mercoledì 27 dicembre 2017

Le ultime parole di Lord Chandos



“Singole parole giravano rapide attorno a me,si mutavano in occhi
che mi fissavano ed in cui io a mia volta dovevo concentrarmi:
erano vortici in un perenne turbinare che a fissarli nel profondo si è
presi da un senso di capogiro ed al di là dei quali si è nel vuoto"
.
(Der Brief des Lord Chandos, H.V. Hofmannsthal)

Ho perso le parole, oppure sono loro che perdono me.
(L.Ligabue, cantante pop)



Siamo abituati a considerare la parola come la dimensione sonora e scritta della cosa, in un binomio inscindibile e sacrale che fissa stabilmente l'una all'altra e si pone a fondamento di ogni pensiero umano, di qualsivoglia costruzione culturale, estetica, scientifica, religiosa.
Le parole e le cose (1) hanno così, da sempre, mantenuto una implicita relazione di reciprocità, una rassicurante santa alleanza che ha consentito alla mente umana di estendere progressivamente il suo dominio sul mondo, di rappresentarselo in modo unitario e coerente e di renderlo conoscibile e finanche ampiamente prevedibile pur nelle sue continue trasformazioni.
Che l'atto di nominare, la parola, sfiori solo tangenzialmente le cose e le lasci nella loro sostanziale impenetrabilità è un'acquisizione della mente umana solo relativamente recente, pressappoco da quando Kant parlò di quella 'Cosa'(2) che invece si ostina a rimanere lontanissima dalla sempre rinnovata seduzione della parola nei suoi confronti.
Più vicini a noi, la epocale distinzione saussuriana(3) tra significante e significato, e quella successiva tra mappa e territorio di A.Korzibsky(4), sono concetti che ci hanno portato a prendere maggiore confidenza con una tale estraneità, o piuttosto alienità, della cosa dalla parola, sancendo in modo definitivo e irreversibile quella spaccatura che l'originaria religiosa simbiosi teneva celata(5).
Cosa accada, nell'universo letterario, quando la parola non dice più la cosa (oppure, se volete, quando è la cosa a non farsi più dire dalle parole) è stato, sicuramente tra i primi, Hugo von Hofmannsthal(6) a portarcene una 'diretta' testimonianza attraverso il suo personaggio, l'aristocratico Lord Chandos, prima un giovane e ambizioso scrittore-poeta, ora un uomo che ha 'perduto le parole' e che cerca, nonostante ciò, di spiegare per lettera all’amico e suo grande estimatore Francis Bacon la natura di un particolare malessere personale che sembra inesorabilmente condurlo ad un prematuro ritiro da quell'agognato orizzonte artistico:
“..Come tentare di descrivervi questi straordinari tormenti spirituali, questo improvviso ergersi verso l’alto di rami pregni di frutta che si sfuggono dinanzi alle mie mani protese, questo ritrarsi dell’acqua gorgogliante dinanzi alle mie labbra assetate? Il mio caso in breve è questo: ho smarrito del tutto la facoltà di pensare e parlare con logica su qualsiasi argomento. In un primo tempo mi divenne gradualmente impossibile intrattenermi su argomenti tanto elevati quanto comuni, e quindi proferire proprio quelle parole di cui gli uomini comunemente usano servirsi.
Soltanto a pronunciare le parole spirito, animo o corpo, avvertivo un inspiegabile turbamento. Mi riusciva impossibile nell’intimo esprimere giudizi sui fatti della corte, sulle questioni del parlamento, o su qualsiasi altro argomento vogliate immaginare. E questo non per una sorta di prudenza: vi è nota la mia franchezza che si perde con la leggerezza! Piuttosto le astratte parole di cui la lingua naturalmente usa servirsi per portare una qualsiasi idea alla luce del giorno, mi si sfarinavano in bocca come funghi marci […] Ed una tale infezione andò dilatandosi nel tempo come ruggine che tutto macera all’intorno. Persino nel discorrere domestico e familiare, l’esprimere un qualsiasi parere di quelli che si offrono leggermente e con non curata sicurezza, divenne per me così problematico che dovetti cessare di partecipare a queste conversazioni. Provavo un’indescrivibile irritazione che solo a fatica riuscivo a dissimulare nell’ascoltare frasi del genere: 'la tal cosa è per il tale o per il talaltro andata bene o male; il predicatore T. è un brav’uomo; Il fittavolo M. è da compatire perché ha dei figli scialacquatori; un altro è da invidiare perché le sue figlie sono parsimoniose; una famiglia sale ed un’altra declina..'. Tutto ciò mi appariva indimostrabile, falso, vuoto, sino al parossismo. Per di più il mio spirito m’induceva a vedere vicina in modo inquietante qualsiasi cosa fosse attinente a tali discorsi: così come una volta un lembo di pelle del mio dito mignolo, osservato attraverso una lente di ingrandimento, mi era apparso come un territorio cosparso di profondi solchi e voragini, così mi accadeva ora con gli uomini e con le loro azioni; non riuscivo più a coglierli nello sguardo semplificato dell’abitudine. Ogni cosa mi si sfaldava incoerentemente in più parti, e queste ancora in ulteriori parti, e nulla si lasciava più ricondurre ad un unico concetto. Singole parole giravano rapide attorno a me, si mutavano in occhi che mi fissavano ed in cui io a mia volta dovevo concentrarmi: erano vortici in un perenne turbinare che a fissarli nel profondo si è presi da un senso di capogiro ed al di là dei quali si è nel vuoto..”.

Lord Chandos abbandona la vocazione di scrittore perché nessuna parola gli sembra poter più esprimere la realtà oggettiva delle cose, degli animali e delle persone intorno a lui. E' come se il flusso caotico della vita lo coinvolgesse totalmente, a tal punto che egli vi si smarrisce completamente e gli oggetti, ora semplici cose, appaiono come corpi estranei, trasfigurati rispetto ai loro antichi rimandi, che lo fissano da una distanza siderale e non gli consentono di essere approcciati dalle sue parole, che a stento cercano, ormai senza più trovarli, trame e itinerari conosciuti per potersi dispiegare e rendere un'immagine unitaria e coerente di ciò che gli sta dinanzi. In questo progressivo decentramento dell’io, parallelamente, l'apparente unità della persona mostra la sua natura composita, le sue agglutinazioni successive, i limiti strutturali del linguaggio umano si accentuano fino a diventare afasia e il reale, la 'cosalità' materiale del mondo, prende il sopravvento liberando dal basso moltitudini di cose ormai non più nominabili né dominabili dal Logos. Ciò che sconvolge interiormente il giovane letterato infatti non è tanto il silenzio della realtà, ma la simultanea molteplicità delle sue voci sempre meno prossime alle parole, che germina ininterrotta in una straniante e sfibrante epifania.
Ciò che Lord Chandos ci sta dicendo nella sua breve e malinconica lettera sembra anticipare in pochi accorati accenni quanto il recente pensiero filosofico, quello psicoanalitico e la linguistica moderna, ognuno dal proprio vertice – da Heidegger a Foucault, da Freud a Lacan (via Saussure) – hanno in seguito elaborato e analizzato concettualmente giungendo ad una visione sempre più decentrata del rapporto tra uomo e mondo-realtà. Intanto la consapevolezza dell'insufficienza 'strutturale' del linguaggio umano quale strumento della rappresentabilità della realtà: esiste cioè uno scollamento fondamentale tra le parole e le cose, la realtà è irriducibile al pensiero-parola che pure la nomina e la descrive, laddove il segno (la parola, o la scrittura) riempie quel vuoto originario ma a condizione di non poterlo mai colmare.
L’io che nomina le cose ha definitivamente perso il suo statuto metafisico di centro unificatore e questa perdita di referenza incarna lo spirito stesso della condizione moderna, al punto che oggi possiamo affermare che non è più l'uomo, ma è la parola (il linguaggio umano) che pensa, e lo fa in uno scarto - in una differanza, direbbe Derrida(7) -dalle cose, che si mantengono così ad una distanza incolmabile sia dall'uno che dall'altra.
Eppure, in una tale radicale impossibilità, è lo stesso Chandos nella sua lettera a suggerire un varco, una almeno temporanea apertura dell'orizzonte che rimanda ad una ulteriore e inattingibile armonia tra le cose o forse ad un diverso linguaggio, stavolta non codificabile né esprimibile con le sole parole:
“..Mi sembra allora che tutto, tutto ciò che esiste, tutto ciò di cui mi rammento e che i miei più confusi pensieri accarezzano, sia un qualcosa che esista. Ed allora anche quella certa pesantezza, quella strana ottusità del mio cervello, si prospetta come un qualcosa: in me e attorno a me avverto un seducente e semplicemente infinito gioco delle parti. In tale armoniosa corrispondenza non rinvengo un solo elemento nel quale sia impedito a trasfondermi. E quasi per magia mi si svela allora come il mio corpo si scomponga in chiare cifre che si mostrano la chiave di ogni cosa, o che potremmo entrare in un nuovo toccante rapporto con tutto ciò che comunque pulsa, solo che principiassimo a pensare con il cuore. Ma come questo straordinario incantesimo si separa da me, ecco allora che non sono più capace di descriverlo, né potrei mai esprimere con parole coerenti in cosa sia realmente consistita questa straordinaria armonia che permea me ed il mondo intero e come mi si sia manifestata, allo stesso modo di come io non potrei con sufficienza descrivere i moti del mio intestino o i flussi del mio sangue..”.
Forse lo 'straordinario incantesimo' cui il nostro (ex)letterato-poeta accenna è quello stato di grazia, quel sempre effimero contatto emotivo con le dimensioni più profonde della coscienza, che ci restituisce una esperienza totalizzante del nostro essere in rapporto alla realtà in un unicum inscindibile, la sensazione di essere ancora compresi nell'abbraccio materno, quella 'qualità' dell'esperire umano che insieme ci sostiene e ci nutre e a cui, al di là dello strumento linguistico e 'paterno' che ci situa nella realtà, facciamo necessariamente ritorno per alleviare la fatica del quotidiano.
Ma è quando le nostre parole divengono incapaci di farsi tramite con le emozioni più profonde che esse restano lì, in superficie, come meri oggetti inservibili, come frigoriferi rotti che riempiono lo spazio delle discariche delle loro vecchie superfici smaltate. Oggi, che la cultura mediatica si propone quale farmaco universale in grado di farci sfuggire alle nostre solitudini esistenziali, assorbiamo continuamente parole che articolano acrobazie verbali sul nulla e che ci consegnano al totale silenzio interiore: flatus vocis che rincorrono un improbabile punto di convergenza in un senso già masticato da altri. La chiacchiera, la parola vuota, la parola riempitivo che gonfia la forma, il 'si dice'..Tutte forme di quel disancoramento della parola dalla sua anima cui siamo soggetti, volenti o nolenti, nel nostro quotidiano incontro con 'gli altri', ma soprattutto in profondità con noi stessi.
Il campo psicoanalitico, che si configura come la dimensione per eccellenza in cui la parola ha uno statuto epistemico assoluto in quanto consente ed esprime la relazione con l'inconscio, ha ulteriormente mostrato e chiarito come siamo presi quindi all'interno di una condizione paradossale: siamo 'esseri parlanti', o meglio 'parlati' dalle parole e da un linguaggio che ci precede, ci struttura e ci condiziona fin dalla nascita e a cui ci affidiamo totalmente ma, oggi ancor più di ieri, pure pienamente consapevoli della solo parziale possibilità delle parole di poter lambire la realtà delle cose e rubarne granelli in termini di conoscenza.
Per poter attingere alla parola in senso più pieno è allora necessario per ognuno lasciar emergere ed esprimere il proprio idioma, il proprio linguaggio più profondo, che attinge ai processi legati alla metafora, alla metonimia, alla sospensione della razionalità e del giudizio, andando oltre la dimensione meramente convenzionale con cui si può intendere il linguaggio, abbandonandosi quindi alla parola nella sua dimensione originaria, creativa e creatrice.
Poichè – come testimonia la malattia spirituale di Lord Chandos – nel cercare di comprendere la realtà con il solo linguaggio ci si può smarrire, e ciò accade quando le parole non incontrano più le cose.




Note
(1) Titolo pure di un celebratissimo libro del 1966 del filosofo francese Michel Foucault (1926-1984).
(2) La 'Cosa in sé' (Ding an sich) compare nella filosofia di I.Kant riprendendo ed articolando il concetto platonico di Noumeno, inteso come ciò che non può essere percepito nel mondo reale, ma a cui si può arrivare solo tramite il ragionamento. Da tale distinzione tra la 'cosa reale' (fuori dal pensiero) e la 'cosa pensata' (oggetto di pensiero) Kant farà derivare la sua critica alla metafisica come pretesa scienza della cosa in sé.
(3) Ferdinand De Saussure (1857-1913), linguista e semiologo svizzero, fondatore della linguistica moderna.
(4) Alfred Korzybski (1879-1950)filosofo e matematico polacco, noto per i suoi studi sulla General Semantics.
(5) “.. e il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio..”, dal Vangelo secondo Giovanni.
(6) Hugo von Hofmannsthal (1874-1929), scrittore austriaco della corrente simbolista, dedito soprattutto al teatro, scrisse questo breve racconto nel 1902.
(7) Jacques Derrida (1930-2004),filosofo francese fautore del decostruttivismo.