venerdì 2 dicembre 2011

Dimensione zero

Da bambini a scuola ci insegnavano che lo zero era un numero particolare, che aveva poco a che fare con gli altri numeri. Era zero il niente, l'assenza, la mancanza, il vuoto di qualsiasi entità e forma. Nonchè lo spauracchio di tutti gli alunni, quando si rischiava di prenderne quella particolare variante espressione dell'ignoranza suprema (il famigerato 'zero spaccato'). Poi però ci si accorgeva che, unito ad un altro numero, all'uno tanto per cominciare, esso diventava un moltiplicatore straordinario: una caramella con lo zero vicino diventavano 10, 2 addirittura 20, e così via fino a 100, 1000, etc.. La proliferazione degli zero portava in breve ad una vertigine del pensiero, che faceva fatica a stare dietro alla sempre più ardita costruzione matematica ed alla cascata di caramelle che ciò prometteva.
Pare siano stati gli arabi, per primi, ad introdurre in tutta l'area del Mediterraneo lo zero nel corso del XII secolo, dopo averlo rubato agli indiani (lo chiamarono sunya, termine che sta per 'niente' e che rappresentava l'assenza dei numeri) che a loro volta lo presero da chissà dove. Gli arabi lo ribattezzano 'sifr' - l'assonanza con 'cifra' non è affatto casuale - quindi con il matematico pisano Fibonacci (1170-1240) il 'sifr' diventa in latino lo zephirum (un nulla, come uno zefiro, appunto, un soffio di vento) e infine lo zevero nel dialetto veneto.. Già gli arabi intanto pongono attenzione soprattutto all'idea che lo zero ispira: la cifra del nulla. E da qui ad adattarla all'idea di infinito lo spazio è breve. In un primo momento, sembra che gli occidentali non sapessero che farsene dello zero, perchè abituati e rassicurati dalla sovranità dell'Uno fin dal tempo dei greci antichi, che non ne sospettarono mai l'esistenza. La teologia medioevale penserà poi a tenere a bada per qualche secolo ancora l'idea stessa di un Nulla insito nella creazione, presa com'è dalla preoccupazione (vero e proprio horror vacui) di scacciare dalla vista dei fedeli quel nulla informe in cui si anniderebbe il germe stesso del Male in quanto negazione della divinità.
Che c'entra – si starà chiedendo qualcuno – questa digressione sullo zero con un articolo che si vuole, almeno nelle intenzioni, di natura psicologica, addirittura psicoanalitica? C'entra, c'entra...Potremmo anzi affermare che la psicoanalisi stessa si fonda sullo zero, in quanto processo che si attiva quale momento zero, cioè iniziale della conoscenza di sé, o anche come azzeramento del presunto sapere su se stessi in un'opera di destrutturazione che mira a creare varchi e spazi di nuova pensabilità tra le maglie della ripetizione, dell'abitudine, della teoria (intesa quest'ultima come sistematizzazione del pensiero secondo una visione coerente e consequenziale dell'esperienza). Così come nella meditazione, nelle varie sue forme, è necessario raggiungere una condizione interna che trascenda il continuo 'brusio del mondo' e interrompa quindi quell' atteggiamento mentale che noi uomini moderni identifichiamo con il nostro Io, con i suoi pensieri ricorrenti, ricordi, desideri, etc.., parimenti nella seduta psicoanalitica la cosiddetta 'attenzione fluttuante' dei partners analitici è uno svuotamento della mente dai suoi contenuti per recuperare la dimensione del presente, del qui ed ora in cui si sviluppa la relazione con l'altro. Passato e futuro, nelle loro declinazioni in termini di ricordi e desideri, vengono così messi in secondo piano rispetto all'adesso, ma per realizzare questo passaggio occorre far emergere la 'dimensione zero' della mente, cioè poterne tollerare la mancanza temporanea di forma e di cornice, come il vuoto di contenuti e di riferimenti abituali.
W.R.Bion (1897-1979), psicoanalista inglese, ha detto parole importanti su questo tema così centrale per la pratica analitica: nessuna memoria nè desiderio – egli dice – devono intralciare l'attenzione sul presente, sul farsi della relazione, poiché l'unica cosa importante in ogni seduta è l’ignoto e dal buio e dall’informe evolve qualcosa. Così, mentre ci aspetteremmo che il lavoro terapeutico debba essere necessariamente fondato su un atteggiamento esclusivamente iper-razionale e 'scientifico' – nel senso della sua assoluta aderenza ai canoni classici della scienza, la cui immagine caricaturale potrebbe essere quella dell'investigatore in mantellina che con la lente indaga in cerca di tracce del delitto – scopriamo invece la necessità di un altro 'sguardo' intuitivo e immediato che,come in una visione bi-oculare, compensa e mette a fuoco il primo. Quest'ultimo è appunto uno sguardo che ha a che fare col vuoto e con l'assenza piuttosto che con le nitide costruzioni intellettuali, uno sguardo in tralice che tollera la mancanza di luce e le ombre e che anzi dimora sempre al confine tra l'incerto e il sospeso, che regge il confronto con la continua trasformazione dell'attimo presente e che pertanto 'non chiude' la realtà ingabbiandola in un concetto, in una parola, in un desiderio o un ricordo definiti, ma la lascia 'aperta' e libera di fluire e modificarsi ulteriormente, senza darle al momento quindi necessariamente una forma definita e conclusiva.
Se volessimo individuare una virtù assolutamente necessaria affinchè tutto ciò possa avvenire parleremmo di 'pazienza'; chi è sufficientemente paziente può lasciare che le cose intorno a sé rimangano in una indefinitezza e prendano corpo solo un po' alla volta. Si tratta dunque di tollerare l'indistinto e l'informe, o il non senso, ed attendere finchè la percezione mentale giunga a maturazione e ci permetta di vedere più limpidamente, e questo richiede un suo tempo. E' in sostanza quanto il poeta inglese romantico John Keats scriveva a proposito della 'capacità negativa' come della possibiltà di sostare nell'incertezza e nel dubbio astenendosi dal cercare nell'immediato ragioni e cause. Una tale capacità in negativo (perchè appunto non si deve fare alcunchè, ma 'solo' attendere fiduciosi) coincide con una sospensione temporanea del nostro bagaglio esperienziale (ricordi, schemi, concetti, desideri) così da azzerare il campo mentale da stimoli e oggetti che distraggono solitamente la nostra attenzione cosciente.
Ciò che si apre dinanzi alla mente allora è una terra ignota, una dimensione zero dell'esperienza in cui tutto ciò che accade è come se accadesse per la prima volta e la percezione non viene convogliata, come accade di solito, in schemi mentali prestabiliti e consolidati nel tempo, ma viene esplorata e vissuta in modo nuovo e perciò trasformativo, poiché possono emergere elementi e particolari che altrimenti non avremmo mai potuto scorgere con il nostro solito modo di vedere. In questa apertura al momento presente quale porta di accesso all'eterno fluire temporale la psicoanalisi si scopre 'mistica', e produce quelle stesse esperienze che alimentano la creazione artistica e il discorso poetico, fino alla esperienza del sacro ed alla fede.
Chi avrebbe mai detto che in uno zero potesse starci dentro tutto questo?

mercoledì 21 settembre 2011

Dei sintomi e delle rose


Scriveva Gertrude Stein, in una frase rimasta come un epitaffio della sua concezione della scrittura letteraria, che “Una rosa è una rosa è una rosa...”, per ribadire come l'essenza di un'immagine si esprima attraverso la parola senza bisogno di ulteriori specificazioni, significazioni e rimandi simbolici, avendo già tutto in sè. La ripetizione del termine, e la ripetitività della frase, impongono al lettore la sua apparente nuda superficie di realtà: una rosa è una rosa e non altro, nient'altro che/da sé stessa, e tutte le sue eventuali significazioni ulteriori sono già contenute e latenti nella sua semplice immagine.
Da qui il 'monito' della Stein che lo scrittore dovrebbe esprimere nella sua opera nient'altro che la nuda realtà delle cose, evitando di appesantire e complicare con corto-circuiti semantici e culturali ciò che può essere comunicato a parole con una semplice immagine. La parabola steiniana può esserci utile per introdurre un concetto per certi versi analogo, ma di stretta pertinenza psicologica oltre che medica, quale quello di 'sintomo', che segnala innanzitutto il verificarsi di un cambiamento interno (fisico o psichico) e quindi rappresenta il primum movens di ogni discorso medicale-terapeutico. Intanto, la parola 'sintomo' deriva dal greco symptoma che si traduce alternativamente con 'evenienza', 'circostanza ' oppure 'cadere con, cadere assieme'.
L'accento è posto cioè sul fatto che il sintomo sia la risultante di un determinato processo di alterazione della normale sensazione di sé e del proprio corpo relativo ad uno stato patologico sottostante, quindi conseguenza di un complesso di fattori che trovano -attraverso il sintomo appunto – una loro peculiare espressione. Il sintomo, inoltre, è linguaggio proprio del paziente; il medico parla invece in termini di 'segni', qualora oggettivi i sintomi riferiti dal primo in un quadro patologico conosciuto.
Detto questo, possiamo tornare alla famosa frase. E se sostituissimo alla 'rosa' il 'sintomo'..? Avremmo allora che: “Un sintomo è un sintomo è un sintomo..”. Intanto, notiamo come la ripetizione del termine qui si adatti benissimo al carattere stesso del sintomo, sia esso fisico che psichico, quale manifestazione patologica di un qualche disfunzionamento relativo a tali entità. Chiuso in sè, irrazionale, enigmatico, il suo è un ripetersi cieco,sordo e muto , almeno finchè ad esso non venga donata la facoltà di traduzione 'in qualcosa dotato di un senso', di una logica, e gli venga riconosciuta una sua propria 'necessità intrinseca'... Perchè ogni sintomo ha un suo proprio senso, che è quello di una alterazione – sensibile, visibile, cioè interiormente ed esteriormente palese ad un qualche livello – di un supposto precedente stato di equilibrio, identificabile con una presunta 'normalità' dell'essere...
In questo senso, dunque, il sintomo incarna (alla lettera!) ed esprime quella parte della nostra soggettività che non possiamo definire propriamente nostra, ma semmai in qualche misura compartecipata con l'alterità costitutiva del nostro essere umani.
Il sintomo, come l'estraneo o lo straniero per un qualsiasi gruppo sociale autoctono, è considerato come l'intruso che mina un equilibrio interno, che rivendica a sé un'attenzione particolare e pone sotto una nuova luce il rapporto tra sé e sé, aprendovi una fessura – una parte malata e una parte sana – che rischia di divaricarsi oltremisura se non si ricorre al più presto all'intervento medico, che con perizia ricorrerà alla tecnica per estirparne la (supposta) 'causa'. Il sintomo è dunque – in questa visione cara alla medicina accademica e tradizionale – segnale di squilibrio e quindi errore da rimuovere, dopo averlo etichettato col nome di una specifica malattia e messo infine sotto naftalina! L'aver considerato alla stessa stregua il sintomo psichico e quello organico ha permesso ad una certa impostazione medicalistica in campo psicologico di perpetrare per il primo una concezione sostanzialmente repressiva ed escludente, come fosse appunto nient'altro che un'alterazione da rimuovere in fretta dello stato di 'normalità' psicofisica.
Un merito indubbio della psicoanalisi è invece di aver prodotto una svolta nel modo di considerare il sintomo e nell'approccio ad esso, che si caratterizza per l'attenzione al suo valore conoscitivo e alla sua intrinseca funzione comunicativa rispetto a tutte le alterità costitutive del Sè individuale. La terapia analitica mantiene 'aperto' il sintomo invece di rinchiuderlo anzitempo sotto l'etichetta di 'malattia', poiché presume che tale apertura consenta di dare finalmente voce a quelle parti di sé sofferenti cui non è stata mai data una adeguata possibilità di parola. L'assunzione dello status di malattia inoltre livella, uniforma, rende uguali e omologate tutte le possibili differenze individuali, che il sintomo tende invece a esprimere in modo unico e peculiare: con la malattia il soggetto perde cioè la sua propria cifra esistenziale, unica e irripetibile, per diventare una mera cifra 'statistica' nel campionario della patologia: un depresso, un nevrotico-ossessivo, uno psicotico... Au contraire, ogni sintomo rappresenta la possibilità di una nuova apertura di senso rispetto a sé stessi e non solo un campanello d'allarme da zittire in qualche modo; se saremo in grado di vedere in esso un potenziale conoscitivo ulteriore su noi stessi rispetto ai limiti del nostro vecchio orizzonte esistenziale, saremo allora anche in grado di vedere una rosa nei termini di una compiuta perfezione, di scorgervi il visibile e l'invisibile, come se tra l'immagine e la parola non vi fossero più barriere: “Una rosa è una rosa è una rosa...”

lunedì 20 giugno 2011

Panta rei


Idealmente, una qualunque seduta di psicoterapia è un momento di un percorso, un fotogramma di un lungometraggio, una frase musicale di una composizione strutturalmente complessa e articolata. Praticamente, il susseguirsi di una seduta all'altra produce un effetto storiografico, per cui il vissuto di una persona viene a determinarsi in senso longitudinale, diacronico, secondo una logica stringente di causa-effetto che ne riempie i vuoti, le dimenticanze e le omissioni; una narrazione piana, lineare, comprensibile, viene progressivamente a saturare la dimensione della ricerca soggettiva di senso, consentendo la messa a fuoco di aspetti-parti-tempi-luoghi di/del sé, che in tal modo possono essere riconosciuti, ordinati, finanche catalogati, dandoci l'impressione di una operazione demiurgica di costruzione di un Kosmos laddove c'era solo il Caos primigenio.
Tecnicamente, in senso diremmo 'psychoanalytically correct', ogni seduta d'altro canto è (o dovrebbe essere) una trascrizione sui registri pulsionale e affettivo di una variegata mole di dati inerenti il vissuto soggettivo dell'analizzando, così come il susseguirsi delle vicissitudini di rapporto con figure parentali interiorizzate rivissute nel transfert, oppure – in un'ottica junghiana-archetipale – l'individuazione di costellazioni archetipiche attive e predominanti in un dato momento evolutivo. E via discorrendo...Ma, al di là delle diverse angolazioni da cui si osservano le cose, soprattutto ogni seduta è qualcosa di unico, di irripetibile, dove una particolare confluenza di eventi, dentro e fuori di noi, caratterizza in modo peculiare l'atmosfera del momento. L'incontro-scontro di due sistemi umani altamente differenziati, ognuno con le proprie contingenze e vicissitudini esistenziali dell'hic et nunc, quali sono i partners analitici (ma così come qualsiasi altro dispositivo di relazione tra due o più persone che non si limiti ad una solo superficiale conoscenza reciproca), produce risultati solo in parte prevedibili, aprendo invece il campo a molteplici livelli di interazione, identificazione, coinvolgimento, di cui il famigerato 'transfert' a stento riesce a suggerirne le abissali profondità e ancora meno una loro realistica estensione.
Non vi sono mai, quindi, due sedute simili. E se così fosse – se la nostra percezione presumesse di trovarsi nella stessa condizione rispetto ad una precedente seduta – saremmo legittimati nel ritenere che, contrariamente all'affermazione di Eraclito, sia possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume (1)...
Se rimaniamo infatti all'interno della metafora 'fluviale', ci è facile osservare come il rituale statico e immutabile delle sedute (stesso luogo, stessa ora, stesso giorno della settimana..) introduca in realtà ad un oltrepassamento, al superamento di una soglia, all'accesso in uno spazio-tempo che, pur caratterizzato da coordinate ben riconoscibili nell'al-di-quà del quotidiano, allude ad una alterità di sostanza di cui solo i confini e l'involucro esterno rimangono conosciuti, anzi usuali nel loro monotono ripetersi, mentre 'all'interno' riposa il mistero (ciò che 'accade' tra terapeuta e paziente, o meglio, tra i loro due 'inconsci' in reciproca comunicazione).
Singolare paradosso: lo 'spazio-tempo' della seduta, quei cinquanta-e-passa minuti che intercorrono tra l'ingresso del paziente e la sua uscita dalla stanza di analisi, rappresentano un 'momento di eternità' incastonato a forza tra le ore x e y di un qualsiasi giorno della settimana: coordinate che individuano quello spazio 'sacro' ( non ce ne vogliano i religiosi di ogni fede per l'utilizzo solo apparentemente improprio di tale termine!) dove vengono sospese le logiche identitarie del quotidiano, dove passato e presente tornano a mescolarsi in nuove, spesso inusitate geometrie. Luogo creativo per eccellenza, l'ora di seduta concentra e amplifica le dissonanze del vivere per tendere verso una faticosa, ritrovata armonia, una ostinata volontà di ricomposizione degli strappi e dei buchi sul tessuto dell'esistenza.
Ma è soprattutto la possibilità di condividere il proprio dolore e i propri affanni, così come la speranza di una catarsi benigna che la presenza dell'altro dovrebbe garantire 'per contratto' (ma bisognerebbe prima o poi mettersi tutti d'accordo su cosa vuol dire 'guarire' in senso psicologico più profondo, al di là della ricerca del benessere ad ogni costo..), che nei fatti spingono i più ad un trattamento psicoterapeutico e i meno ad una psicoanalisi classica. La sovra-dimensione ulteriore e potenzialmente generativa del rapporto terapeutico rimane un discorso ai margini del processo, a latere, e in fieri, e mantiene tale statuto solitamente per l'intera durata del rapporto, salvo forse l'emergere in particolari momenti di particolare limpidezza del senso soggettivo di essere-con-l'altro o di reciproca ispirazione dei partners.
Ciò che accade in una seduta accade dunque sempre per la prima volta, per quanto le forme esteriori possano sembrare già viste, i discorsi dell'altro già uditi, le conclusioni già scontate. L'essenza misterica o sacrale dell'incontro risiede in quel senso di fiduciosa intimità e vicinanza emotiva all'altro (in realtà un 'perfetto estraneo', ma in virtù di ciò tanto più preziosa è la sua funzione terapeutica che consente di approcciare la propria, intima estraneità), che scorre anch'esso e si rafforza attraverso le sedute, nelle settimane, nei mesi, negli anni.
E se dunque 'tutto scorre', così scorrono – e in modo irrecuperabile – i minuti della seduta verso la loro conclusione. In ogni fine-seduta si mette in scena la tragedia della perdita e si allude al potere senza limiti della morte; tutto finisce, sembra ribadire ogni volta la fine dell'ora analitica al sempre impreparato paziente, che scuotendosi un poco sulla poltrona si prepara a riconquistare non senza fatica le dimensioni più note e consolidate del suo Sè. Ma anche in questo ripetuto commiato può sopravvivere nel tempo una possibilità: che qualcosa rimanga, vivo e presente, in fondo all'anima solitaria, e che continui a fare domande e a richiedere risposte.


(1) Com'è noto, Cratilo, suo discepolo, inflazionerà il concetto giungendo ad affermare che non solo non ci si può immergere due volte nello stesso fiume, ma neanche una singola volta 'poiché l'acqua che bagna la punta del piede non sarà quella che bagna il tallone'. Pur essendo tale conclusione logicamente irreprensibile, è nota la passione dei filosofi greci per il paradosso, per cui - per sostenere la tesi eraclitea che qui ci interessa - ammettiamo che, se non due, almeno una volta ci sia concesso bagnarci nello stesso fiume.

venerdì 29 aprile 2011

Che cos'è la verità?


Bisogna che si sia in due per scoprire la verità:
che vi sia uno che la esprima e un altro che la comprenda.


Kahlil Gibran


"..Ciò vuol semplicemente dire tutto quel che c'è da dire della verità, la sola, e cioè che non c'è metalinguaggio[..], che nessun linguaggio saprebbe dire il vero sul vero, perchè la verità si fonda sul fatto che parla, e non ha altro modo per farlo."

J.Lacan, Scritti, La scienza e la verità.



Se dovessimo individuare, in psicologia, l'equivalente dell'atomo per la fisica, cioè 'il mattone' su cui l'intero complesso scientifico poggia e si articola nelle sue poderose costruzioni, potremmo riferirci alle 'rappresentazioni psichiche', cioè a quel complesso di immagini mentali che fin dalla nascita vanno costruendosi nella psiche di ciascuno di noi, integrandosi con sensazioni corporee, stati affettivi ed emozioni per produrre esperienze soggettive ed uniche, in grado di determinare disposizioni e inclinazioni di quella che poi sarà una personalità individuale.
L'essere umano infatti, fin dall'inizio, 'rappresenta' il suo vissuto e il mondo intorno a sé facendo convergere una mole immensa di dati e filtrandoli attraverso le diverse attività cognitive in fieri (attenzione, concentrazione, memoria, aspetti decisionali, etc..), che così iniziano a operare e a specializzarsi sempre di più. Le rappresentazioni (di sé, degli altri, del mondo) costituiscono così quelle strutture mentali primarie che consentono al bambino di sperimentare ed interpretare le stimolazioni provenienti dall'interno e dall'esterno attribuendo ad esse un significato ed una gerarchia di valori in base alla loro progressiva differenziazione.
Ma soprattutto, le rappresentazioni sono quelle strutture mentali che, una volta consolidate, consentono di operare sulla realtà in modo anticipato o posticipato, cioè sulla base di presupposti, previsioni e riflessioni che si attuano anche in assenza dello stimolo iniziale che le ha prodotte. La stessa fondamentale capacità di simbolizzazione (il fatto che il bambino possa pensare, giocare e parlare, per intenderci, cioè giungere a mettere in atto i comportamenti tipici del genere umano) dipende dalla possibilità di creare un sistema fluido di rappresentazioni in interazione reciproca con un grado sempre maggiore di adattamento alla realtà.
Con l'acquisizione del linguaggio, quindi, le rappresentazioni psichiche originarie subiscono un'ulteriore e decisiva trasformazione, divenendo più ricche e complesse, consentendo di allargare il loro ambito di riferimento e gli elementi correlati. Si formano pensieri, concetti, teorie, tutta quella sovrastruttura cognitiva che consente all'individuo di relazionarsi coi suoi simili sulla base di un codice condiviso di segni e significati.
Ma la parola, in quanto de-finizione, è portatrice di quella istanza del limite che tende a circoscrivere in un frammento isolato (il 'corpo' della parola, il suo suono, in quanto residui materiali che suggeriscono la sua finitezza) il potenzialmente 'oltre' della rappresentazione, che è invece praticamente infinita poiché agglutina intorno a sé una moltitudine di elementi spazialmente e temporalmente eterogenei.
Ciò che accade con la parola dunque è una operazione duplice, espansiva ma anche riduttiva; necessaria affinchè l'esperienza individuale possa essere condivisa con sé stessi e con gli altri, ma altresì limitante (o imprigionante, o.. 'castrante', per rimanere in ambito psicoanalitico!) rispetto alla 'potenza evocativa' della rappresentazione originaria. Potremmo quindi chiederci 'quanto rimanga tagliato fuori' dalla nostra coscienza dal momento in cui diveniamo soggetti parlanti, quanta mole di rappresentazioni cioè che, non potendo essere tradotte dal linguaggio, confluiscono in quella zona della mente che comunemente chiamiamo 'inconscio'.
Poichè la psicoanalisi insegna che non c'è altra possibilità di conoscere e di conoscersi se non attraverso la parola, quindi che la possibilità di raggiungere una qualsiasi 'verità' su noi stessi o sul mondo sia sottoposta ad un progressivo processo di consapevolezza di sé che opera in base allo strumento linguistico, dovremmo chiederci quale sia in fondo lo statuto di questa verità.
Potremmo dire infatti, col semiologo ed il linguista, che 'la verità è (soltanto) ciò che le parole ci consentono di esprimere a proposito di essa', quindi una verità 'parlata' o 'narrata', o tuttalpiù - e questo aspetto interessa invece in particolare lo psicoterapeuta – in quanto 'parlabile', o 'narrabile' (relativamente cioè alla possibilità o meno di operare una trasmutazione delle rappresentazioni inconsce e 'mute' in parole e concetti).
Ciò conduce ad una inevitabile divaricazione tra concetti quali verità 'storica' (ciò che è accaduto) e verità 'narrata' (ciò che si suppone sia accaduto, il racconto soggettivo, 'di parte', di quel fatto), per cui diremmo che siamo sempre di fronte a molte possibili verità, tante quanti sono i diversi punti di vista, quindi 'rappresentazioni', del mondo.
Ciò è particolarmente evidente nella stanza di analisi, dove la ricerca della verità storica ha lasciato il posto ad una molteplicità di prospettive possibili; il passato non è dato una volta per tutte, non è un corpo devitalizzato da osservare al microscopio, ma un processo vitale, che cresce con noi e trova sempre nuove significazioni al passo con le nostre stesse trasformazioni e cambiamenti evolutivi. E' il presente, dunque, che si lega al passato in configurazioni sempre nuove e che consente una continua ri-soggettivazione, un continuo ri-narrare in maniera diversa e potenzialmente creativa il proprio percorso esistenziale, movimento ritmico, pulsante e vitale, come quello delle maree, che tra alti e bassi si ripetono senza posa.

lunedì 28 marzo 2011

La via del dubbio



"Che non men che saper dubbiar m'aggrada." 
(Dante, Divina Commedia, Inferno, XI, 93) 


 “Il dubbio è l'origine della saggezza”
(René Descartes, Meditationes de prima philosophia)


Il primo fu Cartesio (lui, proprio quello del 'cogito ergo sum'). Il suo 'dubbio metodologico' rappresentò uno spartiacque nella filosofia del XVII° secolo, inaugurando il sistema concettuale di riferimento per la ricerca scientifica propriamente detta, quella – per intenderci – basata sui famosi tentativi ed errori (od 'orrori', in alcuni casi...ma si sa, la ricerca della Verità, come quella del Sacro Graal, non ammette debolezze o stomaci delicati).
In realtà, già quegli antichi greci che la storia ci ricorda come 'scettici', avevano abbracciato una posizione filosofica – appunto – 'scettica' un po' su tutto. Tanto per dire, essi si chiedevano cose del tipo: “posso realmente conoscere qualcosa per come essa è veramente?” - oppure - “le mie percezioni e sensazioni rispetto alle cose del mondo sono ad esse realmente corrispondenti ed adeguate o magari dipendono da fattori soggettivi che tradiscono le qualità proprie di quelle stesse cose?”. Alla fine, però, le loro risposte erano immancabilmente negative.
In altri termini, gli scettici erano tali rispetto alla possibilità stessa di avere una conoscenza veritiera della realtà e del mondo e il loro dubbio (filosofico) si estendeva non solo allo statuto delle cose ma finanche alla capacità dell'uomo di poter conoscere veramente qualcosa nella sua interezza.
Ma, tornando a noi, cioè a Cartesio, il suo dubbio (metodologico) differisce da quello degli scettici, perchè esso presuppone che invece una possibilità di conoscenza reale delle cose vi sia, che quindi il dubbio sia soltanto lo strumento che consente di superare l'ignoranza (nel senso, ovviamente, di ignorare..), e per mezzo della prova dei fatti di giungere infine alla verità indubitabile. Qui il dubbio, appunto, si fa metodo, pratica fondata sul fondata sulla verifica del contenuto delle affermazioni: siamo cioè alla esposizione filosofica di quel metodo scientifico che già Bacone e Galileo vanno diffondendo in quegli stessi anni.
Ora, tralasciando se vi sia un'una ed unica verità indubitabile (o piuttosto molte e diverse a seconda dei differenti punti di vista), il 'metodo' cartesiano basato sul dubbio aprioristico è utile anche nella stanza di analisi poiché inquadra la relazione terapeuta-paziente in una cornice di senso basata essenzialmente su 'fatti', che possono essere verificati e quindi considerati con una certa approssimazione concreti e reali (che poi siano anche 'veri', e quale sia lo statuto concettuale di tale verità, questo lo lasciamo alla disquisizione filosofica).
Contrariamente a quanto molti potrebbero pensare (detrattori e non dell'analisi, come anche della psicoterapia in genere), infatti, la psicoanalisi non consiste nell'andare a parlare semplicemente di 'problemi' propri (per usare un eufemismo!) con qualcuno, o a ribadire come il tal sintomo x ci rubi la pienezza del vivere, o a 'sfogarsi' rispetto a sentimenti compressi da una vita che non si riescono a evacuare altrimenti, o ancora a raccontare fantasie e sogni come un elenco delle stranezze che ci tocca subire da parte della nostra inaffidabile immaginazione. Questi elementi, pur sempre presenti in varia misura in terapia, rappresentano in realtà solo lo sfondo o il contesto relazionale di superficie entro cui si dinamicizza un processo ben più centrale e più propriamente terapeutico in quanto attivatore di modalità transferali tra passato e presente che possono essere osservate in seduta in tutta la loro vasta gamma ed estensione.
Ma, soprattutto, il paziente in analisi impara a dubitare, in modo potremmo dire sano e costruttivo, delle proprie idee e dei propri schemi di pensiero, finanche delle proprie sensazioni e percezioni che sorreggono il sistema centrato sul sintomo e le difese cristallizzate intorno ad esso, per consentire una apertura di senso che metta in discussione, o in crisi se vogliamo, la 'teoria' costruita da una vita intera e una certa visione del mondo, tutti quegli assunti, credenze e postulati di pseudo-verità che a volte ci ostiniamo a difendere nonostante i segnali provenienti da dentro e fuori di noi ci suggeriscano di cambiare poiché si avverte che si è giunti ad un punto di stallo del proprio percorso esistenziale. In tal senso il dubbio è un catalizzatore di cambiamenti a largo raggio, poiché consente per esempio di fluidificare quegli ingranaggi psicologici da troppo tempo cristallizzati attorno a figure, ruoli, doveri che non ci appartengono più ma che probabilmente continuiamo a mettere in scena quotidie per timore di non essere riconosciuti e accettati o di non riconoscerci noi stessi.
E se il primo dubbio il paziente lo sperimenta inizialmente rispetto ad una delle tante pseudo-verità del proprio mondo interno, cui poi nel procedere del percorso se ne aggiungeranno man mano altre, l'ultimo dubbio è rivolto al terapeuta, sul quale si sono concentrate nel tempo tutte le sue aspettative e proiezioni e bisogni transferali, che lo hanno fatto apparire onnipotente e onnisciente, il lacaniano 'soggetto supposto sapere' cui è destinata la domanda iniziale di qualsiasi psicoterapia (per cui egli dovrebbe sapere del paziente e del suo sintomo ciò che il paziente stesso non sa, quindi -miracolosamente- 'guarirlo'...).
La vera cura della terapia è dunque contenuta nell'azione del seguente paradosso. Che il paziente viene inizialmente in seduta per acquisire maggiori sicurezze e certezze rispetto alla sua vecchia 'teoria' preferita, cioè a come dovrebbe essere la sua vita, quindi a 'fortificarsi' rispetto alle paure antiche, alla sfiducia di sé, al timore degli altri, cercando di ricostruire con l'aiuto del terapeuta (il 'supposto sapere'... come si faccia!) un mitico, precedente stato di potenza e benessere ormai perduti o mai raggiunti (per effetto del 'sintomo'), quindi con il solito meccanismo di delega che tende a riproporre lo schema infantile bambino-adulto del dammi, fammi, insegnami, etc... Mentre si rende ben presto conto che tutto il percorso terapeutico passa invece attraverso il dubbio, metodologico, sistematico, su se stessi, su chi si è e chi si vuole essere, su ciò che si dice e ciò che si pensa, su quello scarto tra sé e sé che le nostre vecchie teorie preferite (siamo dei 'teorici' fin dall'infanzia!) tendono ad occultare e rimuovere in modo altrettanto sistematico e metodologico. In tal modo l'esercizio del dubbio può stimolare un pensiero nuovo, un cambiamento del sé, piuttosto che le stanche ripetizioni a memoria su quanto crediamo di sapere su noi stessi e sugli altri.
Per questo, con Cartesio, potremo dire che il dubbio, e non la certezza dogmatica o una qualche verità rivelata, è l'origine della saggezza e, spingendoci oltre, arrivare ad affermare, tra il serio e il faceto: “Dubito, ergo sum”.

giovedì 24 febbraio 2011

Nel nome del Padre




“Ma il racconto di questo eterno modo
non si può fare a orecchi in carne e sangue.
Dunque ascoltami attento, Amleto. Ascolta!
Se mai tu amasti il tuo diletto padre...”

da Amleto di W.Shakespeare (Atto I, scena V)


“..Oh, uccidere un padre simile...Ma non è neppure possibile pensarlo!
Signori giurati, che cos'è un padre, un vero padre?”

da I fratelli Karamazov di F.Dostoevskij



“Padre nostro che sei nei cieli [...] sia fatta la tua volontà...” Fin da bambini, l'esortazione della preghiera cristiana per eccellenza ci ha posti al cospetto di un padre celeste e di un avvenimento di là da venire, di una storia da compiersi nel tempo, di una realizzazione su questa terra profana di un progetto divino in nome di una implicita autorità dello Spirito sulla Materia. Attesa e fede nell'evento hanno strutturato quindi l'esistenza degli uomini in un orizzonte di senso costruito sulla 'verticalità' della gerarchia Dio-Patria-Popolo, parallela a quella 'terrena' rappresentata dalla triade padre-madre-figlio.
Oggi, nell'era di Internet e della globalizzazione, viviamo in un mondo in cui la dimensione 'orizzontale' ha avuto il sopravvento su quella 'verticale', in cui lo spazio e le distanze annullano il tempo, quest'ultimo ridotto a semplice accumulazione di istanti successivi cui difetta anche solo 'un' senso definito, oltre quello relativo ad una fideistica attesa. Tutto è nell'immediato, tutto esiste nel momento stesso in cui il pensiero si attualizza, per perdere di significato appena un istante dopo, travolto dalle successive scansioni di fotogrammi esistenziali scaricati, senza soluzione di continuità, sulle nostre coscienze. Basterebbe per esempio pensare un attimo a cosa ne è delle notizie delle infinite morti che assorbiamo dai nostri televisori in modo totalmente acritico e ormai assuefatto alle esigenze del timing multimediale, tra lo spot di un deodorante per ascelle e l'espressione atona dello speaker. Ma ciò vorrebbe dire fermarsi a riflettere, e cioè interrompere quella sequela di notizie cantilenate che, nonostante tutto, ci rassicura almeno nella forma come una gradevole ninna -nanna. Oppure pensare ad un altro simbolo della 'orizzontalità' della nostra epoca: la progressiva estensione dei rifiuti urbani, la sterminata accumulazione di pattume che minaccia sempre più le nostre città in un assedio velenoso e asfissiante. L'oggettificazione 'selvaggia' delle nostre vite produce infatti una cronica indigestione di tutti quei prodotti 'usa e getta' che non sappiamo adeguatamente trasformare e riciclare in modo virtuoso, andando così ad occupare porzioni di mondo sempre più estese, in superficie come in profondità, fin dentro nella terra...
Ma lasciamo (apparentemente) questi scenari di sociologia post-atomica e restringiamo il campo sull'individuale e sul famigliare: l'idea stessa di una 'progettualità' insita nella propria esistenza deve fare i conti oggi con le inquietanti incertezze della vita moderna: adolescenze iper-protratte, mancanza di orizzonti rispetto al lavoro, concezione consumistica dell'esistenza (con Z.Baumann, parafrasando Cartesio diremmo: 'Consumo, dunque esisto'), crisi dell' identità soggettiva e crisi della famiglia e dei ruoli genitoriali...
Ce n'è abbastanza, anzi anche troppo, per non rendersi conto nel frattempo della scomparsa di una categoria, quella dei padri, che già nei decenni precedenti era stata oggetto di un'accorata quanto disperata attenzione della cultura in genere, in verità a partire dalla nascita stessa della psicoanalisi, che com'è noto è sorta sulla 'scoperta-invenzione' del famigerato complesso di Edipo.
Che la figura paterna abbia avuto un ruolo predominante nella vita dello stesso Freud è cosa nota, come anche il fatto che la ricerca analitica su se stesso sia iniziata subito dopo la morte del padre (avvenuta nel 1896: tre anni dopo Freud avrebbe avrebbe dato alle stampe L'interpretazione dei sogni, in cui larga parte è dedicata all'analisi di sogni relativi al rapporto con la figura paterna).
Ma questo episodio non è stato probabilmente che un'ulteriore spinta sull'urgenza dello Zeitgeist, dello spirito dei tempi, che erano allora evidentemente maturi affinchè certi aspetti e problematiche della dinamica dei rapporti umani fossero posti in luce e fatti oggetto di studio analitico. Come ci ricorda R. Girard, infatti, il Freud psicoanalista nasce insieme ai Fratelli Karamazov, l'opera dostoevskijana che più di ogni altra mette a nudo tali alterazioni intervenute nella modernità nel rapporto tra padri e figli. E Freud stesso scriverà un penetrante saggio sullo scrittore russo (in Dostoevskij e il parricidio, 1927), ricollegandosi alla evidente tematica edipica di altre opere celebri: “Non è certo un caso che tre capolavori della letteratura di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il parricidio: alludiamo all’Edipo Re di Sofocle, all’Amleto di Shakespeare e ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. In tutte e tre le opere è messo a nudo anche il motivo del misfatto: la rivalità sessuale per il possesso della donna.”
Se tuttavia la declinazione freudiana insiste sul triangolo edipico in quanto fenomeno universale secondo lo schema classico del desiderio sessuale per la madre e della rivalità verso il padre (e quindi della angoscia di castrazione come secondaria alla colpa per il desiderio 'proibito'), è solo con Lacan che la figura paterna viene investita di tutto il suo intrinseco spessore simbolico, al punto di identificare l'Edipo come la metafora paterna per eccellenza. In particolare, le tendenze infantili che Freud vede all'opera in quanto espressione della naturale spinta evolutiva della vita psichica - l' attaccamento alla madre e l'ambivalenza verso il padre – rappresentano nell'economia freudiana due forze complementari ma in certa misura autonome e ben distinte: l'una avente come base la madre in quanto oggetto anaclitico, d'appoggio, l'altra presentando come elemento propulsivo il padre in quanto modello-rivale (che quindi sollecita nel bambino i processi di identificazione con la figura maschile).
Riprendendo una nota tesi di Lacan in proposito, in Les Complexes familiaux dans la formation de l'individu (1938), viene sottolineato come nella nostra società sia intervenuta una vera e propria degradazione del fenomeno edipico e che sia stata in realtà proprio questa alterazione strutturale del complesso a favorirne oltre cento anni fa la scoperta: “Forse è a questa crisi – scrive Lacan - che bisogna ricondurre l'apparizione della psicoanalisi stessa. Non è forse solo per un caso fortuito e sublime che proprio a Vienna - allora centro di uno Stato che era il melting pot delle più diverse forme familiari, dalle più arcaiche alle più evolute - un rampollo del patriarcato ebraico è riuscito a immaginare il complesso di Edipo..”.
Ma qual'è questa degradazione cui sarebbe stato soggetto nell'ultimo secolo e mezzo l'Oedipuscomplex, tale da rendere necessaria la sua cura attraverso la psicoanalisi? Come ribadisce Lacan, l'emersione della nevrosi nella sue forme attuali andrebbe collegata ad una certa alterazione strutturale della famiglia e al declino del patriarcato, con una conseguente carenza nella regolazione sessuale da parte dell'Ideale dell'Io.
Siamo dunque al punto: il declino del patriarcato, cioè della figura del padre tradizionalmente intesa come espressione di potere, autorità e baricentro della famiglia, e il conseguente offuscamento di una funzione paterna in termini di modello di identificazione, avrebbe determinato l'emergenza di una condizione di progressivo squilibrio nell'assetto famigliare sfociando nella patologizzazione delle relazioni tra i suoi membri. Ora, pur lasciandosi un debito margine critico rispetto alla semplice linearità della tesi lacaniana nella nostra epoca della complessità, abituata a una causalistica multidimensionale e plurideterminata, sembra ormai condiviso dalla opinione generale il fatto, peraltro storicamente evidente, per cui una progressiva esautorazione del riferimento paterno e una certa conseguente trasformazione dei rapporti all'interno della cellula famigliare abbiano sempre più influito sulle dinamiche interne della famiglia occidentale nell'ultimo secolo ponendone in luce numerosi aspetti problematici, che spesso oggi vediamo riflessi nelle manifestazioni più attuali del disagio psicologico soprattutto delle generazioni più giovani.
Ma, come fa Lacan, occorre vedere in modo più approfondito questa crisi della paternità e operare una distinzione preliminare a proposito della figura di padre. Ciò che qui è fondamentale è la funzione paterna, cioè il 'ruolo' più o meno adeguato svolto da quello specifico padre all'interno di un preciso e insostituibile spazio di significazione, e non la persona in quanto tale. Come sottolinea anche Joel Dor, la nozione di padre che interviene nel campo concettuale della psicoanalisi riveste il ruolo di 'operatore simbolico a-storico': "..Per poco che lo vogliamo considerare come un essere, si tratta meno di un essere in carne e ossa che di un’entità essenzialmente simbolica che prescrive una funzione."


Brano tratto da "Nel nome del Padre", saggio breve di prossima pubblicazione nella sezione 'Scritti' del sito web: www.fernandomaddalena.it

giovedì 20 gennaio 2011

Prima delle parole




Prima nasce il bambino, solo molto tempo dopo nascono le sue parole.Questa consequenzialità
ci ricorda come sia esteso il periodo temporale che divide la nascita fisiologica dell'individuo da quella psicologica e al contempo quanto in-dicibile sia contenuto in quel piccolo universo compreso tra gestazione e primi anni di vita.
Se è vero che l'attenzione rigorosa alla parola in qualità di medium è un tratto peculiare della pratica psicoanalitica, è vero altresì che esiste un universo di segni non verbali la cui funzione espressiva è di primaria importanza per la comprensione del mondo interno di un individuo. Le varie forme di espressione somatica delle emozioni, la prossemica, la cosiddetta comunicazione del corpo (il 'body language' della cultura anglosassone) ne rappresentano le modalità più conosciute in quanto facilmente riscontrabili da chiunque presti un'attenzione più focalizzata a certi aspetti esteriori dell'altro.
Vi sono però anche altre forme di comunicazione tra le persone cui la psicoanalisi ha da sempre dedicato ampio spazio, nella teoria come nella pratica, che rimangono confinate all'interno di un discorso più propriamente tecnico-conoscitivo, oltre che ovviamente in quello strettamente professionale. Esse fanno parte cioè di un sapere ristretto alla cerchia di cultori e studiosi del campo, anche se per alcune – come è il caso del 'transfert' – c'è stata, fin dall'inizio, una certa notorietà, dovuta sicuramente all'importanza centrale del concetto all'interno della concezione teorica psicoanalitica. Già meno noto al 'pubblico', infatti, è il concetto di 'contro-transfert' (di cui però si può intuitivamente ipotizzare che sia qualcosa che ha a che fare col terapeuta più che col paziente, e in una modalità 'reattiva' rispetto al transfert). Oggi è tuttavia comune ascoltare persone che mai sono state in analisi (e che probabilmente mai vorrebbero trovarcisi!) parlare di rimosso e di rimozione in senso propriamente psicologico, come qualcosa relativo cioè al nascondere alla propria consapevolezza, al mettere da parte e non considerare (volutamente o meno).
Al di là di questo primo ambito di pubblicizzazione, che come vediamo coincide ormai con una certa cultura di base globalmente intesa, permane invece un retroterra concettuale che potremmo definire specialistico, paragonabile per certi versi alle varie terminologie delle scienze mediche, o ingegneristiche, o informatiche, che costituisce una sorta di linguaggio codificato della propria branca (scientifica o non) di appartenenza.Termini allora come 'proiezione', 'identificazione proiettiva', 'empatia', 'reverie', 'holding', 'fiducia di base', 'acting' ('out' e 'in') o 'enactment' etc., rappresentano dinamiche psichiche ben definite nella teoria psicoanalitica che caratterizzano modalità di interazione primitiva tra parti nascenti dell'unità sé/oggetto e tra soggetto e mondo esterno poi.
Queste costruzioni concettuali individuano infatti movimenti psicologici profondi di natura affettiva ed emotiva che, non essendo supportati dal codice simbolico della parola, possono venire espressi e compresi solo sulla base di una reciprocità percettiva, affettiva e sensoriale tra paziente e terapeuta all'interno di più ampie configurazioni di interazione, in una processualità solitamente inconscia che solo a maturazione consente al terapeuta di comprendere, riconoscere e quindi verbalizzare quanto sta avvenendo 'in profondità' nel rapporto col paziente.
In questa operazione di trasformazione da una comune matrice percettiva-sensoriale alla possibilità di codificazione linguistica – e quindi di condivisione sul piano verbale di un contenuto tra i due – si riattualizza (o a volte si realizza ex-novo) in realtà l'intero passaggio dalla dimensione pre-simbolica a quella simbolica del rapporto dell'individuo con se stesso prima e con l'altro poi, in una circolarità fondante la capacità stessa di stabilire relazioni significative con parti del sé e con l'altro-da-sè.
In questo senso l'attenzione si sposta allora dal 'che cosa' viene detto in seduta, quindi dal contenuto verbale manifesto o latente del paziente rispetto al proprio universo vissuto, esperienziale e percettivo, al 'come', cioè alla particolare modalità di espressione di contenuti interni variamente mentalizzati che esula dal contesto della verbalizzazione diretta e si esprime invece attraverso la sollecitazione di quella dimensione di rapporto intra- ed inter-personale in cui si evidenziano forme prototipiche di espressione e comunicazione.
Questo 'proto-linguaggio' viene recepito per mezzo di elementari processi di natura affettiva che riattualizzano modalità primarie di rapporto, come quello tra madre e neonato, in cui lo scambio di informazioni tra i due avviene interamente a livello extralinguistico. Qui infatti sono altri i canali coinvolti nell'interazione duale e li possiamo individuare innanzitutto nella dimensione corporea dei cinque sensi, quindi nella rete associativa (neurale e mnestica) che si sviluppa a partire dalle prime esperienze di rapporto con l'altro. Inoltre, sappiamo quanto sia fondamentale il ruolo della pelle quale primo contenitore delle prime esperienze somato-psichiche, ancor prima della comparsa di un vero e proprio contenitore psichico-mentale che possa funzionare nell'ordine della rappresentazione, così come in precedenza il ruolo connettivo del cordone ombelicale tra utero materno e feto, che si fa carico di un travaso di 'informazioni' (intese queste nel senso ampio di sostanze vitali concrete ed elementi sensoriali) tra l'uno e l'altro che rimangono incistate in una memoria del corpo destinata a sopravvivere alle successive evoluzioni dell'individuo verso la sua condizione separata e infine adulta.
E' su questo terreno estremamente ricco di stratificazioni esperienziali che affonda le sue radici la psicoanalisi, il cui dispositivo semiotico di traduzione-decodificazione non è quindi ristretto all'ambito pur infinito della parola (Lacan docet!), ma si allarga alla possibilità di costruire significati condivisibili a partire da quell'universo sensoriale primitivo, senza voce né parole, che occupa un posto centrale nella vita di ogni individuo.
Quindi la psicoanalisi, concepita e fondata sulla parola che nella metafora freudiana apporta consapevolezza ed illumina le tenebre dell'inconscio, potrebbe ben definirsi altresì come la disciplina del non-dicibile, in quanto cioè non-ancora dicibile in una prospettiva temporale ed evolutiva, o anche in-dicibile come esperienza ed espressione di un limite di senso, il limite della pensabilità o perfino del limite estremo della morte.
A livelli così primitivi del funzionamento psichico, che sappiamo essere presenti in ognuno ma centrali e prevaricanti nell'esperienza del bambino piccolo come anche nel vissuto soggettivo di adulti con gravi problematiche di tipo psicotico, il discorso psicoanalitico si rovescia rispetto alla antica prassi ortodossa e ormai demodè della cosiddetta 'interpretazione classica' - estremizzando con ironia: il campanile equivale al pene, la borsetta alla vagina..! - poiché in tal caso il paradigma epistemico non è più quello della contrapposizione tra ordine manifesto e latente del discorso: non c'è in altri termini un contenuto affettivo 'nascosto' sotto un contenuto manifesto inserito in una catena associativa di immagini-ricordi-parole- concetti etc., ma si tratta invece di costruire un possibile scenario che funga da contenitore ed attivatore per ciò che definiamo col termine di 'inconscio', affinchè questo 'risponda' producendo ulteriori elementi, inizialmente schemi primari di risposta (interesse, avvicinamento, allontanamento, evitamento, incorporazione, rifiuto, etc..) e connettendo progressivamente aree sempre più estese di consapevolezza, in una processualità semantica che si sviluppa necessariamente 'a posteriori' (la Nachtraglickeit freudiana, ancora una volta).
Una tale estensione della portata epistemica della disciplina psicoanalitica, e la relativa necessaria attenzione alle configurazioni dinamiche profonde del funzionamento mentale, consentono a questa prassi terapeutica di poter condividere col paziente aspetti del proprio essere nel mondo difficilmente riconoscibili altrimenti, offrendo al contempo la possibilità di dare una forma meno precaria e più autenticamente vitale al proprio mondo interno in una modalità anche esteticamente significativa, quando la creatività interiore riesce ad essere sollecitata ed alimentata attraverso l'interazione terapeutica.