lunedì 29 dicembre 2014

Le parole originarie


Accade talvolta che una parola, un suono, un odore particolari rievochino alla nostra mente tutto un mondo passato, racchiuso in una piega della memoria in cui sembra essere stato fino a quel momento occultato e protetto da sguardi indiscreti, in una sorta di ovattato oblio. E' il caso di quella celeberrima opera letteraria, al confine tra ricordo vissuto e creazione artistica, che è 'A la recerche du temps perdu' di Marcel Proust, dove tutto inizia con l'immersione di una madeleine nel tè. Il fiume dei ricordi infantili riprende vita e si impossessa della memoria del protagonista in un percorso a ritroso nel tempo, dove persone antiche e lontane riprendono anch'esse vita, come fantasmi reincarnati e il passato torna a scorrere nuovamente sotto i nostri occhi come un presente perenne e turbinante di volti, figure, luoghi, cose, mai conchiuso nonostante il suo essere già avvenuto.
Se potessimo andare assai indietro con la nostra memoria, agli esordi della nostra esperienza di vita di bimbetti curiosi e capricciosi, potremmo forse ricordare un ristrettissimo vocabolario fatto perlopiù di parole-frasi che definivano un intero mondo di significazioni, designazioni e allusioni, una primitiva mappa lessicale-mentale che si andava formando giorno dopo giorno intrecciando parole o frammenti di esse a immagini, suoni a colori, odori a emozioni, nel primo abbozzo di una nascente personalità. Dov'è finita oggi quella nostra lingua originaria, quell'allora informe catalogo di emozioni e affetti collegati a persone e oggetti concreti, quel primitivo inventario di elementi fondanti la dimensione allora conosciuta del nostro microcosmo appena sbocciato da un'apparente nulla? E quanto in realtà era esteso quel selvatico territorio protolessicale, che ora ci appare nel ricordo solo come un isterilito, minuscolo orticello abbandonato?
Stiamo parlando del nostro primo linguaggio, della nostra prima forma di comunicazione con l'altro, quell'idioma personale che ci ha caratterizzati come tale o tal altro bambino, l'uno magari verbalmente precoce e loquace, l'altro meno loquace ma più assertivo, l'altro ancora più silenzioso e sfuggente, ma comunque dotati tutti di un proprio, privatissimo lessico minimo che rappresentava il primo aggancio ad una realtà simbolica condivisa, dopo l'interazione visuo-corporea e prossemica dell'abbraccio confusivo materno. La lingua originaria di ciascuno di noi è in realtà un idioma materno, una lingua-dialetto (un 'idioletto', recita il vocabolario) mediata col nostro primo genitore, memoria verbale-affettiva che si inscrive e confonde nella carne stessa della pulsione, sottoposta però formalmente alla legge paterna del Logos, da cui trae in seguito le sue multiformi espressioni e differenziazioni strutturanti.
Ma in tale iniziale commistione di generi si pone un problema di 'traduzione', dovendosi la parola trasferire da un registro ad un altro, da un piano di senso ad un altro, per inseguire la vertigine della parola definitiva, unica ed esatta, o l'illusione del dicibile. Ognuno di noi ha infatti 'tradito' quella prima lingua antica per poter nascere alla condivisione di senso e dei significati con l'altro, per approdare al discorso simbolico e normativo proprio della lingua dei padri, fatto di e per differenze, distinzioni, astrazioni, teorizzazioni, fatto cioè per governare e inquadrare l'ingovernabile vita e il caos che la sostiene. Non sono, allora, solo semplici riflessioni a margine del discorso su scrittura e narrazione la radicale affemazione di Proust secondo cui "parlare è mentire " e l'asserzione kafkiana che recita "O si è o si racconta se stessi". La letteratura, all'interno del processo di costruzione e produzione di senso, pur sempre ci ricorda come tra la parola (il testo) e il fatto (la realtà) intercorra sempre una cesura, un inevitabile scarto che produce una traduzione, come anche un tradimento, che si consuma attraverso la funzione psichica più propriamente umana della rappresentazione e conduce in ultima istanza alle narrazioni e alle finzioni letterarie; qualsiasi modalità comunicativa, diremmo, comporta una operazione di falsificazione del 'dato' originario.
Lo statuto speciale della poesia al'interno della letteratura si fonda invece proprio su una diversa accezione della parola; la parola-chiusa del testo letterario si fa parola-aperta della poesia ed essa si fa portavoce proprio di quelle istanze racchiuse originariamente nel segno scritto e parlato, votata com'è alla rievocazione ineffabile di quel mondo liquido-sommerso che ci parla ancora il linguaggio della nostra origine. E qui la psicoanalisi, nella sua doppia funzione ricostruttiva e maieutica, si pone sia come strumento trasformativo di questa differenziazione e decodificazione che passa attraverso un'operazione di attribuzione di senso condiviso alle proprie storie e narrazioni (almeno - quale condizione minimale sufficiente - tra i due diretti partecipanti al rito analitico), come anche di rievocazione e consacrazione lirica di quelle parti sentite come più vere ed autentiche di sè stessi e raggiungibili (semmai) solo in condizioni cosiddette 'ispirate'. Il compito analitico diventa quindi quello, semplice e immenso, di ricongiungere il dicibile al sensibile, il paterno al materno, custodendo al contempo e proteggendo quel primo linguaggio inenarrabile da cui tuttavia prendono forma e vita tutte le nostre parole di oggi.

martedì 23 settembre 2014

Quel che resta del giorno



..Ricordate? Il titolo è la fedele traduzione italiana di quel bel film del 1993 diretto da James Ivory e tratto dal romanzo omonimo di Kazuo Ishiguro (The Remains of the Day), in cui l'irreprensibile Stevens si concede la prima settimana di libertà della sua lunga carriera di maggiordomo e ciò diventa occasione per ripensare la propria vita, spesa nell'adempimento di un unico ideale: quello di rispettare una certa tradizione – riflesso di una specifica forma mentis, religiosamente votata alla cura e al benessere del proprio amato 'signore' – e di difenderla oltre il buon senso e la ragionevolezza e, soprattutto, oltre il proprio sentire e desiderare.
Ma il viaggio in automobile verso la Cornovaglia, dove vive ormai da tempo la sua donna del destino (chiaramente 'sacrificata' all'inflessibile durezza del suo 'senso del dovere'), lo costringe a rivedere il suo passato. Così, tra nostalgia, reminiscenze e mai risolti dubbi egli si accorge di aver vissuto un'intera esistenza senza mai riuscire ad essere veramente se stesso, così come non si possa cambiare improvvisamente vita e ricominciare daccapo.
Il preambolo narrativo, con l'evocato scenario vittoriano – espressione di un formalismo esasperato al servizio della continuità delle cose nel solco della tradizione e dell'apparire (di un mero 'dover essere' e, in sostanza, di un 'non vissuto' in prima persona) – ci è utile per introdurre una riflessione sul senso dell'esperienza umana, inteso non in termini metafisici, ma proprio come 'ciò che dà senso alle cose', in un quotidiano andirivieni tra l'abitudine, il già pensato, il prestabilito, e l'insolito o l'inusuale, il nuovo e, semmai, la rivelazione.
Sappiamo come il tempo sposti in modo impietoso questo equilibrio sempre più a favore dei primi, come il semplice fatto di 'crescere' sia anzi la risultante della costruzione di un assetto mentale sempre più centrato all'interno di una gamma di variabilità, come infine la vecchiaia non sia altro che l'adagiarsi per inerzia nell'abitudine rassicurante di certi ripetitivi schemi mentali.
Diremmo, quindi, che la possibilità di mantenere aperto un sistema che di per sé tende invariabilmente a chiudersi su se stesso è data dal sottile equilibrio che si instaura tra la nostra vita emotiva (in breve, il nostro desiderio), che potremmo definire unica e atemporale, e quella che fa capo ad un'immagine di sé più rispondente alle logiche 'formali e temporali' del sistema sociale in cui siamo immersi fin dalla nascita (anzi, andando anche oltre, Lacan ci ha parlato della preesistenza di un tessuto linguistico che ci precede, e che inevitabilmente ci con-forma nel momento stesso in cui ci mette in relazione con l'Altro).
Se “solo ciò che non è del tempo rimane nel tempo” (temporalità che qui potremmo declinare anche nel senso spaziale di 'mondo') – come annotava da qualche parte (1) Jorge L.Borges, che delle perenni trasformazioni temporali delle fragilità umane fece ampio fondale a tante delle sue opere – dovremmo concludere che le esperienze ultime della vita umana, quelle che articolano il suo 'senso', cioè l'essenza stessa della sua soggettivazione in quanto individuo storico, siano la risultante di un'operazione di sottrazione di qualcosa rispetto allo scorrere uniforme e monotono dell'eterno quotidiano, un trarre a parte un resto dalla corrente delle ore, dei giorni, dei mesi, degli anni. Il 'resto del giorno', allora, sarebbe l'emozione che resiste e si sottrae all'azione smussante del tempo, e che si fa apportatrice di quel 'senso' intorno al quale gravita, tra lampi di luce e distese di ombre, la nostra vita interiore; particola non ulteriormente deperibile nè degradabile, traccia pur sempre vivente di una presenza – allora incarnata e pulsante – che supera, spogliandosi della sua natura corruttibile, le leggi del tempo, portandosene 'al di là' e permanendo fluttuando in esso ma pure da esso distinto.
Nello scritto L'interpetazione dei sogni (Die Traumdeutung, 1899), Freud parla del fatto che qualsiasi interpretazione analitica del materiale onirico lascerà sempre un margine di insondabilità, una realtà ultima e in sé indefinibile, che resisterà ad ogni tentativo di ulteriore comprensione: è l'ombelico del sogno – egli usa proprio questo termine – che costituisce una sorta di connaturata intraducibilità dell'elemento onirico in una declinazione univoca e definitiva. Ma da Costruzioni in analisi (Konstruktionen in der Analyse, 1937) in poi, liberatasi dall'esigenza originale di una traduzione puntuale del materiale nel senso di uno stretto simbolismo su base pulsionale, la stessa interpretazione analitica nel suo complesso diviene la cifra di una operazione di metaforizzazione permanente del testo soggettivo, schiudendosi ad un nuovo orizzonte epistemico.
La 'transitorietà', diremmo, dell'atto interpretativo, è ciò che rende unica la psicoanalisi rispetto alle altre discipline del sapere, in quanto pone come condizione necessaria il fatto che qualunque nostro desiderio o pulsione, qualsiasi intenzione o progetto, non può mai essere tutto 'qui ed ora'. L'apertura costante del sistema, la sua transitività, è in questo caso il prerequisito indispensabile affinchè il processo analitico abbia luogo e la 'catena associativa' con le sue trasformazioni metonimiche metta in moto il transfert, osservabile nella cornice della seduta.
Anche qui, dunque, ciò che si sottrae all'atto interpretativo – come l'emozione residuale e non elaborabile che sopravvive allo scorrere temporale – viene a costituire una dimensione fluttuante, aperta e potenzialmente saturabile di volta in volta, mai però in modo stabile e conclusivo, che rilancia l'interazione co-interpretativa della coppia analitica alla ricerca del 'senso' di sé e delle cose e consente così una continua riorganizzazione del testo e dello stesso ricordo.
E questo 'senso' precario e instabile, questa emozione primaria e residuale, questo ombelico irragiungibile della nostra vita onirica è purtuttavia ciò che ci rende unici e che realmente ci soggettivizza: esso è il Soggetto stesso al di là delle interminabili trasformazioni e modulazioni identitarie del nostro Io. E la parola, prerogativa umana o semplice vezzo evolutivo, nel nominare instancabilmente le cose del mondo si incarica di rendercene testimonianza, scoprendo e ricoprendo, indicando e alludendo, ma mai cogliendo nel centro del bersaglio, poiché esso non ha corpo e fluttua nell'aria.
Siamo una assenza, o meglio una mancanza, anche se ci conforta credere sia solo una latitanza.





1 - Mi si perdoni l'indolenza della imprecisione, ma seppure la memoria mi assista ancora a sufficienza non riesco proprio a ricordare dove ho letto questa frase del grande scrittore e poeta argentino. Credetemi, dunque, sulla parola...

venerdì 30 maggio 2014

Del desiderio



Anche l'etimo è affascinante. Viene da de-sidera, latino, che in una accezione un po' rigida sembra alludere alla mancanza (de-) delle stelle, o alla lontananza dell'oggetto cui si tende lo sguardo; oppure (individuando stavolta il de- quale complemento di luogo) potremmo dire che l'oggetto del desiderio 'viene dalle' stelle. Altre interpretazioni, meno poetiche, lo riducono a de-sum, sono mancante, sono privo. Abbiamo comunque a che fare con un qualcosa che manca, con una distanza che si para tra noi e la cosa.
Che il desiderio fosse però qualcosa di particolarmente difficile da sistemare nella propria economia mentale l''uomo sembra averlo avvertito da subito. Già le antichissime filosofie indiane – a partire dal Rig Veda (composto in un arco temporale tra il 2000 e il 1000 a.C.) e attraverso le successive Upanishad fino alla Bahagavad Gita – assegnano al desiderio il ruolo di sorgente della creazione, la forza primigenia che mobilita l'universo: “.. il primo seme e germe della mente (Rg Veda 10,129,4). Ciò che tuttavia non impedisce a Krishna di avvertire con queste parole Arjuna nel Bahagavad Gita: “La saggezza è offuscata dal desiderio, l'onnipresente nemico del saggio. Sii un guerriero ed uccidi il desiderio, il potente nemico dell'anima”. Sappiamo come la tradizione religiosa induista e in generale la mistica orientale si siano sempre impegnate a rimuovere il desiderio per consentire l'ascesa spirituale dell'individuo. La stessa pratica buddista si fonda sull'ideale di separazione del temporale e contingente dall'eterno e immutabile, del Samsara dal Nirvana, introducendo un'etica di distacco dalle 'apparenze' del mondo che in sostanza prevede la graduale riduzione fino all'estinzione più o meno completa del desiderio.
Tornando in Occidente, cioè ad un modo di pensare 'per linee rette' rispetto alla circolarità spiraliforme del pensiero orientale, da Platone ad Hegel passando per il Cristianesimo il desiderio è stato invece inserito in un meccanismo di progressivo raffinamento di natura idealizzante: esso doveva essere bonificato dalle componenti violente, educato al bello ed incline ad una certa idea di moralità.
Oggi desiderare, però - nel senso tradizionale del termine, cioè il sentimento identificato con una certa sospensione dell'appropriazione di ciò che manca - non sembra essere più tanto di moda. Sarà perchè la realtà odierna ci satura di desideri preconfezionati che ci confondono, che ci sviano rispetto ad un più autentico sentire noi stessi. I gadgets che popolano il nostro quotidiano sono così invasivi che riempiono ogni momento utile di silenzio, in cui potremmo forse ascoltare qualcosa che ci appartiene, o che ci manca. Avendo invece ormai conformato il proprio desiderio ed il successivo godimento alle offerte di mercato, e non andando troppo al di là di esso, abbiamo prodotto intorno a noi un deserto di rapporti, ma carico di cose assolutamente superflue. La metafora del pattume che si accumula in ogni angolo del pianeta è purtroppo assai centrale e fa da sfondo alle nostre vite moderne. Dovremmo pensare che anche la nostra mente sia diventata sempre più qualcosa di simile ad un cestino dei rifiuti che trabocca di tutto quanto una certa 'cultura' mediatica ci pressa ad assorbire passivamente. In particolare potremmo dire, sub specie sociologica, che oggi il mercato del desiderio è utilizzato dalle logiche consumistiche per offrire l'illusione di una personalità distinta in una società colloidale, massificata e conformista. Non sarebbe erroneo quindi ipotizzare che una tale deviazione e falsificazione del desiderio potrebbero essere all'origine della comparsa e del costante aumento delle problematiche psicologiche e psichiatriche relative all'identità soggettiva, soprattutto tra le giovani generazioni.
Desiderare è invece andare alla ricerca di quel nucleo profondo che ha a che fare con la nostra più intima natura. E pertanto vitale (o 'mortale', anche, a seconda dei casi..), come quella dimensione desiderante che il bambino piccolo prova alla prima separazione dalla madre, quando la sensazione di un vuoto, di una mancanza, si origina e prende forma.
Bisognerebbe introdurre ora qui, per orientarci nella visuale psicoanalitica - che è cosa diversa da quella medica o anche psicoterapeutica - una distinzione importante, quella che fa Lacan (1966) quando differenzia il desiderio dal 'bisogno' e dalla 'domanda'. In breve, se il bisogno è la conseguenza di una pulsione e tende a soddisfarsi con un oggetto specifico (si pensi all'oggetto sessuale), e la domanda si rivolge ad un altro e necessita di un suo riconoscimento ed approvazione, il desiderio appare slegato da tale riferimento; esso non tiene conto dell'altro, abita uno spazio privato ma ubiquitario ed illimitato ed affonda le radici nell'inconscio, da cui trae energia. Soprattutto, il desiderio – a differenza del bisogno e della domanda – non si 'soddisfa'. Mai.
Il suo statuto è infatti relativo ad una condizione strutturale, più che ad un processo: quella del soggetto parlante, dell'essere umano che abita il linguaggio, che anzi lo 'subisce' essendovi introdotto fin dalla nascita, come sappiamo, ai fini della socializzazione. E' nel linguaggio, nell'uso comunicativo della lingua, che il desiderio deve inserirsi, fin dall'inizio, per potersi esprimere. Fin da quella ricordata prima mancanza, dalla prima separazione traumatica del bambino dall'universo materno, il linguaggio sigilla in un significante, cioè simbolizza, quella particolare dimensione dell'esperienza soggettiva rendendola perenne e rinnovabile in quanto costitutivamente insatura (ed insaturabile, pena la 'morte del desiderio'..).
Riconoscere il proprio desiderio passando per l'inconscio; questa potrebbe essere una verosimile chiave di lettura della psicoanalisi. Ed anche ciò che segna un confine con tutte le pratiche del 'benessere', termine oggi assai in voga che si presta ad ogni sorta di operazione pseudo-psico-terapeutica, un pacchetto igienico-mentale pronto all'uso, come le pillole per gli attacchi d'ansia o per la pressione alta.
Potremmo dire che il desiderio sta alla psicoanalisi come il 'benessere', soggettivamente percepito o presunto, sta alla psicoterapia di stampo 'medicalistico'. Se ne potrebbe dedurre che una sorta di collusione col 'malessere' debba associarsi alla dimensione della psicoanalisi (che in effetti reca con sé una visione di fondo affatto lusinghiera dell'essere umano né consolatoria dell'esistenza umana). Ma qui il punto è un altro e attiene piuttosto al posto assegnato al desiderio quale 'sintomo' o quale dimensione onirica o 'fantasma', cioè al ruolo che esso svolge ai fini adattativi e dell'inserimento del soggetto nella struttura di significazione rappresentata dal legame sociale e mediata dal linguaggio. Che poi la psicoanalisi sia vocazionalmente e necessariamente aderente al linguaggio 'malato' del sintomo è il portato stesso degli sviluppi della teoria freudiana sull'inconscio, che parte come sappiamo dai deliri delle isteriche. Se Freud avesse praticato con loro una delle tante terapie incentrate sul 'benessere', già molto in voga anche allora, nel precedente fin de siecle, non avremmo mai dato la parola all'inconscio, ma soltanto al difensore della morale pubblica e/o privata per eccellenza che è il nostro SuperIo: 'devi' essere, 'devi' vivere, 'devi' credere, 'devi' amare, etc etc..
Il soggetto della psicoanalisi quindi è un soggetto tragico poiché è il discorso del soggetto che soffre, ed il suo sapere è legato alla sofferenza. Il sintomo, espressione di tale sofferenza, non viene qui soppresso e rispedito al mittente (l'inconscio, ovviamente), o bonificato dalle sue negatività o liquidato farmacologicamente, bensì accolto in quanto elemento cruciale nel riconoscimento del desiderio in cui si radica, che tuttavia è sempre il 'simulacro' di qualcos'altro, un 'significante' (ancora Lacan) che 'sta al posto di ...'. Ed è proprio in questo continuo slittamento che si verifica nel tempo un graduale avvicinamento al luogo originario del desiderio, cioè alla propria individualità, parallelamente alla graduale separazione da quelle istanze costrittive che impongono una aderenza acritica ad un modello di sé assorbito con il latte materno, così che il soggetto possa ora elaborare il proprio modo di desiderare.
Il sapere con cui la psicanalisi ha a che fare è dunque quello del soggetto che soffre e non il sapere dell'esperto che inserisce quest'ultimo nel casellario diagnostico dopo avergli elargito una definizione in varia misura patologizzante che lo sigilla in se stesso. Ciò che equivale a sigillare, insieme al sintomo, anche il desiderio che lo informa.
Si può altrimenti giungere ad assumersi una piena responsabilità del proprio essere desiderante, nonostante esso non ci appartenga del tutto, se adottiamo una visuale conoscitiva per cui il soggetto psicoanalitico 'sa' (inconsciamente) – cioè conosce la sua sofferenza – pur non assumendosi il suo sapere (inconscio) se non a piccole dosi, passo dopo passo, seduta dopo seduta, lavorando cioè sulla propria ignoranza(1). La psicoanalisi, in definitiva, ci ribadisce che il desiderio sorge da una “mancanza ad essere”, da una distanza tra sé e sé che non può essere suturata se non illusoriamente attraverso le continue metonimie del nostro essere pensante e parlante. Che quindi non c'è salvezza rispetto ad una originaria scissione interna che ripropone continuamente la contrapposizione Io-Altro in termini variamente declinati (gioia, amore, passione, odio, gelosia, invidia, etc..) e la cui unica 'cura' consiste nella sua maggiore o minore presa di coscienza, così da ridurne gli effetti confusivi e distorcenti sul nostro percepire noi stessi e gli altri.
Ma, dunque, qual'è in questo caso il ruolo dell'analista, se non è più quello, tanto atteso da tutti, di rendere edotto l'analizzante su se stesso fornendogli teorie esplicative ad hoc, di riconoscergli lo statuto di malato (cum psychiatrica benedictione), di esortarlo al cambiamento col metodo del bastone e della carota (se fai il bravo paziente diventerai grande, saggio e bravo come il tuo analista), quindi di 'guarirlo' finalmente dai suoi sintomi 'infantili' che si ostinano (ma guarda un po'!) a rimanergli attaccati addosso..? Poichè il soggetto, come abbiamo detto, 'sa' (a modo suo, cioè inconsciamente) di se stesso e delle inarrestabili trasformazioni del proprio desiderio, l’analista dal canto suo dovrebbe facilitare il pieno funzionamento del processo di avvicinamento alla dimensione desiderante affinchè il soggetto riconosca e si appropri di quel nucleo germinativo, della propria mancanza costitutiva, anche ripercorrendo a ritroso il cammino e individuando le innumerevoli figure in cui il suo desiderio si è di volta in volta incarnato. Occorre in altri termini garantire la persistenza dell'interrogazione su se stessi e al contempo quella della sostanziale indicibilità del desiderio e del suo oggetto originario, poiché solo permettendo che il desiderio rimanga insaturo – cioè non occludendolo con risposte conclusive e definitive, che vi apporrebbero una sorta di pietra tombale (hic iacet desiderium ) – è possibile al contempo distanziarsi con consapevolezza dalle sue infinite variazioni metonimiche e mantenere tuttavia la relazione, vitale per la mente, con la sua sorgente inesauribile.

1 - Ovviamente da intendere qui nel senso di ciò che si ignora, che non si conosce (ancora) di sè.

giovedì 20 febbraio 2014

Ubi sunt


“Non molto tempo fa feci d'estate una passeggiata in una ridente campagna insieme ad un amico taciturno e ad un giovane ma già famoso poeta. Il poeta ammirava la bellezza del paesaggio ma non ne provava alcuna gioia. Era turbato dal pensiero che tutta quella bellezza fosse destinata fatalmente all'estinzione, che sarebbe svanita col sopraggiungere dell'inverno, come tutta la bellezza umana e tutta la bellezza e lo splendore che gli uomini hanno creato o possono creare. Tutto ciò che altrimenti avrebbe amato e ammirato gli sembrava spoglio di valore a causa della transitorietà che era nel suo destino...” Così Freud, in un suo breve ma intenso scritto intitolato 'Caducità' (tit. orig. “Verganglichkeit”, 1916), iniziava una accorata riflessione sulla natura fugace dell'esperienza umana e sulla durata effimera benchè periodica delle manifestazioni della natura, per mettere in risalto come il valore intrinseco delle cose, la loro bellezza, si sostanzi proprio di quel limite, di quell'arresto della presenza che 'la fine' impone indistintamente a tutti i figli di questo mondo.
Lo scritto freudiano, col suo alone nostalgico che attenua la durezza del richiamo all'idea della finitudine umana e della morte, potrebbe essere in realtà inserito in quel ricco filone letterario conosciuto sotto il nome latino di 'ubi sunt' (dall'interrogazione 'Ubi sunt qui ante nos fuerunt?), fiorito nel tardo medioevo ma presente fin dalle prime redazioni delle scritture bibliche nella sua concezione di esortazione ad una riflessione sulla vanità e la transitorietà di tutto quanto è vita terrena.
Fin dagli albori della civiltà d'altronde la 'deperibilità' delle vicende umane è stata sempre correlata alla fugacità dell'esistente ed ai limiti di durata imposti dalla Natura al nostro organismo fisico. I primi Greci, presi nella tenaglia dell'angoscia tra il panta rei e l'horror vacui, se ne fecero una malattia e perseguirono gesta follemente eroiche che tramandassero il loro nome ai posteri, così che potesse sopravvivere all'oblio del tempo.
Due millenni dopo ancora un nostalgico Francois Villon chiedeva con insistenza e con pari smarrimento dove fossero andate a finire 'le nevi di un tempo': Ou sont les neiges d'antan? Qui, nella famosa Ballade des Dames du temps jadis (metà del 1400), forse non a caso il sentimento della perdita viene sublimato in un caleidoscopio di figure femminili, regine, miti e donne celebri, che sembrano riflettere la scomposizione di un'unica ideale e ormai perduta immagine materna...
Ma, tornando a Freud...Il suo acume clinico fin dall'inizio individuò nella dimensione temporale del ricordo e della memoria (cosciente ma più spesso inconscio) la causa dell'ammalarsi di nervi. Che l'isterica soffra di reminiscenze è una delle sue prime conclusioni, quando agli inizi della psicoanalisi scrisse con Josef Breuer gli Studi sull'isteria. Potremmo dire che, più che i singoli ricordi 'patologici' o 'traumatici', è proprio la dimensione di centralità, talora assoluta, che il passato assume nella vita di una persona a determinarne la stasi ed il permanere ancorati in uno scenario in cui continua a rappresentarsi un'unica commedia, o dramma (o talora, purtroppo, tragedia). Si pensi soltanto, ad esempio, a quanto della nostra vita mentale 'adulta' continui a ruotare intorno o ad essere letteralmente assorbita dallo scenario edipico della nostra infanzia...
In seguito, Freud affronterà direttamente ed in profondità la tematica della perdita e del lutto (Lutto e melanconia, 1915), dove la centralità del passato nella vita dell'uomo e la persistenza dei sentimenti di perdita e di nostalgia in molte forme di sofferenza mentale assumono un tale spessore da configurare una visione della salute psichica strettamente intrecciata alla possibilità o meno di superare ed elaborare un certo passato, ed il connesso senso della perdita, spostando così anche il baricentro dell'economia psichica da una dimensione quasi atemporale e ormai cristallizzata in modalità ripetitive e spesso centrate sulla sofferenza ad una più in contatto con il presente e con le richieste della realtà. In sostanza cioè la possibilità di trasformare un proprio sentimento rispetto a certe figure del passato, o effettuare nuovi investimenti affettivi in sostituzione di altri ormai perduti.
Ecco allora che il sentimento dell'ubi sunt – potremmo definirlo così ? – col suo alone denso di perdita e di nostalgica ricerca di un tempo e di un mondo perduti (il mondo materno delle nostre origini, per capirci), sembra incarnare una certa visuale soggettiva del/sul nostro passato, prediligendo la dimensione rassicurante della apparente prossimità di un passato che perdura in noi ostinatamente, nonostante ogni giorno nuovo ci porti in realtà più lontano da esso, e in un altro tempo.
Ma la risposta 'definitiva' alla imperitura domanda dell'ubi sunt, senza sconti di sorta alla nostra nostalgica petizione sul passato, ce la da la fiction. E non potrebbe essere altrimenti, nel nostro mondo sempre più virtuale e artefatto. Essa è affidata appunto ad un 'replicante', il ribelle Roy Batty del film-cult Blade Runner (1982), che dinanzi all'imminente scadere del proprio tempo vitale affida a poche ma intense ultime parole la sua natura (fin troppo umana, potremmo aggiungere..) di androide: “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi, etc etc … E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.” Difficile anche per un umano trovare parole più adatte per esprimere il senso di perdita ineluttabile e al contempo il silente dissolversi di una esistenza in un mondo (o piuttosto 'universo' in questo caso) dove niente pare resista alle leggi della entropia e del progressivo oblio, se non magari una qualche sopravvivenza in un ricordo affidato alla memoria di coloro che furono in vita più vicini.
Ed è probabilmente anche per consolarci di un tale assoluto e impossibile pensiero, irricevibile dal nostro inconscio – come diceva Freud a proposito dell'idea stessa della morte – ma alieno anche rispetto alla quotidiana coscienza di sé, che continuiamo ad evocare un altro tempo ed uno scenario perduto ed a chiederci dove ne siano finiti i personaggi.