martedì 23 settembre 2014

Quel che resta del giorno



..Ricordate? Il titolo è la fedele traduzione italiana di quel bel film del 1993 diretto da James Ivory e tratto dal romanzo omonimo di Kazuo Ishiguro (The Remains of the Day), in cui l'irreprensibile Stevens si concede la prima settimana di libertà della sua lunga carriera di maggiordomo e ciò diventa occasione per ripensare la propria vita, spesa nell'adempimento di un unico ideale: quello di rispettare una certa tradizione – riflesso di una specifica forma mentis, religiosamente votata alla cura e al benessere del proprio amato 'signore' – e di difenderla oltre il buon senso e la ragionevolezza e, soprattutto, oltre il proprio sentire e desiderare.
Ma il viaggio in automobile verso la Cornovaglia, dove vive ormai da tempo la sua donna del destino (chiaramente 'sacrificata' all'inflessibile durezza del suo 'senso del dovere'), lo costringe a rivedere il suo passato. Così, tra nostalgia, reminiscenze e mai risolti dubbi egli si accorge di aver vissuto un'intera esistenza senza mai riuscire ad essere veramente se stesso, così come non si possa cambiare improvvisamente vita e ricominciare daccapo.
Il preambolo narrativo, con l'evocato scenario vittoriano – espressione di un formalismo esasperato al servizio della continuità delle cose nel solco della tradizione e dell'apparire (di un mero 'dover essere' e, in sostanza, di un 'non vissuto' in prima persona) – ci è utile per introdurre una riflessione sul senso dell'esperienza umana, inteso non in termini metafisici, ma proprio come 'ciò che dà senso alle cose', in un quotidiano andirivieni tra l'abitudine, il già pensato, il prestabilito, e l'insolito o l'inusuale, il nuovo e, semmai, la rivelazione.
Sappiamo come il tempo sposti in modo impietoso questo equilibrio sempre più a favore dei primi, come il semplice fatto di 'crescere' sia anzi la risultante della costruzione di un assetto mentale sempre più centrato all'interno di una gamma di variabilità, come infine la vecchiaia non sia altro che l'adagiarsi per inerzia nell'abitudine rassicurante di certi ripetitivi schemi mentali.
Diremmo, quindi, che la possibilità di mantenere aperto un sistema che di per sé tende invariabilmente a chiudersi su se stesso è data dal sottile equilibrio che si instaura tra la nostra vita emotiva (in breve, il nostro desiderio), che potremmo definire unica e atemporale, e quella che fa capo ad un'immagine di sé più rispondente alle logiche 'formali e temporali' del sistema sociale in cui siamo immersi fin dalla nascita (anzi, andando anche oltre, Lacan ci ha parlato della preesistenza di un tessuto linguistico che ci precede, e che inevitabilmente ci con-forma nel momento stesso in cui ci mette in relazione con l'Altro).
Se “solo ciò che non è del tempo rimane nel tempo” (temporalità che qui potremmo declinare anche nel senso spaziale di 'mondo') – come annotava da qualche parte (1) Jorge L.Borges, che delle perenni trasformazioni temporali delle fragilità umane fece ampio fondale a tante delle sue opere – dovremmo concludere che le esperienze ultime della vita umana, quelle che articolano il suo 'senso', cioè l'essenza stessa della sua soggettivazione in quanto individuo storico, siano la risultante di un'operazione di sottrazione di qualcosa rispetto allo scorrere uniforme e monotono dell'eterno quotidiano, un trarre a parte un resto dalla corrente delle ore, dei giorni, dei mesi, degli anni. Il 'resto del giorno', allora, sarebbe l'emozione che resiste e si sottrae all'azione smussante del tempo, e che si fa apportatrice di quel 'senso' intorno al quale gravita, tra lampi di luce e distese di ombre, la nostra vita interiore; particola non ulteriormente deperibile nè degradabile, traccia pur sempre vivente di una presenza – allora incarnata e pulsante – che supera, spogliandosi della sua natura corruttibile, le leggi del tempo, portandosene 'al di là' e permanendo fluttuando in esso ma pure da esso distinto.
Nello scritto L'interpetazione dei sogni (Die Traumdeutung, 1899), Freud parla del fatto che qualsiasi interpretazione analitica del materiale onirico lascerà sempre un margine di insondabilità, una realtà ultima e in sé indefinibile, che resisterà ad ogni tentativo di ulteriore comprensione: è l'ombelico del sogno – egli usa proprio questo termine – che costituisce una sorta di connaturata intraducibilità dell'elemento onirico in una declinazione univoca e definitiva. Ma da Costruzioni in analisi (Konstruktionen in der Analyse, 1937) in poi, liberatasi dall'esigenza originale di una traduzione puntuale del materiale nel senso di uno stretto simbolismo su base pulsionale, la stessa interpretazione analitica nel suo complesso diviene la cifra di una operazione di metaforizzazione permanente del testo soggettivo, schiudendosi ad un nuovo orizzonte epistemico.
La 'transitorietà', diremmo, dell'atto interpretativo, è ciò che rende unica la psicoanalisi rispetto alle altre discipline del sapere, in quanto pone come condizione necessaria il fatto che qualunque nostro desiderio o pulsione, qualsiasi intenzione o progetto, non può mai essere tutto 'qui ed ora'. L'apertura costante del sistema, la sua transitività, è in questo caso il prerequisito indispensabile affinchè il processo analitico abbia luogo e la 'catena associativa' con le sue trasformazioni metonimiche metta in moto il transfert, osservabile nella cornice della seduta.
Anche qui, dunque, ciò che si sottrae all'atto interpretativo – come l'emozione residuale e non elaborabile che sopravvive allo scorrere temporale – viene a costituire una dimensione fluttuante, aperta e potenzialmente saturabile di volta in volta, mai però in modo stabile e conclusivo, che rilancia l'interazione co-interpretativa della coppia analitica alla ricerca del 'senso' di sé e delle cose e consente così una continua riorganizzazione del testo e dello stesso ricordo.
E questo 'senso' precario e instabile, questa emozione primaria e residuale, questo ombelico irragiungibile della nostra vita onirica è purtuttavia ciò che ci rende unici e che realmente ci soggettivizza: esso è il Soggetto stesso al di là delle interminabili trasformazioni e modulazioni identitarie del nostro Io. E la parola, prerogativa umana o semplice vezzo evolutivo, nel nominare instancabilmente le cose del mondo si incarica di rendercene testimonianza, scoprendo e ricoprendo, indicando e alludendo, ma mai cogliendo nel centro del bersaglio, poiché esso non ha corpo e fluttua nell'aria.
Siamo una assenza, o meglio una mancanza, anche se ci conforta credere sia solo una latitanza.





1 - Mi si perdoni l'indolenza della imprecisione, ma seppure la memoria mi assista ancora a sufficienza non riesco proprio a ricordare dove ho letto questa frase del grande scrittore e poeta argentino. Credetemi, dunque, sulla parola...