al contempo il silente dissolversi di una esistenza in un mondo (o piuttosto 'universo' in questo caso) dove niente pare resista alle leggi della entropia e del progressivo oblio, se non magari una qualche sopravvivenza in un ricordo affidato alla memoria di coloro che furono in vita più vicini.
Ed è probabilmente anche per consolarci di un tale assoluto e impossibile pensiero, irricevibile dal nostro inconscio – come diceva Freud a proposito dell'idea stessa della morte – ma alieno anche rispetto alla quotidiana coscienza di sé, che continuiamo ad evocare un altro tempo ed uno scenario perduto ed a chiederci dove ne siano finiti i personaggi.