venerdì 30 maggio 2014

Del desiderio



Anche l'etimo è affascinante. Viene da de-sidera, latino, che in una accezione un po' rigida sembra alludere alla mancanza (de-) delle stelle, o alla lontananza dell'oggetto cui si tende lo sguardo; oppure (individuando stavolta il de- quale complemento di luogo) potremmo dire che l'oggetto del desiderio 'viene dalle' stelle. Altre interpretazioni, meno poetiche, lo riducono a de-sum, sono mancante, sono privo. Abbiamo comunque a che fare con un qualcosa che manca, con una distanza che si para tra noi e la cosa.
Che il desiderio fosse però qualcosa di particolarmente difficile da sistemare nella propria economia mentale l''uomo sembra averlo avvertito da subito. Già le antichissime filosofie indiane – a partire dal Rig Veda (composto in un arco temporale tra il 2000 e il 1000 a.C.) e attraverso le successive Upanishad fino alla Bahagavad Gita – assegnano al desiderio il ruolo di sorgente della creazione, la forza primigenia che mobilita l'universo: “.. il primo seme e germe della mente (Rg Veda 10,129,4). Ciò che tuttavia non impedisce a Krishna di avvertire con queste parole Arjuna nel Bahagavad Gita: “La saggezza è offuscata dal desiderio, l'onnipresente nemico del saggio. Sii un guerriero ed uccidi il desiderio, il potente nemico dell'anima”. Sappiamo come la tradizione religiosa induista e in generale la mistica orientale si siano sempre impegnate a rimuovere il desiderio per consentire l'ascesa spirituale dell'individuo. La stessa pratica buddista si fonda sull'ideale di separazione del temporale e contingente dall'eterno e immutabile, del Samsara dal Nirvana, introducendo un'etica di distacco dalle 'apparenze' del mondo che in sostanza prevede la graduale riduzione fino all'estinzione più o meno completa del desiderio.
Tornando in Occidente, cioè ad un modo di pensare 'per linee rette' rispetto alla circolarità spiraliforme del pensiero orientale, da Platone ad Hegel passando per il Cristianesimo il desiderio è stato invece inserito in un meccanismo di progressivo raffinamento di natura idealizzante: esso doveva essere bonificato dalle componenti violente, educato al bello ed incline ad una certa idea di moralità.
Oggi desiderare, però - nel senso tradizionale del termine, cioè il sentimento identificato con una certa sospensione dell'appropriazione di ciò che manca - non sembra essere più tanto di moda. Sarà perchè la realtà odierna ci satura di desideri preconfezionati che ci confondono, che ci sviano rispetto ad un più autentico sentire noi stessi. I gadgets che popolano il nostro quotidiano sono così invasivi che riempiono ogni momento utile di silenzio, in cui potremmo forse ascoltare qualcosa che ci appartiene, o che ci manca. Avendo invece ormai conformato il proprio desiderio ed il successivo godimento alle offerte di mercato, e non andando troppo al di là di esso, abbiamo prodotto intorno a noi un deserto di rapporti, ma carico di cose assolutamente superflue. La metafora del pattume che si accumula in ogni angolo del pianeta è purtroppo assai centrale e fa da sfondo alle nostre vite moderne. Dovremmo pensare che anche la nostra mente sia diventata sempre più qualcosa di simile ad un cestino dei rifiuti che trabocca di tutto quanto una certa 'cultura' mediatica ci pressa ad assorbire passivamente. In particolare potremmo dire, sub specie sociologica, che oggi il mercato del desiderio è utilizzato dalle logiche consumistiche per offrire l'illusione di una personalità distinta in una società colloidale, massificata e conformista. Non sarebbe erroneo quindi ipotizzare che una tale deviazione e falsificazione del desiderio potrebbero essere all'origine della comparsa e del costante aumento delle problematiche psicologiche e psichiatriche relative all'identità soggettiva, soprattutto tra le giovani generazioni.
Desiderare è invece andare alla ricerca di quel nucleo profondo che ha a che fare con la nostra più intima natura. E pertanto vitale (o 'mortale', anche, a seconda dei casi..), come quella dimensione desiderante che il bambino piccolo prova alla prima separazione dalla madre, quando la sensazione di un vuoto, di una mancanza, si origina e prende forma.
Bisognerebbe introdurre ora qui, per orientarci nella visuale psicoanalitica - che è cosa diversa da quella medica o anche psicoterapeutica - una distinzione importante, quella che fa Lacan (1966) quando differenzia il desiderio dal 'bisogno' e dalla 'domanda'. In breve, se il bisogno è la conseguenza di una pulsione e tende a soddisfarsi con un oggetto specifico (si pensi all'oggetto sessuale), e la domanda si rivolge ad un altro e necessita di un suo riconoscimento ed approvazione, il desiderio appare slegato da tale riferimento; esso non tiene conto dell'altro, abita uno spazio privato ma ubiquitario ed illimitato ed affonda le radici nell'inconscio, da cui trae energia. Soprattutto, il desiderio – a differenza del bisogno e della domanda – non si 'soddisfa'. Mai.
Il suo statuto è infatti relativo ad una condizione strutturale, più che ad un processo: quella del soggetto parlante, dell'essere umano che abita il linguaggio, che anzi lo 'subisce' essendovi introdotto fin dalla nascita, come sappiamo, ai fini della socializzazione. E' nel linguaggio, nell'uso comunicativo della lingua, che il desiderio deve inserirsi, fin dall'inizio, per potersi esprimere. Fin da quella ricordata prima mancanza, dalla prima separazione traumatica del bambino dall'universo materno, il linguaggio sigilla in un significante, cioè simbolizza, quella particolare dimensione dell'esperienza soggettiva rendendola perenne e rinnovabile in quanto costitutivamente insatura (ed insaturabile, pena la 'morte del desiderio'..).
Riconoscere il proprio desiderio passando per l'inconscio; questa potrebbe essere una verosimile chiave di lettura della psicoanalisi. Ed anche ciò che segna un confine con tutte le pratiche del 'benessere', termine oggi assai in voga che si presta ad ogni sorta di operazione pseudo-psico-terapeutica, un pacchetto igienico-mentale pronto all'uso, come le pillole per gli attacchi d'ansia o per la pressione alta.
Potremmo dire che il desiderio sta alla psicoanalisi come il 'benessere', soggettivamente percepito o presunto, sta alla psicoterapia di stampo 'medicalistico'. Se ne potrebbe dedurre che una sorta di collusione col 'malessere' debba associarsi alla dimensione della psicoanalisi (che in effetti reca con sé una visione di fondo affatto lusinghiera dell'essere umano né consolatoria dell'esistenza umana). Ma qui il punto è un altro e attiene piuttosto al posto assegnato al desiderio quale 'sintomo' o quale dimensione onirica o 'fantasma', cioè al ruolo che esso svolge ai fini adattativi e dell'inserimento del soggetto nella struttura di significazione rappresentata dal legame sociale e mediata dal linguaggio. Che poi la psicoanalisi sia vocazionalmente e necessariamente aderente al linguaggio 'malato' del sintomo è il portato stesso degli sviluppi della teoria freudiana sull'inconscio, che parte come sappiamo dai deliri delle isteriche. Se Freud avesse praticato con loro una delle tante terapie incentrate sul 'benessere', già molto in voga anche allora, nel precedente fin de siecle, non avremmo mai dato la parola all'inconscio, ma soltanto al difensore della morale pubblica e/o privata per eccellenza che è il nostro SuperIo: 'devi' essere, 'devi' vivere, 'devi' credere, 'devi' amare, etc etc..
Il soggetto della psicoanalisi quindi è un soggetto tragico poiché è il discorso del soggetto che soffre, ed il suo sapere è legato alla sofferenza. Il sintomo, espressione di tale sofferenza, non viene qui soppresso e rispedito al mittente (l'inconscio, ovviamente), o bonificato dalle sue negatività o liquidato farmacologicamente, bensì accolto in quanto elemento cruciale nel riconoscimento del desiderio in cui si radica, che tuttavia è sempre il 'simulacro' di qualcos'altro, un 'significante' (ancora Lacan) che 'sta al posto di ...'. Ed è proprio in questo continuo slittamento che si verifica nel tempo un graduale avvicinamento al luogo originario del desiderio, cioè alla propria individualità, parallelamente alla graduale separazione da quelle istanze costrittive che impongono una aderenza acritica ad un modello di sé assorbito con il latte materno, così che il soggetto possa ora elaborare il proprio modo di desiderare.
Il sapere con cui la psicanalisi ha a che fare è dunque quello del soggetto che soffre e non il sapere dell'esperto che inserisce quest'ultimo nel casellario diagnostico dopo avergli elargito una definizione in varia misura patologizzante che lo sigilla in se stesso. Ciò che equivale a sigillare, insieme al sintomo, anche il desiderio che lo informa.
Si può altrimenti giungere ad assumersi una piena responsabilità del proprio essere desiderante, nonostante esso non ci appartenga del tutto, se adottiamo una visuale conoscitiva per cui il soggetto psicoanalitico 'sa' (inconsciamente) – cioè conosce la sua sofferenza – pur non assumendosi il suo sapere (inconscio) se non a piccole dosi, passo dopo passo, seduta dopo seduta, lavorando cioè sulla propria ignoranza(1). La psicoanalisi, in definitiva, ci ribadisce che il desiderio sorge da una “mancanza ad essere”, da una distanza tra sé e sé che non può essere suturata se non illusoriamente attraverso le continue metonimie del nostro essere pensante e parlante. Che quindi non c'è salvezza rispetto ad una originaria scissione interna che ripropone continuamente la contrapposizione Io-Altro in termini variamente declinati (gioia, amore, passione, odio, gelosia, invidia, etc..) e la cui unica 'cura' consiste nella sua maggiore o minore presa di coscienza, così da ridurne gli effetti confusivi e distorcenti sul nostro percepire noi stessi e gli altri.
Ma, dunque, qual'è in questo caso il ruolo dell'analista, se non è più quello, tanto atteso da tutti, di rendere edotto l'analizzante su se stesso fornendogli teorie esplicative ad hoc, di riconoscergli lo statuto di malato (cum psychiatrica benedictione), di esortarlo al cambiamento col metodo del bastone e della carota (se fai il bravo paziente diventerai grande, saggio e bravo come il tuo analista), quindi di 'guarirlo' finalmente dai suoi sintomi 'infantili' che si ostinano (ma guarda un po'!) a rimanergli attaccati addosso..? Poichè il soggetto, come abbiamo detto, 'sa' (a modo suo, cioè inconsciamente) di se stesso e delle inarrestabili trasformazioni del proprio desiderio, l’analista dal canto suo dovrebbe facilitare il pieno funzionamento del processo di avvicinamento alla dimensione desiderante affinchè il soggetto riconosca e si appropri di quel nucleo germinativo, della propria mancanza costitutiva, anche ripercorrendo a ritroso il cammino e individuando le innumerevoli figure in cui il suo desiderio si è di volta in volta incarnato. Occorre in altri termini garantire la persistenza dell'interrogazione su se stessi e al contempo quella della sostanziale indicibilità del desiderio e del suo oggetto originario, poiché solo permettendo che il desiderio rimanga insaturo – cioè non occludendolo con risposte conclusive e definitive, che vi apporrebbero una sorta di pietra tombale (hic iacet desiderium ) – è possibile al contempo distanziarsi con consapevolezza dalle sue infinite variazioni metonimiche e mantenere tuttavia la relazione, vitale per la mente, con la sua sorgente inesauribile.

1 - Ovviamente da intendere qui nel senso di ciò che si ignora, che non si conosce (ancora) di sè.