sabato 28 dicembre 2013

Il nome delle cose


“..Le parole sono il diavolo, noi lì a credere di lasciarci uscire dalla bocca solo quelle che ci convengono e, tutt'a un tratto, ce n'è una che si intrufola, non abbiamo visto da dove sia spuntata, nessuno l'aveva chiamata e, a causa di quella parola, che non di rado avremo poi difficoltà a ricordare, la rotta della conversazione cambia bruscamente quadrante, ci mettiamo ad affermare ciò che prima negavamo, o viceversa..”
Josè Saramago, L'uomo duplicato, Feltrinelli, p.178

“...Ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato.”
Dal rituale liturgico della Messa cattolica


Tra inconscio e coscienza, tra silenzio e parola, si estende un territorio infinito e sconosciuto, fatto di trame e dinamiche sotterranee che come le talpe scavano percorsi per arrivare infine alla luce diurna. Regno intermedio questo, mitica Terra di Mezzo, che può diventare anche un imprevedibile campo minato di involontarie allusioni, doppi sensi, lapsus, dove l'elemento intrinseco di sovversività che risiede nel nostro più profondo essere psichico oppone il suo spessore obliquo rispetto alla logica appianante della ragione.
D'altronde, non è forse l'inconscio 'strutturato come un linguaggio', come recita uno dei 'mantra' del Guru Lacan ?
La parola, in sé stessa, è innanzitutto definizione e identificazione, come anche rappresentazione, individuazione, contenimento, limite, cristallizzazione (di una cosa, di un concetto, di una emozione, etc..). Operazione magica che reifica e categorizza, inquadra, infine eternizza il fluire spazio-temporale scomponendolo e ricostituendolo nella rete impalpabile ma tenace dell'astrazione (la parola è l'Aufhebung della cosa, afferma Hegel, che utilizza il termine per indicare un negare, un sopprimere, per cui in definitiva il simbolo è l'assassinio della cosa reale).
Ma il processo della 'nominazione' (o potremmo definirlo, con immeritata licenza poetica, 'parol-azione', cioè il risultato della 'azione di parola', o della 'parola in azione') è altresì una vera e propria 'creazione' di nuovi mondi, l'epifania del neologismo divino, scoperta ed annessione di terre vergini ed estensione del potere dell'Io-coscienza (“In principio erat Verbum”, sentenzia San Giovanni, come d'altro canto la vertigine combinatoria e le permutazioni letterali e numeriche dei settantadue nomi di Dio della Cabala ebraica).
Noi 'conosciamo' solo se siamo in grado di distinguere ed identificare, di evocare un nome che racchiuda l'oggetto della conoscenza (“Nomen omen”, dicevano i latini); 'sappiamo' solo se riusciamo a dare un nome al nostro sapere, sentendoci poi appagati e tranquillizzati dal fatto che 'quel' nome rimanga, stabile e imperituro, a designare nel tempo una qualsiasi entità del nostro cosmo esistenziale, altrimenti soggetto a continui mutamenti e fluttuazioni di senso, morti e rinascite...
Proprio questa duplice valenza ad un tempo mortifera e creatrice insita nella parola, la sua virtù di delimitare e fissare nel tempo e quella al contrario di costruire la realtà e generare nuove connessioni di significato è ciò che ci permette di essere pienamente umani, di creare gerarchie di astrazioni e stabilire un confronto comunicativo con noi stessi e con gli altri.
Breve intermezzo semiserio (a mò di pausa pubblicitaria). Immaginiamo il naturalista ottocentesco che, di ritorno dalla spedizione in Africa equatoriale, infilzi al quadretto la variopinta e ancora sconosciuta farfalla catturata ivi col retino, per farne bella mostra nel proprio studiolo, non prima di averla 'battezzata' con un nome esotico altisonante (sovente unito al proprio cognome in versione latina: che so, per esempio la Marpesia Petreus..). Ecco; un 'pezzo di natura', fino allora sconosciuto e quindi di fatto 'inesistente' per lo scienziato, è stato così annesso alla realtà condivisa, arricchitasi adesso di questa 'nuova creatura', che pur morta (stecchita e infilzata com'è!) acquisisce solo ora una sua propria vita nel mondo umano...Si dirà: “Ma esisteva anche prima e svolazzava viva e vegeta!”. “Già, ma solo 'in natura'” – ribatterebbe lo scienziato, senz'altro erudito da vecchie letture berkeleyane (1) – poiché di fatto essa non esisteva ancora per il mondo scientifico, né tantomeno per il comune uomo della strada ...
Al di là del fatto che qualche indigeno africano dell'equatore possa – ben prima del nostro naturalista – aver battezzato quella specifica farfalla in un nome affatto diverso (che so, tanto per dire: tuc tuc, per rimanere nel linguaggio semplice delle popolazioni tribali!), questo siparietto d'antan ci introduce alla tematica del conosciuto/ sconosciuto e alla problematica del conoscibile/inconoscibile che interessa fin dall'inizio la disciplina psicoanalitica.
Tutta l'invenzione freudiana nasce infatti con la possibilità di nominare, far parlare i pensieri e i sentimenti attraverso la 'libera associazione' (“Talking cure” la definì in modo semplicemente perfetto una delle sue prime pazienti, la ormai 'mitica' Anna O.).Il soggetto si racconta e così facendo cerca e trova le parole per esprimere il suo mondo e portarlo a compimento attraverso un rapporto di significanza, cioè di un legame stabilito in profondità tra inconscio, coscienza e realtà esterna, così da poterlo condividere con un Altro-da-sè.
Peraltro, l'infinita possibilità di nominare e ri-nominare il mondo esterno ed interno attraverso la parola rimanda poi anche alla virtuale 'interminabilità' della cura psicoanalitica, delineando un processo in cui non si finisce mai di interpretare la realtà alla luce del cambiamento e delle trasformazioni del presente, consentendo così l'attribuzione di nuovi significati che aderendo alle costanti sollecitazioni del mondo affettivo-emotivo interno mantengono sempre aperto l'orizzonte di senso entro cui si muove l'individuo.
Ed è proprio quando la parola si fa dissonanza, quando rompe gli schemi consolidati dal 'già detto', quando esce cioè dal 'solito giro', dal centro delle abitudinarie associazioni e si avventura tra le periferie del senso, nel silenzio delle strade secondarie in bilico tra noto e ignoto, che essa acquista quel potere creativo ed evocativo che funge da tramite tra dentro e fuori e che può rimettere in discussione una ormai logora visione della realtà, giunta ad una necessaria ma quanto mai temuta esigenza di cambiamento.
E' allora che la farfalla magicamente riconquista la sua vita e con un solo battito di ali spezza lo spillo che la teneva immobile in cornice e si libra, voluttuosa, nell'aria.




(1)George Berkeley (1685-1753), filosofo empirista e teologo irlandese.La sua filosofia viene ricordata per la celebre formula «Esse est percipi», cioè "l'essere è essere-percepito", ossia: tutto l'essere di un oggetto consiste nel suo venir percepito e nient'altro. Quindi la realtà, per essere considerata esistente, deve essere percepita, grazie all'azione divina, dallo spirito umano.

lunedì 30 settembre 2013

Analisi finita ed infinita



Una signora di mezz'età arriva in studio per la prima volta. Piuttosto a disagio, sembra che abbia timore a lasciar trapelare troppo presto il motivo della sua visita dallo psicologo. Ci gira infatti molto intorno, finchè decide di affrontare il toro per le corna e descrive fin nei dettagli una situazione sentimentale rovinosa ed uno stato di salute compromesso da ansie continue e crisi di profonda angoscia. Non manca poi di informarmi che crede di sapere da cosa possa dipendere il suo crollo emotivo attuale e fa riferimento ad alcuni ricordi e vissuti antichi del rapporto coi genitori che avrebbero determinato nella sua psiche una ferita mai rimarginata.
La signora aggiunge quindi che io dovrei aiutarla a fare chiarezza su certi vissuti ed esprime il desiderio, anzi il bisogno che gliene renda al più presto una esplicita spiegazione, così che lei possa finalmente sapere con certezza ciò che l'ha fatta ammalare e guarire dalla sua angosciosa condizione attuale.
Possiamo immaginare che un simile quadretto clinico non sia affatto infrequente nella esperienza di tanti altri colleghi alle prese con simili richieste. Così come accade, anche più spesso, nei casi in cui la richiesta di un trattamento presuppone che il terapeuta 'sappia' fin dall'inizio – per esperienza o per particolari capacità intuitive (se non magari per doti paranormali, in casi particolari) – sulla sola base di informazioni fornitegli dal paziente, cosa ci sia nella sua mente che non va e che deve allora essere 'aggiustato', senza porre tempo in mezzo, ovviamente, poiché il tempo è denaro.
Queste richieste impossibili, che sono oggi quasi la norma, sono avallate da una cultura psicologica sempre più centrata sul benessere e sugli stessi orientamenti della psicologia accademica, sempre più ancella della psichiatria e inquadrata in logiche di derivazione medicalistica (basti pensare alla sempre maggiore influenza di insegnamenti organicistici e di fisiologia dell'apparato mentale, ed alla scarsa o nulla attenzione dedicata invece in sede di formazione universitaria (ma spesso anche dopo) ad uno studio di tipo 'umanistico' in cui dare la dovuta importanza alla mitologia, alla storia delle religioni, alla antropologia comparata, alla storia della filosofia, etc..
Non stupisce quindi che la cultura della medicalizzazione forzata abbia prodotto negli ultimi decenni quei cataloghi della malattia mentale che sono i vari DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 'ovviamente' di importazione Usa), bibbia degli psichiatri organicisti e libro rosso delle industrie farmaceutiche che su tali classificazioni costruiscono i loro enormi guadagni, dove ognuno può scegliersi in anticipo la psicopatologia che gli spetta (magari quella più trendy, che fa tendenza..), così da non perdere tempo a conoscersi un po' meglio e magari capire il senso più profondo di certi sintomi e di certi malesseri di cui soffriamo.
Il risultato, paradossale per una psicologia che si pretende figlia delle scoperte di Freud e Jung, è che l'oggetto stesso dell'indagine, ciò che non sappiamo, quindi in questo caso ciò che per definizione è inconscio, sparisca dalla scena, spodestato da un sedicente 'già saputo', una sorta di a-priori kantiano della conoscenza di sé sorretto sulla dimensione dell'Io onnipotente – atto di fede: 'Credo in un solo (D)Io, Signore del cielo e della terra..', etc etc.. – che in realtà è una modalità di chiusura alla possibilità di una reale scoperta di sé stessi in un orizzonte esteso alla concezione di un proprio Sè (considerato quest'ultimo quale risultante della compresenza di Io e non-Io, cioè parti della mente che non identificano un particolare Io cosciente e non rispondono a logiche chiaramente egoiche, ma ad un progetto più vasto, 'sovraordinato' potremmo dire, di realizzazione della propria personalità).
Ma torniamo al quadretto clinico iniziale ed alla signora in attesa metaforica che le venga rivelato dallo psicologo l'arcano del suo stare male. Qui, oltre ad una impostazione di pensiero per cui il sapere è qualcosa di preordinato, un 'già accaduto' che deve essere tuttalpiù verificato e sancito dal 'tecnico' della psiche, c'è anche il suo esatto contrario, che risponde tuttavia alla stessa logica di fondo: lo psicologo sa a priori ciò che il paziente non sa di se stesso (il mitico 'soggetto supposto sapere' lacaniano), quindi sarebbe necessaria (e sufficiente) una operazione di 'travaso' del sapere dell'uno nel non-sapere dell'altro, affinchè – come per un effetto di vasi comunicanti – si raggiunga un livello adeguato di conoscenza. Si tratterebbe così di un'esperienza in cui il paziente deve essere istruito su se stesso da chi ne sa 'evidentemente' più di lui.
In realtà, l'esperienza analitica tratta di un sapere che, ab initio, i due partners analitici non possiedono ma che nonostante ciò è presente 'in potenza', cioè nell'inconscio dell'uno e dell'altro. E' però fondamentale che si apra un processo di conoscenza reciproco che consenta di mantenere aperta nel tempo questa dimensione conoscitiva senza premature chiusure di senso, senza forzare cioè il senso della scoperta in un sapere definitivo su se stessi, una specie di dogmatico e conclusivo 'Io sono così', scolpito nelle tavole della Legge (il parallelo per contrasto con la religione non è casuale: qui non è questione di fede in ciò che si sa, quanto piuttosto in ciò che 'non si sa ancora' di sapere).
In realtà, è proprio questa continua 'apertura di senso' che incarna la dimensione vitale dell'esperienza analitica, che determina quindi che il relativo sapere sia sempre e solo aperto ad una ulteriore trasformazione di significato. Per cui potremmo definire il paziente come colui che acquisisce progressivamente la capacità di poter attuare una dinamica trasformativa con la propria 'ignoranza' permanendo in un processo di conoscenza virtualmente infinito su se stesso. Per contro l'analista deve garantire che l'interrogazione su di se del paziente non si chiude prematuramente in un sapere 'pret a porter', pre-confezionato (la logica del Dsm di cui sopra..) e mantenere aperta la dimensione di insaturazione e la sua stessa capacità di tollerare l'ansia del non sapere e dell'indefinito, in attesa fiduciosa che l'ignoranza generi conoscenza...
Non è un caso che la parabola di Freud si compia con uno degli ultimi suoi scritti (del 1937, due anni prima della sua morte), dal titolo: Analisi terminabile ed interminabile (la traduzione più corretta dal tedesco sarebbe in realtà Analisi finita ed infinita, che da maggiormente il senso della infinitezza 'strutturale' della esperienza analitica), dove viene ribadita la consapevolezza che il processo analitico operi nel senso di una tensione costante verso l'alterità costitutiva dell'essere e quindi lavori necessariamente contro tutte le certezze dogmatiche e le illusioni prefabbricate dal nostro Io a scopo protettivo e autorassicurante. Se dunque la psicoanalisi non da risposte definitive né certezze assolute, poiché adotta la visuale del nostro inconscio piuttosto che le ristrette logiche del nostro Io, insegna però a saper valorizzare e convivere meglio con i nostri limiti e le nostre incertezze, traendone un elevato potenziale di conoscenza su di sé. Ciò che, in un ottica aperta sul divenire più pienamente se stessi, può essere una scelta di gran lunga preferibile.

sabato 25 maggio 2013

Il Nuovo Mondo



Il presente è un estratto di due brani dello scritto omonimo, che comparirà prossimamente in versione integrale nella sezione 'Scritti' del sito web www.fernandomaddalena.it



Un aneddoto popolare racconta che Cristoforo Colombo, di ritorno dal secondo viaggio in quelle che egli credeva fossero 'le Indie', venne invitato da un certo cardinal Mendoza, che aveva allestito una sontuosa cena in suo onore. Alcuni ospiti di alto lignaggio – forse più invidiosi di altri dei grandi onori riservati al navigatore genovese - non mancarono di sminuire la sua impresa dicendo che chiunque, in fondo, sarebbe stato capace di scoprire il Nuovo Mondo. A questa osservazione Colombo non si scompose e li sfidò ad un' altrettanto facile impresa: far rimanere un uovo dritto sul tavolo. Dopo i più disparati tentativi, nessuno tra i blasonati detrattori riuscì nell'operazione e infine, convinti che si trattasse di un problema insolubile, pregarono Colombo stesso di risolverlo. Questi allora prese l'uovo e lo ammaccò senza romperlo con un colpetto nella parte inferiore, riuscendo così a farlo stare dritto sul tavolo. Quando i gentiluomini protestarono dicendo che avrebbero potuto farlo benissimo anche loro, Colombo placido rispose: «La differenza, cari signori, è che voi avreste potuto farlo, io invece l'ho fatto!». E da allora – continua l'aneddoto – l'uovo di Colombo è rimasto quale espressione per definire una soluzione insospettatamente semplice ad un problema all'apparenza irrisolvibile.
Al di là della palese inautenticità dell'episodio (l'aneddoto nel tempo fu attribuito anche ad altri contesti e a varie altre figure storiche) rimane il fatto che esso esprima in modo lampante il concetto popolare che nei secoli è stato associato alla 'scoperta' di Colombo, che identifica la sua impresa come una quasi ovvia conseguenza logica del fatto di voler raggiungere una parte di mondo da un lato (verso Occidente) anziché dall'altro (verso Oriente).
Ma l'aneddoto sembra anche voler suggerire che Colombo dovesse essere un uomo non comune, avere delle particolari proprietà di pensiero e ragionamento, come quella affatto scontata di riuscire a vedere, appunto, l'ovvio, ciò che si ha sotto gli occhi; e poi soprattutto fare in modo di realizzare concretamente quella 'ovvietà', che così tanto più sarà oggetto di stupore e riconoscimento tra gli altri uomini.
Ciò che in realtà accadde nello svolgersi dei ripetuti viaggi verso il Nuovo Mondo mostrerebbe invece come proprio l'evidenza dei fatti e delle circostanze, che si andava progressivamente disvelando agli occhi del navigatore man mano che proseguiva l'opera di esplorazione di quel vasto territorio prospiciente le coste dell'America centrale, fosse stata sistematicamente rimossa – diremmo oggi – allo scopo di mantenere la visione ufficiale e consolidata del mondo fino allora conosciuto, impostata sui soli tre grandi continenti (Europa, Asia e Africa) anziché quattro. Aprofondiremo questo aspetto più oltre, mentre adesso guardiamo ai fatti storici (piuttosto che ascoltare gli aneddoti, peraltro riadattati nei secoli!): torniamo quindi per un momento con la memoria sui banchi di scuola, quando incontrammo per la prima volta la figura del navigatore genovese e fummo sedotti dalle sue imprese...
Marinaio sin dall'età di 14anni su navi mercantili, Colombo maturò nel tempo il progetto di raggiungere le terre d'Oriente da ovest. Basandosi sulle carte geografiche dell'epoca e su alcune nuove teorie (in quegli anni anche il fisico fiorentino Paolo Toscanelli riteneva percorribile una rotta verso ovest per raggiungere l'India), Colombo si convinse della fattibilità dell'impresa e nel 1483 incontrò il re Giovanni II di Portogallo chiedendogli la somma necessaria, ma dopo aver consultato i suoi esperti il Re rifiutò la proposta.
Il progetto del genovese infatti, sulla carta, era ambiziosissimo, ed incontrò prima, durante e dopo i quattro viaggi da lui guidati verso 'Le Indie', notevoli resistenze anche da parte della corona spagnola. Il viaggio per mare avrebbe dovuto infatti aprire nuove rotte commerciali con il Catai e Cipango (gli attuali Cina e Giappone) al posto delle vecchie vie carovaniere, accelerando notevolmente il transito delle merci e prospettando un lauto incremento dei profitti da parte degli armatori, ma i rischi connessi all'impresa e le difficoltà relative alle condizioni generali del lungo viaggio ne ritardarono la realizzazione. Fu solo nella primavera del 1492, dopo circa dieci anni di tentativi, che Colombo ottenne il finanziamento dell'impresa, e solo per la decisiva intercessione della regina Isabella di Castiglia, moglie del sovrano spagnolo Ferdinando II [segue...]

[…] Ma la realtà, come sappiamo, è ciò che disconferma sempre in qualche misura i nostri propositi, desideri, speranze: vi si oppone come quello smisurato nuovo continente sconosciuto si oppone al passaggio di Colombo diretto verso le Indie. L'intenzione consapevole di Colombo, come sappiamo, non era certo quella di scoprire l'America. La scopre invece malgrè soi, mentre insegue l'oggetto del desiderio, le coste del Catai, e in questo movimento di avvicinamento ad esso si scontra col nuovo, con l'imprevisto, il non pensato ed anzi con ciò che non avrebbe dovuto esserci (ma che invece era lì, da sempre...ad aspettare di essere scoperto!).
Possiamo però ragionevolmente pensare che, più o meno consapevolmente, nel suo 'sub-cosciente', una simile evenienza dovesse esserci già stata, da sempre, nella sua mente. Che cioè accanto (o sotto, o sopra) all'idea preponderante della nuova via per le Indie vi fosse la possibilità concreta di poter anche sbarcare su territori vergini e ancora sconosciuti. Resta allora il fatto che una tale più che plausibile evenienza sia stata invece coscientemente così a lungo rifiutata, addirittura fino alla sua morte, e che solo i successivi navigatori-esploratori abbiano potuto riconoscere la verità del nuovo continente.
Anche ribadendo il fatto che per una mentalità come la sua – formata ad una visione tutta compresa tra le Sacre Scritture e il doveroso ossequio ai sovrani dell'epoca – la scoperta dei nuovi territori fosse da considerare non soltanto come una assai vantaggiosa operazione imprenditoriale, una strategica annessione di territori confinanti con la Cina che potevano dunque fornire preziosissimi punti di appoggio e di rifornimento per i traffici con l'Europa, ma anche come quell'atteso evento di natura spirituale che avrebbe unito i popoli della terra sotto la guida di sovrani illuminati, una tale massiccia e prolungata rimozione della verità merita una più attenta lettura dei fatti. Come anche dell'uomo Colombo, posto di fronte al dilemma tra l'ansia di realizzazione del suo desiderio cosciente (che come abbiamo visto è in realtà il portato di un desiderio collettivo ben più vasto e potente) e il riconoscimento di una realtà imprevista e dirompente, che muterà il corso della storia e ridisegnerà il nuovo volto del pianeta [segue...].






sabato 23 febbraio 2013

Segni sulla sabbia



Io sapevo che la terra stava ruotando, e io con essa, e Saint Martin des Champs e tutta Parigi con me, e insieme ruotavamo sotto il Pendolo che in realtà non cambiava mai la direzione del proprio piano, perchè lassù, da dove esso pendeva e lungo l'infinito prolungamento ideale del filo, in alto verso le più lontane galassie, stava, immobile per l'eternità, il Punto Fermo.
Il Pendolo di Foucault, U. Eco, Bompiani 2001.

...Cerco un centro di gravità permanente
che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente.. 

da Centro di gravità permanente, canzone di F.Battiato.

Il mondo è nel supporto della coscienza, ma la coscienza non ha bisogno di supporto. 
 La cosa e lo spazio, E.Husserl, Rubbettino 2009.



Immagino conosciate il pendolo di Foucault. Qualcuno dirà di averlo letto, ma quello è un libro di Umberto Eco (che tuttavia pure ci riguarda in questa occasione per i riferimenti inerenti l'argomento di cui vogliamo trattare). Il pendolo in carne ed ossa è invece – lo ricordo per i meno curiosi – quello strumento creato dal fisico francese Jean Bernard Leon Foucault nel 1851 per dimostrare scientificamente la rotazione della terra sul proprio asse.
Per fare questo Foucault costruì un enorme pendolo costituito da un peso, una enorme sfera di metallo sospesa ad una fune di oltre 60 metri, ancorata alla sua estremità superiore ad una architrave della cupola del Pantheon di Parigi e fatta oscillare nel vuoto in modo che la parte inferiore della sfera, dotata di un punteruolo, potesse incidere una superficie di sabbia sottostante ed imprimervi così la traccia del suo movimento oscillatorio (la cui figurazione sulla sabbia non è una semplice linea retta ma diviene - in base alla rotazione terrestre - un complesso tracciato sinusoidale in cui si identificano un centro e dei raggi concentrici).
Al di là del fatto che il movimento di un siffatto arnese incontri nella realtà concreta delle forze contrarie (forza di gravità, attrito dell'aria, etc..) che prima o poi ne costringono lo spegnimento progressivo delle oscillazioni, per cui tutti i pendoli simili hanno bisogno di un meccanismo ad elettromagnete che permetta loro di continuare il moto indefinitamente, una fantasia sorge spontanea (ed è la stessa del protagonista del libro di Eco): come è possibile misurare scientificamente il fenomeno di rotazione terrestre con questo pendolo se esso stesso è soggetto, in quanto ancorato ad un determinato punto dell'edificio terrestre che lo ospita, all'azione di rotazione (poiché - è ovvio - se il mondo ruota tutto ciò che appartiene al mondo ruota con esso)?
 In altri termini, è come se fossimo di fronte alla pretesa di rimanere immobili mentre tutto intorno a noi è soggetto a movimento, o ancora voler vedere un determinato oggetto nella sua completezza rimanendo confinati ad una sua visione ravvicinata e frontale, cioè senza distanziarcene in modo da poterne cogliere l'esatta dimensione e senza spostarci nello spazio circostante e retrostante per coglierne i diversi lati. Per eliminare l'incongruenza dovremmo quindi pensare – come anche ragiona il protagonista del suddetto romanzo – di ancorare il pendolo ad un 'gancio' che non stia sulla Terra, ma in un punto inamovibile dell'universo posto sul prolungamento ideale del filo, un centro perenne che non sia soggetto a sua volta alla dinamica di rotazione terrestre né a quella di qualsiasi altro pianeta o sistema stellare...
 Questa fantasia ci porta a pensare come la nostra mente necessiti di poter sempre fare affidamento su un punto fermo, ad una dimensione inalterabile, incorruttibile, ad una qualche certezza che funga da ordinatore e garante delle sue logiche interne, in sintesi ad un Cosmos che si opponga al Caos. Finora, nella storia dell'uomo, le religioni e le filosofie, con i loro credo e le loro fedi, hanno assolto e in parte assolvono ancora questo compito. Esiste l'Uno, esse dicono, eterno e immutabile. A questa fede originaria nel Divino il cosiddetto progresso scientifico ha in seguito affiancato la fede nella Verità della Scienza, giungendo tuttavia al relativismo ed agli imponderabili buchi neri ed alla ricerca – che si prospetta infinita – dell'esistenza del più piccolo elemento in cui la materia è scomponibile (dall'iniziale tripartizione subatomica in protoni, neutroni ed elettroni, fino al neutrino, al quark e più recentemente al famigerato bosone di Higgs, definito – almeno per il momento e magari fino alla prossima ulteriore scomposizione dello stesso – la particella di Dio...).
Anche la psicoanalisi, al pari delle altre scienze dell'uomo (anzi di più, poiché in realtà lo statuto scientifico non le è mai stato riconosciuto, trattandosi di una scienza indimostrabile – dogmatico ossimoro – oltre che di un mestiere impossibile, come scriveva lo stesso Freud), con i suoi presupposti pulsionali e le sue formule di riferimento, vive di quella sostanziale parzialità che è il risultato del necessario restringimento del campo di osservazione, tipico di ogni approccio conoscitivo alla realtà, quindi di ogni teoria. Dimenticare questa precondizione significa attribuire ad una teoria (che sia più o meno condivisa e/o condivisibile), cioè ad un modo di guardare il mondo, una indebita preminenza su tutte le altre, confidando in una pseudo-obiettività fondata su pretese onnicomprensive e di universale potere terapeutico.
Psicoanalisi quindi non come sistema di osservazione esterno, distaccato ed idealmente oggettivo – fa un po' tenerezza oggi pensare all'immagine dell'analista come 'specchio riflettente' e sedicente 'neutrale' che andava così di moda fino a qualche decennio fa – ma pratica e processo eminentemente duale (o diremmo meglio 'plurale' vista la molteplicità delle nostre sub-identità costitutive) che permette al soggetto di osservare se stesso attraverso il diverso punto di vista di uno specifico altro, il terapeuta, il cui sguardo è a sua volta sensibilmente diverso da quello di ogni altro terapeuta (una analisi, lo sappiamo, non è mai simile ad un'altra). Psicoanalisi tuttavia anche come 'punto di fissaggio' virtuale che consente di osservare i fenomeni in base ad un artificio-stratagemma (l'invenzione freudiana del 'setting') e della creazione di 'segni' (come il disegno finale tracciato dal moto del pendolo sulla sabbia), che pur rimanendo espressioni di una dinamica interiore svolgentesi nel mondo soggettivo, vengono tuttavia idealmente proiettati in una dimensione oggettiva di condivisione che li rende così meglio internamente esperibili e comunicabili all'esterno.
 E forse è proprio la maggiore consapevolezza di questa precarietà costitutiva, di questo vulnus strutturale dell'intero edificio culturale psicoanalitico, che lo rende sostanzialmente diverso dalle scienze ufficiali e che impone ad esso un costante lavorio di assestamento e rifacimento, che tuttavia consente anche la sua costante rigenerazione e la possibilità di continuare a creare nuovi spazi di pensabilità per l'uomo post moderno.