giovedì 11 marzo 2010

Edipo non abita più qui ?



Che le fondamenta della costruzione psicoanalitica siano state poste dalla osservazione e dallo studio clinico delle isteriche di fine '800 sembra un dato oggi riconosciuto. Che il perno su cui ruota tutta l'edificio freudiano sia l'Oedipuscomplex, il complesso di Edipo, e quindi la focalizzazione dell'intero processo sulle conseguenti dinamiche transferali tra paziente e terapeuta, questo sembra meno evidente man mano che la psicoanalisi ha allargato da un secolo a questa parte il suo orizzonte applicativo ed esplicativo a psicopatologie e categorie diagnostiche più gravi connotate da disturbi 'strutturali' della personalità e profondamente radicati nella primissima relazione (anche intrauterina) con l'oggetto materno.
Sappiamo tutti oggi, nell'era informatica che colma e livella le conoscenze, cos’è il complesso di Edipo che Freud, sulla base delle sue osservazioni cliniche, individuò quale naturale tendenza del bambino a sviluppare dei sentimenti libidici e di possesso verso la madre e di rivalità verso il padre, riprendendo ed adattando un racconto mitico della antica Grecia narrato da Eschilo prima, da Euripide e Sofocle poi (le due versioni oggi conosciute sono appunto quelle sofoclee, l'Edipo Re e l'Edipo a Colono). Ma solitamente la nostra erudizione si ferma a queste scarne notizie e manca di approfondire quegli aspetti del mito che risultano invece centrali per comprenderne l'importanza che ebbe agli occhi di Freud, sì da farsi strumento stesso della metafora analitica nel suo complesso e di rappresentare l'esempio letterario perfetto dell'intreccio di passioni e sentimenti che risiedono fantasmaticamente nel triangolo madre-padre-bambino, nucleo originario e indiscusso della teoresi freudiana.
Ma andiamo con ordine e facciamoci riacciuffare dal mito, preceduto magari dall'etimo; 'Edipo' sta in greco letteralmente per 'piede gonfio', il che ci orienta per una congettura apparentemente poco lusinghiera del calibro del personaggio, una pars pro toto che potrebbe fuorviarci in bislacche considerazioni secondarie se non ci si chiedesse a cosa sia dovuto questo particolare nomignolo. Ed è infatti presto svelato nella tragedia sofoclea che esso deriva da un brutale accadimento che ha inciso fin nella carne l'Edipo-bambino: il suo essere stato abbandonato appena nato dal proprio padre, il re Laio, che in tal modo volle punire la moglie Giocasta per averlo ingannato e aver voluto avere da lui un figlio nonostante il divieto degli Dei (una profezia lo metteva in guardia dall'avere un figlio, poiché altrimenti sarebbe stato ucciso da lui). Quindi Laio fora i talloni del bimbetto con un chiodo (da qui il 'piede gonfio') e lo affida ad un pastore affinchè lo esponga, appeso, sul monte Citerone finché morte sopraggiunga. Ma il pastore mosso a pietà lo salva da morte certa e sarà così che il piccolo Edipo giungerà alla corte di un altro re, Polibo, che lo adotta e ne segue la crescita come un figlio. Ed egli cresce infatti nella convinzione di esserne il figlio fin quando una nuova profezia dell'oracolo delfico gli rivela che un giorno non lontano ucciderà il padre e possiederà carnalmente la madre. Edipo sconvolto fugge dalla corte di Polibo per evitare il realizzarsi del sinistro presagio, ovviamente credendo di salvare così i suoi genitori adottivi e sé stesso dalla catastrofe imminente, ma lungo la strada per Tebe si scontra con uno sconosciuto che non vuole cedergli il passo e che lo investe col suo carro (ancora ferendolo al piede!). Ne nasce una colluttazione in cui Edipo uccide lo sconosciuto arrogante, che si rivelerà però essere nient'altri che suo padre Laio. Il destino oracolare procede inesorabile, ma Edipo non lo sa e prosegue nella costruzione della sua sciagura; dopo essersi sottoposto alla prova della Sfinge tebana, superandone con acume la famosa domanda, prenderà infatti il trono di Laio e si congiungerà carnalmente con la regina Giocasta ritenendola sua sposa. L'omicidio è compiuto, e anche l'incesto. Quando in seguito il veggente cieco Tiresia gli rivela la verità egli sconvolto lo accusa di tramare contro il trono, lo definisce pazzo. Ma al di là della trama incalzante, perfetta nei suoi meccanismi narrativi e nei molteplici riferimenti di cui qui non possiamo che rilevarne una assai esigua traccia, ciò che si evidenzia nel racconto è soprattutto il modo in cui la verità si sottrae sistematicamente all'indagine serrata dello stesso Edipo, che fin dall'inizio della tragedia è alle prese con la necessità di smascherare l'assassino del re Laio di fronte alla corte e ai sudditi, chiaramente non supponendo che non si tratti altro che di sé stesso. E così, in un movimento oscillante tra passato e presente, il quadro tragico lentamente ma inesorabilmente si ricompone tassello dopo tassello e infine si chiude quando egli, non potendo più nascondere a sé stesso l'evidenza dei fatti, decide di accecarsi, rendendo così attraverso quel gesto concreto manifesta e irreversibile la sua colpa di 'cecità interiore', il non aver saputo vedere la realtà delle cose...
Appare forse più chiaro ora il motivo per cui Freud sia stato tanto affascinato dal mito edipico da farne la metafora principale del processo analitico, la narrazione prediletta che meglio potesse esprimere quella tendenza al 'conosci te stesso' insita nel 'messaggio' psicoanalitico. Il metodo analitico si è identificato fin dall'inizio con una modalità apollinea di lettura della realtà (i riferimenti ad Apollo ed ai suoi oracoli sono centrali nella tragedia edipica) e di ricerca della verità. Il divenire consapevoli, l'insight, la progressiva scoperta di sé e del proprio passato alla luce delle relazioni intrafamigliari, sono stati elementi fondanti della prassi analitica e ne hanno costituito per oltre un secolo il peculiare sfondo di riferimento interpretativo.
Ma lo scenario edipico (o anche la 'finzione' o 'invenzione' edipiche), sembra già da tempo risentire del peso degli anni che cambiano la realtà stessa della psicoanalisi, in un movimento in cui questa metafora sembra essere stata progressivamente spinta ai margini non solo della teoria (si pensi p.es. all' anti-Edipo di Deleuze e Guattari degli ultimi anni 'Settanta), ma anche della prassi terapeutica, fin al punto di trovare oggi spesso a fatica una sua collocazione netta e definita al suo interno. La trasformazione delle modalità di espressione del disagio psichico in forme sempre più attinenti a disturbi precoci di sviluppo e a patologie più gravi che non le cosiddette 'nevrosi' (ma esiste forse ancora il paziente 'nevrotico'?) hanno reso la metafora edipica più come un ipotetico punto di arrivo che non punto di partenza per l'indagine delle problematiche strutturali in senso psicopatologico. Scavalcando a ritroso il triangolo edipico e le sue relative angosce di colpa si è dunque aperta la smisurata estensione del 'pre-edipico' quale dimensione di ricerca e di intervento, con il conseguente inevitabile restringimento della centralità della esperienza edipica messa sempre più tra parentesi: una condizione 'virtuale', punto ideale di approdo dopo l'eventuale superamento di arcaiche angosce di annichilimento, re-inghiottimento, frammentazione, perdita di identità...
Così come, nel mito, l'accecarsi finale di Edipo suggerisce un allontanamento dalla netta, rasserenante e superiore visione apollinea del vero, della ricerca delle cause prime secondo logiche stringenti, della chiarezza interpretativa che risale alla enucleazione dei rapporti del triangolo incestuoso/amoroso madre-padre-figlio. Non è casuale forse che il 'sequel' - per usare un termine alla moda - sofocleo dell'Edipo Re sia quell'Edipo a Colono, che ritrae un Edipo cieco ed ormai vecchio e stanco, che accompagnato dalla figlia Antigone vaga esule per terre straniere fino ad approdare alle porte di Atene, a Colono appunto, dove trova ospitalità e potrà infine riabilitare se stesso riconoscendo che il ruolo primario di quanto è accaduto è quello degli Dei che hanno tramato il suo destino tragico. Ma questa è un'altra storia.