lunedì 30 settembre 2013

Analisi finita ed infinita



Una signora di mezz'età arriva in studio per la prima volta. Piuttosto a disagio, sembra che abbia timore a lasciar trapelare troppo presto il motivo della sua visita dallo psicologo. Ci gira infatti molto intorno, finchè decide di affrontare il toro per le corna e descrive fin nei dettagli una situazione sentimentale rovinosa ed uno stato di salute compromesso da ansie continue e crisi di profonda angoscia. Non manca poi di informarmi che crede di sapere da cosa possa dipendere il suo crollo emotivo attuale e fa riferimento ad alcuni ricordi e vissuti antichi del rapporto coi genitori che avrebbero determinato nella sua psiche una ferita mai rimarginata.
La signora aggiunge quindi che io dovrei aiutarla a fare chiarezza su certi vissuti ed esprime il desiderio, anzi il bisogno che gliene renda al più presto una esplicita spiegazione, così che lei possa finalmente sapere con certezza ciò che l'ha fatta ammalare e guarire dalla sua angosciosa condizione attuale.
Possiamo immaginare che un simile quadretto clinico non sia affatto infrequente nella esperienza di tanti altri colleghi alle prese con simili richieste. Così come accade, anche più spesso, nei casi in cui la richiesta di un trattamento presuppone che il terapeuta 'sappia' fin dall'inizio – per esperienza o per particolari capacità intuitive (se non magari per doti paranormali, in casi particolari) – sulla sola base di informazioni fornitegli dal paziente, cosa ci sia nella sua mente che non va e che deve allora essere 'aggiustato', senza porre tempo in mezzo, ovviamente, poiché il tempo è denaro.
Queste richieste impossibili, che sono oggi quasi la norma, sono avallate da una cultura psicologica sempre più centrata sul benessere e sugli stessi orientamenti della psicologia accademica, sempre più ancella della psichiatria e inquadrata in logiche di derivazione medicalistica (basti pensare alla sempre maggiore influenza di insegnamenti organicistici e di fisiologia dell'apparato mentale, ed alla scarsa o nulla attenzione dedicata invece in sede di formazione universitaria (ma spesso anche dopo) ad uno studio di tipo 'umanistico' in cui dare la dovuta importanza alla mitologia, alla storia delle religioni, alla antropologia comparata, alla storia della filosofia, etc..
Non stupisce quindi che la cultura della medicalizzazione forzata abbia prodotto negli ultimi decenni quei cataloghi della malattia mentale che sono i vari DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 'ovviamente' di importazione Usa), bibbia degli psichiatri organicisti e libro rosso delle industrie farmaceutiche che su tali classificazioni costruiscono i loro enormi guadagni, dove ognuno può scegliersi in anticipo la psicopatologia che gli spetta (magari quella più trendy, che fa tendenza..), così da non perdere tempo a conoscersi un po' meglio e magari capire il senso più profondo di certi sintomi e di certi malesseri di cui soffriamo.
Il risultato, paradossale per una psicologia che si pretende figlia delle scoperte di Freud e Jung, è che l'oggetto stesso dell'indagine, ciò che non sappiamo, quindi in questo caso ciò che per definizione è inconscio, sparisca dalla scena, spodestato da un sedicente 'già saputo', una sorta di a-priori kantiano della conoscenza di sé sorretto sulla dimensione dell'Io onnipotente – atto di fede: 'Credo in un solo (D)Io, Signore del cielo e della terra..', etc etc.. – che in realtà è una modalità di chiusura alla possibilità di una reale scoperta di sé stessi in un orizzonte esteso alla concezione di un proprio Sè (considerato quest'ultimo quale risultante della compresenza di Io e non-Io, cioè parti della mente che non identificano un particolare Io cosciente e non rispondono a logiche chiaramente egoiche, ma ad un progetto più vasto, 'sovraordinato' potremmo dire, di realizzazione della propria personalità).
Ma torniamo al quadretto clinico iniziale ed alla signora in attesa metaforica che le venga rivelato dallo psicologo l'arcano del suo stare male. Qui, oltre ad una impostazione di pensiero per cui il sapere è qualcosa di preordinato, un 'già accaduto' che deve essere tuttalpiù verificato e sancito dal 'tecnico' della psiche, c'è anche il suo esatto contrario, che risponde tuttavia alla stessa logica di fondo: lo psicologo sa a priori ciò che il paziente non sa di se stesso (il mitico 'soggetto supposto sapere' lacaniano), quindi sarebbe necessaria (e sufficiente) una operazione di 'travaso' del sapere dell'uno nel non-sapere dell'altro, affinchè – come per un effetto di vasi comunicanti – si raggiunga un livello adeguato di conoscenza. Si tratterebbe così di un'esperienza in cui il paziente deve essere istruito su se stesso da chi ne sa 'evidentemente' più di lui.
In realtà, l'esperienza analitica tratta di un sapere che, ab initio, i due partners analitici non possiedono ma che nonostante ciò è presente 'in potenza', cioè nell'inconscio dell'uno e dell'altro. E' però fondamentale che si apra un processo di conoscenza reciproco che consenta di mantenere aperta nel tempo questa dimensione conoscitiva senza premature chiusure di senso, senza forzare cioè il senso della scoperta in un sapere definitivo su se stessi, una specie di dogmatico e conclusivo 'Io sono così', scolpito nelle tavole della Legge (il parallelo per contrasto con la religione non è casuale: qui non è questione di fede in ciò che si sa, quanto piuttosto in ciò che 'non si sa ancora' di sapere).
In realtà, è proprio questa continua 'apertura di senso' che incarna la dimensione vitale dell'esperienza analitica, che determina quindi che il relativo sapere sia sempre e solo aperto ad una ulteriore trasformazione di significato. Per cui potremmo definire il paziente come colui che acquisisce progressivamente la capacità di poter attuare una dinamica trasformativa con la propria 'ignoranza' permanendo in un processo di conoscenza virtualmente infinito su se stesso. Per contro l'analista deve garantire che l'interrogazione su di se del paziente non si chiude prematuramente in un sapere 'pret a porter', pre-confezionato (la logica del Dsm di cui sopra..) e mantenere aperta la dimensione di insaturazione e la sua stessa capacità di tollerare l'ansia del non sapere e dell'indefinito, in attesa fiduciosa che l'ignoranza generi conoscenza...
Non è un caso che la parabola di Freud si compia con uno degli ultimi suoi scritti (del 1937, due anni prima della sua morte), dal titolo: Analisi terminabile ed interminabile (la traduzione più corretta dal tedesco sarebbe in realtà Analisi finita ed infinita, che da maggiormente il senso della infinitezza 'strutturale' della esperienza analitica), dove viene ribadita la consapevolezza che il processo analitico operi nel senso di una tensione costante verso l'alterità costitutiva dell'essere e quindi lavori necessariamente contro tutte le certezze dogmatiche e le illusioni prefabbricate dal nostro Io a scopo protettivo e autorassicurante. Se dunque la psicoanalisi non da risposte definitive né certezze assolute, poiché adotta la visuale del nostro inconscio piuttosto che le ristrette logiche del nostro Io, insegna però a saper valorizzare e convivere meglio con i nostri limiti e le nostre incertezze, traendone un elevato potenziale di conoscenza su di sé. Ciò che, in un ottica aperta sul divenire più pienamente se stessi, può essere una scelta di gran lunga preferibile.

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