lunedì 21 maggio 2012

Il simbolo tra presenza e assenza



Non si darà mai troppa importanza, nella psicoanalisi come in tutte le altre discipline che hanno al centro del loro interesse l'uomo ed il suo funzionamento mentale, al potere del simbolo e del simbolico, inteso questo come l'universo di significati che fungono da cornice ad un dato accadimento psichico.
In ambito psicologico potremmo definire il simbolo (dal greco sym-ballein, che sta per legare, collegare, mettere insieme) come il risultato della complessa operazione psichica di attribuzione di un senso ad un dato oggetto (mentale o fisico), in attesa di un significato più pienamente condiviso in termini logico-scientifici e socio-culturali.
Il simbolo si caratterizza allora in questa accezione come uno stato di tensione o di 'gravida' sospensione tra dimensioni psichiche non omogenee, cioè non appartenenti ad una stessa matrice di significato (per esempio la struttura di coscienza) e pertanto tra loro solitamente non rapportabili e di cui una non altrimenti conoscibile, se non per il tramite di quel sottile 'ponte' che la congiunge alla terraferma della ratio logica.
Il simbolo infatti non indica, ma 'allude', non definisce, ma suggerisce, non conclude, ma apre. Esso tende ad una verità 'altra' rispetto alla ferrea concatenazione dei fatti della nostra mente cosciente, e in tal senso promuove una sorta di 'alterità controllata', una immersione o ascensione – a seconda dei punti di vista – in una dimensione presente solo in potenza e che in tal modo, attraverso questo dispiegamento di senso, può essere almeno in parte meglio integrata nel nostro abituale sistema di pensiero.
Se infatti il nostro pensiero razionale utilizza una modalità analitica in cui percezione e cognizione 'frantumano' l'oggetto e ne traggono gli ingredienti di base, per poi riassemblarli eventualmente in nuove configurazioni di significato costruite consensualmente ad un dato codice culturale di appartenenza, quindi una modalità essenzialmente 'dissociativa' che separa e distingue, il pensiero simbolico utilizza invece un codice eminentemente affettivo – potremmo dire un 'pathos' al posto del 'logos' – che unisce, comprende e include l'oggetto in una più ampia esperienza cognitiva ed emotiva insieme, esperienza che non de-finisce in base al già acquisito, ma che istituisce una tensione in grado di stimolare un nuovo campo semantico, in cui possono trovare spazio fertile nuove interpretazioni senza per questo concludere e saturare di senso (il simbolo è di per sé un'oggetto 'insaturo', che vive finchè è attraversato da molteplici significati e muore quando lo si riduce ad un oggetto concreto o ad un concetto definito).
Potremmo dire che ogni nuovo oggetto che si forma nella nostra mente, quindi ogni 'cambiamento mentale' (ed è di questo che, come sappiamo, tratta in particolare la psicoanalisi), risenta delle vicissitudini proprie di un processo di simbolizzazione in cui si ripete – ogni volta con le dovute diversificazioni – una dinamica, una trama o un percorso, che in un tempo antico, anzi ab initio, ha già avuto luogo in noi nel mentre che il nostro universo prendeva forma e dimensione sull'immagine dei nostri 'primi oggetti', cioè le nostre prime figure di riferimento: i nostri genitori...
In 'Al di là del principio di piacere' (1920), S.Freud inserisce la descrizione di una scena del suo quotidiano che, da acuto osservatore qual'era, trasfigura in un esempio 'vivente' di simbolizzazione quale avvenimento centrale per la vita psichica del bambino. E' il famoso episodio del 'rocchetto', in cui il nipotino di un anno e mezzo gioca con un rocchetto di filo, dipanandolo e riavvolgendolo ripetutamente, mentre al contempo pronuncia in successione due distinti fonemi, 'o-o-o' e 'da', che Freud identifica nelle parole tedesche 'fort' e 'da', che stanno per 'via, lontano' e 'qui'. L'attenzione di 'nonno' Freud si concentra soprattutto sulla modalità giocosa ma molto coinvolta in cui il bambino allestisce la sequenza dei gesti e delle parole pronunciate, infine sulla visibile soddisfazione che sembra ricavarne, dopo aver lanciato il rocchetto, in concomitanza della fase di recupero dello stesso attraverso il filo, sottolineata dall'esclamazione 'da'.
L'intuizione freudiana interpreterà la scena come la messa in atto da parte del bambino di un tentativo di padroneggiamento della assenza della madre, che quando non è stata presente percettivamente per il bambino ha fino a quel momento ingenerato in lui un sentimento di perdita, che il gioco 'inventato' dal bambino stesso ha il compito di trasformare in una esperienza meno dolorosa, producendo così in lui una sensazione di potenza soggettiva ed affermazione di sè. In altri termini il bambino sta trasformando un'esperienza di perdita che vive in maniera totalmente passiva in una condizione 'attiva' in cui attraverso l'azione volontaria riesce a simboleggiare la possibilità di un controllo dell'oggetto perduto, che può così far riapparire egli stesso 'a volontà'...
In questa piccola scena domestica – dice Freud – sta avvenendo un'esperienza fondamentale di simbolizzazione che consentirà al bambino, con le sue proprie forze e risorse (nessuno infatti gli ha mai insegnato il gioco, e in ogni caso ovviamente nessuno al suo posto ha caricato quel gioco di una tale significazione) di compiere un salto enorme nel suo sviluppo psicologico, poichè a partire dalla ripetizione di quelle semplici sequenze egli sta in sostanza affrontando e portando a compimento una operazione psichica di incalcolabile importanza, centrale affinchè egli possa affrontare la vita futura che lo attende con una almeno sufficiente capacità di adattamento ed intraprendenza.
Diremmo che l'episodio del rocchetto magistralmente descritto da Freud potrebbe quindi essere identificato quale metafora centrale non solo del processo di simbolizzazione che si dispiega nel bambino a partire dal primo anno e mezzo di vita (l'acquisizione della capacità linguistica è solo il punto di arrivo di un processo ben più complesso dal punto di vista psicologico), bensì del processo evolutivo globale della mente infantile che riesce ad affermare se stessa nel mondo a partire da una condizione di dipendenza totale dalle proprie originarie figure di accudimento.
Ma la stessa metafora potremmo applicarla in realtà anche a ciò che accade nel profondo del processo psicoterapeutico, dove il sintomo nella sua accezione più ampia non è che un 'simbolo' che ha perduto in parte la sua funzione originaria e si è bloccato nel suo potenziale trasformativo: simbolo depotenziato in cui il paziente ha malgrè soi circoscritto, senza peraltro definire né conoscere nella sua essenza, una sua intima sofferenza, un certo male di vivere di cui si fa portatore e che permane come una ferita aperta che non riesce a rimarginare.
Sarà allora la possibilità di ripristinare appieno questa primaria capacità di simbolizzare e di generare ulteriore senso e significati nuovi – e questa volta non più da soli ma con l'aiuto del terapeuta – che potrà far progredire in direzione di una maggiore capacità di dinamicizzare ed integrare contenuti psichici più problematici, consentendo così una migliore comprensione di sé stessi e anche di stabilire relazioni più autentiche e gratificanti. E nel corso della terapia verrà infine un momento in cui il paziente, come il bambino col rocchetto, potrà finalmente affrontare in modo nuovo e creativo le proprie angosce e non sentirsi più disperatamente solo, ma insieme a se stesso e così anche unito agli altri.