lunedì 9 novembre 2009

Sul Vuoto



“Natura aborret a vacuo”...Si dice fu Aristotele a proferirla a proposito della sua concezione della materia, considerata un 'tutto pieno', una rassicurante continuità di massa solida che sfidava e si contrapponeva all'assenza del visibile.
Ma già gli 'atomisti' Leucippo e Democrito, di lui contemporanei, proponevano invece una visione della materia diversa, fatta di vuoti su cui risaltavano i pieni (gli atomi, appunto). L'Occidente però seguì Aristotele e il 'vuoto' dovette aspettare il Settecento e poi la fisica quantistica per essere riscoperto. E ora i 'buchi neri' della moderna astrofisica ne celebrano il ruolo fondamentale per la comprensione delle dinamiche spazio-temporali.
'Horror vacui', la paura del vuoto. Vuoto di forme, di sensazioni, di senso, condizione che la mente si affanna solitamente a rigettare in modo istintivo per un sacro terrore di perdersi in un mondo senza più apparenti riferimenti visibili. I vuoti che sottendono le esperienze psichiche sono solitamente percepiti in termini negativi, di assenza di qualcosa, di una mancanza. A partire dai nostri 'vuoti quotidiani', quei tempi 'morti' che ci affrettiamo a riempire con cose-merci, comportamenti, rituali, abitudini e tanta tv (un classico: il televisore sempre acceso dei film americani, anche di notte, con lo schermo latteo o a righe che frigge; ultimo baluardo per scongiurare una qualsiasi forma di consapevolezza introspettiva..).
Quindi, procedendo in senso 'discendente', il vuoto 'depressivo'; che è, per antonomasia, una condizione dell'essere in cui la potenzialità vitale è menomata, in cui una perdita di affetto si traduce in perdita di senso. La mente vacilla sul limitare dell'abisso: 'vuoto a perdere'.
Di pieno e vuoto ci parlano poi le vicissitudini dell'incontro-scontro tra mente e corpo, delle illimitate varietà di somatizzazioni-conversioni isteriformi- trascrizioni corporee (forme di arcaiche memorie su 'supporto organico'..?), che definiscono equilibri mai troppo armoniosi, sempre precari, 'eccedenti' e sbilanciati di qua o di là.
E così le esistenze svuotate delle anoressiche e i 'tutto-pieno' delle bulimiche; di come vuoto e pieno siano esperienze 'a priori' dello stare al mondo, di quanto siano fondamentali quei momenti perduti in cui madre-padre-figlio funzionano ed esistono scambiandosi pezzi di sè in un mutuo ancestrale banchetto.
Ma anche i vuoti spaventosi della/e memoria/e nelle patologie neurologiche, che espongono all'intrusione di un presente straniero e minacciano le identità costruite e consolidate nel tempo vissuto spazzandone via i ricordi.

Di fronte a tale designazione 'in negativo' del vuoto si contrappongono invece tutte le grandi correnti religiose, mistiche e meditative, dallo sciamanesimo al cristianesimo al buddhismo, che cercano nel vuoto la condizione della catarsi, del superamento di sè, della trascendenza. La psicoanalisi dal canto suo concede credito alla Parola, alla parola autentica che viene dal profondo e che si fa largo tra le pieghe del contingente mondano, ma anch'essa presuppone un vuoto dove poterla far risuonare.
Un 'risuonare vuoto', si dice di un corpo cavo percosso dall'esterno. Ma proprio in quel silenzio 'cosmico', proprio di quel singolare e misterioso microcosmo che noi siamo, permane la possibilità di udire infine le voci di dentro, quelle che le nostre vite moderne, agitate e spesso convulse, si affannano a scongiurare, ad allontanare e infine dimenticare, considerandole inutili residui, scorie di un tempo passato.
Anche il compito del 'paziente', e prima di lui quello del terapeuta, che glielo trasmette implicitamente, diventa quello di 'fare il vuoto' dentro di sé, di strutturare e consentire alla propria 'vacuità' di emergere in primo piano, facendo così tacere per il tempo della seduta il rumore di fondo del quotidiano.
Per poter ascoltare in modo nuovo se stessi (e gli altri) è necessario il silenzio del vuoto, che permetterà infine di ascoltare anche i propri silenzi.


F.Maddalena