Da bambini a scuola ci insegnavano che lo zero era un numero particolare, che aveva poco a che fare con gli altri numeri. Era zero il niente, l'assenza, la mancanza, il vuoto di qualsiasi entità e forma. Nonchè lo spauracchio di tutti gli alunni, quando si rischiava di prenderne quella particolare variante espressione dell'ignoranza suprema (il famigerato 'zero spaccato'). Poi però ci si accorgeva che, unito ad un altro numero, all'uno tanto per cominciare, esso diventava un moltiplicatore straordinario: una caramella con lo zero vicino diventavano 10, 2 addirittura 20, e così via fino a 100, 1000, etc.. La proliferazione degli zero portava in breve ad una vertigine del pensiero, che faceva fatica a stare dietro alla sempre più ardita costruzione matematica ed alla cascata di caramelle che ciò prometteva.
Pare siano stati gli arabi, per primi, ad introdurre in tutta l'area del Mediterraneo lo zero nel corso del XII secolo, dopo averlo rubato agli indiani (lo chiamarono sunya, termine che sta per 'niente' e che rappresentava l'assenza dei numeri) che a loro volta lo presero da chissà dove. Gli arabi lo ribattezzano 'sifr' - l'assonanza con 'cifra' non è affatto casuale - quindi con il matematico pisano Fibonacci (1170-1240) il 'sifr' diventa in latino lo zephirum (un nulla, come uno zefiro, appunto, un soffio di vento) e infine lo zevero nel dialetto veneto.. Già gli arabi intanto pongono attenzione soprattutto all'idea che lo zero ispira: la cifra del nulla. E da qui ad adattarla all'idea di infinito lo spazio è breve. In un primo momento, sembra che gli occidentali non sapessero che farsene dello zero, perchè abituati e rassicurati dalla sovranità dell'Uno fin dal tempo dei greci antichi, che non ne sospettarono mai l'esistenza. La teologia medioevale penserà poi a tenere a bada per qualche secolo ancora l'idea stessa di un Nulla insito nella creazione, presa com'è dalla preoccupazione (vero e proprio horror vacui) di scacciare dalla vista dei fedeli quel nulla informe in cui si anniderebbe il germe stesso del Male in quanto negazione della divinità.
Che c'entra – si starà chiedendo qualcuno – questa digressione sullo zero con un articolo che si vuole, almeno nelle intenzioni, di natura psicologica, addirittura psicoanalitica? C'entra, c'entra...Potremmo anzi affermare che la psicoanalisi stessa si fonda sullo zero, in quanto processo che si attiva quale momento zero, cioè iniziale della conoscenza di sé, o anche come azzeramento del presunto sapere su se stessi in un'opera di destrutturazione che mira a creare varchi e spazi di nuova pensabilità tra le maglie della ripetizione, dell'abitudine, della teoria (intesa quest'ultima come sistematizzazione del pensiero secondo una visione coerente e consequenziale dell'esperienza). Così come nella meditazione, nelle varie sue forme, è necessario raggiungere una condizione interna che trascenda il continuo 'brusio del mondo' e interrompa quindi quell' atteggiamento mentale che noi uomini moderni identifichiamo con il nostro Io, con i suoi pensieri ricorrenti, ricordi, desideri, etc.., parimenti nella seduta psicoanalitica la cosiddetta 'attenzione fluttuante' dei partners analitici è uno svuotamento della mente dai suoi contenuti per recuperare la dimensione del presente, del qui ed ora in cui si sviluppa la relazione con l'altro. Passato e futuro, nelle loro declinazioni in termini di ricordi e desideri, vengono così messi in secondo piano rispetto all'adesso, ma per realizzare questo passaggio occorre far emergere la 'dimensione zero' della mente, cioè poterne tollerare la mancanza temporanea di forma e di cornice, come il vuoto di contenuti e di riferimenti abituali.
W.R.Bion (1897-1979), psicoanalista inglese, ha detto parole importanti su questo tema così centrale per la pratica analitica: nessuna memoria nè desiderio – egli dice – devono intralciare l'attenzione sul presente, sul farsi della relazione, poiché l'unica cosa importante in ogni seduta è l’ignoto e dal buio e dall’informe evolve qualcosa. Così, mentre ci aspetteremmo che il lavoro terapeutico debba essere necessariamente fondato su un atteggiamento esclusivamente iper-razionale e 'scientifico' – nel senso della sua assoluta aderenza ai canoni classici della scienza, la cui immagine caricaturale potrebbe essere quella dell'investigatore in mantellina che con la lente indaga in cerca di tracce del delitto – scopriamo invece la necessità di un altro 'sguardo' intuitivo e immediato che,come in una visione bi-oculare, compensa e mette a fuoco il primo. Quest'ultimo è appunto uno sguardo che ha a che fare col vuoto e con l'assenza piuttosto che con le nitide costruzioni intellettuali, uno sguardo in tralice che tollera la mancanza di luce e le ombre e che anzi dimora sempre al confine tra l'incerto e il sospeso, che regge il confronto con la continua trasformazione dell'attimo presente e che pertanto 'non chiude' la realtà ingabbiandola in un concetto, in una parola, in un desiderio o un ricordo definiti, ma la lascia 'aperta' e libera di fluire e modificarsi ulteriormente, senza darle al momento quindi necessariamente una forma definita e conclusiva.
Se volessimo individuare una virtù assolutamente necessaria affinchè tutto ciò possa avvenire parleremmo di 'pazienza'; chi è sufficientemente paziente può lasciare che le cose intorno a sé rimangano in una indefinitezza e prendano corpo solo un po' alla volta. Si tratta dunque di tollerare l'indistinto e l'informe, o il non senso, ed attendere finchè la percezione mentale giunga a maturazione e ci permetta di vedere più limpidamente, e questo richiede un suo tempo. E' in sostanza quanto il poeta inglese romantico John Keats scriveva a proposito della 'capacità negativa' come della possibiltà di sostare nell'incertezza e nel dubbio astenendosi dal cercare nell'immediato ragioni e cause. Una tale capacità in negativo (perchè appunto non si deve fare alcunchè, ma 'solo' attendere fiduciosi) coincide con una sospensione temporanea del nostro bagaglio esperienziale (ricordi, schemi, concetti, desideri) così da azzerare il campo mentale da stimoli e oggetti che distraggono solitamente la nostra attenzione cosciente.
Ciò che si apre dinanzi alla mente allora è una terra ignota, una dimensione zero dell'esperienza in cui tutto ciò che accade è come se accadesse per la prima volta e la percezione non viene convogliata, come accade di solito, in schemi mentali prestabiliti e consolidati nel tempo, ma viene esplorata e vissuta in modo nuovo e perciò trasformativo, poiché possono emergere elementi e particolari che altrimenti non avremmo mai potuto scorgere con il nostro solito modo di vedere. In questa apertura al momento presente quale porta di accesso all'eterno fluire temporale la psicoanalisi si scopre 'mistica', e produce quelle stesse esperienze che alimentano la creazione artistica e il discorso poetico, fino alla esperienza del sacro ed alla fede.
Chi avrebbe mai detto che in uno zero potesse starci dentro tutto questo?