mercoledì 12 novembre 2008

Melius Abundare ...?

Ospitiamo in questo spazio il contributo dell'amico e collega A. Carusi, che in questa ironica e spassosa provocazione ci presenta un personaggio 'scomodo', solitamente occultato tra i recessi della stanza di analisi...

Melius Abundare...
ovverosia :
“Far lavorare 'il deficiente': una riflessione”
di Antonello Carusi

C’e un “deficiente” nel terapeuta (1). E’ in azione costantemente. Rappresenta o no una minaccia alle capacità di comprensione e di relazione necessarie per lo svolgimento del lavoro psicologico? Si manifesta attraverso i vuoti di attenzione e di memoria, con la distrazione, l’assenza di empatia e la noia suscitata dalla presenza e dalle comunicazioni del paziente. Che fare del 'deficiente'? E’ pensabile il poterlo neutralizzare per ridurre al minimo eventuali effetti nocivi del suo operato? Se sì, attraverso quali strategie, tecniche o contromisure? E inoltre: qual’è il peso, l’incidenza del suo operato sulla riuscita del lavoro clinico? Questi interrogativi animano la presente riflessione, e ad essa offrono lo spunto per avviare un’indagine il cui obbiettivo sia di portare in luce, se possibile, il “senso” dell’azione di disturbo esercitata dal deficiente - qualora essa ne abbia uno.

Freud raccomandava ai terapeuti l’assunzione di uno stato mentale che definiva concisamente col termine di attenzione fluttuante. A ben vedere, l’attenzione fluttuante è affine alla condizione che caratterizza il deficiente nel terapeuta. Forse Freud ha concepito l’attenzione fluttuante quale strumento elettivo per l’accesso all’inconscio nel tentativo di dare una collocazione, un posto, una legittimazione al 'deficiente'. Effettivamente, quando un essere umano si dispone nella condizione di prestare attenzione e ascolto allo scopo di recare aiuto al suo interlocutore attraverso la comprensione delle sue comunicazioni verbali, il deficiente è fuori gioco, estromesso, forse represso; in un certo senso “rimosso”.
Ma che tipo di comprensione scaturisce da tale tipo di attenzione? 'Il deficiente' non è interessato a comprendere? Anzi… il contrario. 'Il deficiente' non si lascia incantare dalle parole; è come un animale. Sembra piuttosto vivere di una percezione atmosferica, umorale, non intellettiva. Vorrei che questo scritto fosse un’espressione quanto più possibile diretta del 'deficiente' che è in me, che sue fossero le parole. Dunque, parola 'al deficiente'.

La psicoterapia è un lavoro dalle infinite sfaccettature. E’ un lavoro…Già, direi proprio di sì.'Il deficiente'torna spesso sui suoi passi, ama rimirarsi in ogni sua manifestazione, sembra che cerchi uno specchio che ne rifletta il volto, i lineamenti. Pertanto la sua scrittura – come ogni altra sua forma di espressione - è lenta, rimuginante, reiterante, autoriflessiva, e -apparentemente - priva di scopo e frammentaria.) Se 'il deficiente' è veramente considerato tale è difficile che venga allo scoperto. Come la “Natura” di Eraclito, di esso si potrebbe dire che “ama nascondersi”. Forse per questo è il mestiere dello psicoterapeuta che meglio di ogni altro gli si addice. Per attivarsi ha bisogno di un interlocutore, un “altro da sé “, un’eco deficiente che risuoni nella stanza di terapia, soprattutto quando paziente e terapeuta non sono più presenti sulla scena.

Credo che sia il deficiente il vero artefice della tecnica psicoterapeutica di ispirazione analitica. La “libera associazione”, l’ “attenzione fluttuante”, la passione per la scomposizione e l’analisi dei sogni, l’ “interpretazione”, sono farina del suo sacco. Tutto questo ci riporta all’origine, ai primordi dell’esperienza psicoanalitica e umana. Sembra che il deficiente sia perennemente impegnato nel compito di coniugare “piacere” e “dovere”; con le parole di Freud: “amore” e “lavoro”. Ma, soprattutto, non ama correzioni. I problemi legati all’insofferenza della disciplina, l’ipersensibiltà al giudizio, lo spirito di ribellione alle regole, riflettono l’attitudine del deficiente a sottrarsi ad ogni forma di controllo esterno. Non si attiene ai canovacci del senso comune, ma segue altre piste, altre traiettorie. Forse altre regole.

E’ difficile collocare da qualche parte, in un sistema definito di pensiero, l’attività creativa.Per definizione “creativo” è ciò che forza i limiti del conosciuto, del già noto… Agli albori il nuovo appare sempre come un aspetto eversivo o inadeguato, forse carente o abnorme o, appunto, deficitario. Alle spalle occhieggia l’idea di “norma”: lettera morta, in senso fenomenologico. Chi vuole essere “intelligente”, o meglio considerato tale dagli altri, aborre il “deficiente”, che ai suoi occhi rappresenta una vera minaccia. Così le cose vanno al rovescio di quel che sembrano all’apparenza. Che sia in ciò la radice di quel capovolgimento di senso che la psicoanalisi applica alle espressioni deficitarie dell’esistenza umana? Forse per questo la “patologia” è il dominio indiscusso del deficiente. “Vita che ama nascondersi”, la si potrebbe definire, parafrasando ancora il vecchio Eraclito. Vita che quando è còlta, definita, oggettivata e legittimata, appartiene ormai al museo delle reminiscenze, al dominio del ricordo.

Non si va dallo psicoterapeuta se non si è impegnati in un’aspra lotta col deficiente. Ci tiene in basso, ci ostacola, ostruisce la comprensione, generà nausea di sé, disistima, o al contrario – un senso di autoesaltazione che ai colpi di mannaia del biasimo altrui reagisce con la rabbia, la depressione, il disprezzo o l’indifferenza. Ciò che è semplice ed elementare attira irresistibilmente, e questo spiega lo strapotere del deficiente. Quella “patologia della forza” che ne definisce il carattere diventa un bastione, e fa di esso una cittadella medioevale inespugnabile che non si lascia sottomettere all’avanzata del progresso metropolitano dell’io, in ogni sua forma di espressione. La “regressione”, sembra essere l’obbiettivo del deficiente. Tuttavia l’intelligente potrà accoglierla solo dopo averla specificata nei termini di un “servizio” che il deficiente dovrebbe rendere all’io, colla buona pace di tutti e un sorriso di benevola condiscendenza stampato sulla faccia del terapeuta.

Coll’avanzare degli anni - e del cancro alla mascella – Freud s’è fatto più cupo e pessimista, forse perché doveva progressivamente rendersi conto dell’impossibilità del compito che l’intelligente,col quale amava identificarsi, s’era posto. “Bonificare”, “prosciugare”, “normalizzare”… il deficiente. La sua “pulsione di morte”, vista da quest’angolatura, sembra essere la messa a morte del deficiente stesso, rivelatosi intrattabile. La rabbia assassina del buon padre che non sopporta più il figlio handicappato, la vergogna della famiglia…
E la chiave pass-partout che generazioni di psicoanalisti si ritroveranno tra le mani quando il clima dentro la stanza di terapia si fa troppo rovente, e l’intelligente non riesce più a dare un senso all’esperienza che sia conforme alla sua visione delle cose.

'Il deficiente' non si lascia incantare. E’ recalcitrante all’ipnosi, non sviluppa “transfert”… E’ desolatamente e irrimediabilmente isolato. E’ la risposta coerente alle manovre seduttive dell’intelligente ragionevole e disciplinato, l’ ”adulto”, contrapposto al “bambino perverso polimorfo”, altro storico epiteto psicoanalitico del 'deficiente'. Se le cose stanno così è un dato obiettivo che l’anima del processo psicoterapeutico sia 'il deficiente' stesso. Un dato destinato pertanto a restare occulto, ovvero “inconscio”, allo sguardo indagatore dell’ intelligente.

Qui concludo questa breve riflessione, non ignorando tuttavia che
“…manca ancora una adeguata concettualizzazione 'del deficiente'…”


1Si voglia benignamente prendere in considerazione la derivazione latina del termine 'deficiens' quale part. passato di 'deficere' ('mancare').