venerdì 24 dicembre 2010

I volti del tempo




Tempus fugit, dicevano gli antichi. Il tempo fugge, o scorre, in ogni modo si perde, si consuma. Non solo; esso 'ci' consuma, in un rapporto reciproco di causa-effetto in cui essere e tempo (Sein und Zeit, scriveva qualcuno) risultano quasi sinonimi. Il grande Virgilio, nel libro terzo delle Georgiche, ci lascia una sua felice espressione: Sed fugit interea fugit irreparabile tempus (Ma fugge intanto e s'invola il tempo irrevocabile). Ma c'è tempo e tempo... Parliamo dunque del tempo, della temporalità, di questa 'entità' immateriale in cui siamo immersi dalla nascita (e prima di essa), di ciò che ci rende l'unica specie vivente, noi umani, soggetta alla consapevolezza dello scorrere inesorabile della propria esistenza e della propria durata, quindi dell'idea del limite, della fine di sé.Questo tempo che ci avvolge dall'inizio alla fine, e poi ci lascia (..per andare dove?), è come una corrente elettrica che, finchè dura, ci anima e ci tiene in vita; entriamo in un 'flusso' temporale e non ne usciamo che alla nostra fermata, come quando si prende un metrò. Se non possiamo nulla sul passato, perché non esiste più, e non possiamo nulla sul futuro, perché non esiste ancora, il discorso del nostro esistere si riduce al presente. Anzi, all'adesso. Ma se questa affermazione appare secondo logica indubitabilmente vera, essa sembra d'altro canto contraddire le diverse sfaccettature che la categoria di temporalità possiede.
In primis il fatto che tutti noi abbiamo una percezione chiaramente distinta della differenza tra il tempo cosiddetto 'reale', oggettivo, scientifico e misurabile (abbiamo inventato apposta gli orologi, che rappresentano lo strumento sul quale è costruita tutta la cosiddetta civiltà moderna), e quello interiore, vissuto, la cui estensione non riguarda lancette e ingranaggi ma soltanto emozioni, sensazioni, memorie,'vissuti' appunto che costellano la sostanza psichica di cui siamo fatti. O potremmo anche dire che esistono un tempo 'corporeo' (il modo oggettivo in cui il nostro corpo subisce il confronto-scontro con il tempo e ne rivela lo scorrere in termini di invecchiamento: “La lotta contro il tempo è l'unico vero problema dell'uomo, oltre a quello del suicidio”, scriveva Camus) ed uno 'psichico' (la rappresentazione interna di un fenomeno in termini affettivi, dunque il ricordo), se questo non ci facesse tornare in mente troppo puntuali distinzioni sulla rex cogitans e la rex extensa di cartesiana memoria, che in questa sede tralasciamo volentieri. Non tralasceremo invece la nouvelle vague filosofica del secolo addietro (Husserl, Heidegger, Bergson..), quando ci descrive l'opposizione tra tempo e durata; uno dei punti nodali di tale visione filosofica gira proprio intorno a questa distinzione, che vede da una parte un tempo astratto-oggettivo e dall'altra una durata concreta-soggettiva, o per altri versi un tempo eternizzato e impersonale di contro a un tempo intimo e personale, quasi fosse una contrapposizione tra una vuota forma contenente e una sostanza materiale in essa contenuta.
Secondo Bergson, la vera realtà della nostra coscienza si esplica nel tempo vissuto, nella durata soggettiva delle esperienze, che non corrisponde affatto al tempo meccanico scandito dall'orologio, ripetitivo, uniforme, quantitativo. Il tempo vissuto, egli dice, è invece qualcosa di più reale, simile ad una sostanza in continuo cambiamento qualitativo, cioè in perenne, intima trasformazione.Ovviamente, sono sempre gli artisti, in questo caso poeti e scrittori, ad aver per primi colto ed espresso in modo universalmente diretto ed efficace i molteplici volti del tempo di cui facciamo esperienza. Ne ricordiamo due, per tutti: Marcel Proust e Virginia Woolf, che alla dimensione interiore e vissuta del tempo riservarono una particolare attenzione, se non una vera e propria venerazione (o forse, anche, ossessione). Il primo infatti, nella Recherche, ricostruisce alchimisticamente un universo vivente attraverso il tempo perduto e poi ritrovato della propria memoria, laddove la seconda ricerca convulsamente dentro di sé, in tutta la sua opera letteraria, quella peculiare forma narrativa che possa esprimere la cangiante vitalità del mondo interiore che si interseca senza soluzione di continuità in una temporalità molteplice e stratificata (nel racconto Mrs Dalloway, per esempio, che si comprime nella durata di un solo giorno, fatti e situazioni hanno peso solo in quanto scenari di fondo in cui si agitano emozioni e stati d'animo del soggetto, che si succedono, si alternano e si trasfondono reciprocamente in una temporalità magmatica e sospesa, specchio intimo dell'avvicendarsi delle ore del tempo 'di fuori', scandito dal rintocco del Big Ben, o ancora dell'altro tempo, ciclico e universale, che la protagonista del racconto osserva dalla sua finestra nelle movenze abitudinarie di una anziana signora che abita nella casa di fronte). Se filosofia e letteratura ci hanno dunque parlato già un secolo fa di una diversa concezione del tempo, e se la fisica della relatività ha avuto in tutto questo un ruolo primario, potremmo dire che la psicoanalisi non è stata da meno, arrivando anzi ad estremizzare il discorso nel sostenere che nell'inconscio non c'è tempo, o meglio ci sono tutti, poiché lì convivono senza distinzione di sorta tutti i differenti tempi della nostra vita (e secondo la psicoanalisi junghiana anche quelli dei nostri progenitori su su fino all'origine della specie). O per altri versi, come dice Lacan,la morte (come la donna) non esiste.
Diviene allora fondamentale - e fondante la possibilità di un nuovo e condiviso processo temporale - il costruire ad hoc uno scenario (come fa la psicoanalisi mediante la creazione del setting, cioè la ripetizione dell'esperienza delle sedute all'interno di una cornice di senso, offerta dalla stanza e dall'ora di analisi) che possa costituire l'altra faccia, o anche, come si dice oggi, l'interfaccia, di quel tempo intimo, soggettivo, privato, che il paziente vive, spesso dolorosamente, solo in modo frammentato o cronicizzato, attraverso l'emergenza del sintomo ossessivo, la riemersione disturbante del rimosso in forma di ansia diffusa, o un'angoscia serpeggiante che infine dilaga sommergendolo. Un tempo 'della cura', o 'del dialogo', se si preferisce, che ricuce narrativamente in un percorso dotato di senso quella che era una disarticolata accumulazione di fatti, volti, cose, emozioni, pezzi di vecchie identità, in un processo di significazione potenzialmente senza limiti (l'analisi è sempre 'interminabile', se intesa nella sua dimensione etica di confronto dell'individuo con la propria alterità costitutiva), reso ora reversibile dalla possibilità del ricordo e dalla funzione della memoria, finalmente liberata dalle catene della rimozione.
Il tempo così 'ricomposto' (o ritrovato direbbe Proust) da al soggetto una nuova prospettiva, che può essere ora finalmente osservata senza troppe distorsioni ottiche. E' un tempo insieme intimo e condiviso che ridà un ritmo e una forma alla fine del tempo della catastrofe psicotica, o che spezza la circolarità chiusa della coazione e della ripetizione cieca e sorda della nevrosi ossessiva - che desidera l'arresto del tempo e l'illusione della eternità del quotidiano, secondo la sua paradossale, mirabile sintesi dei contrari - o ancora, che apre un possibile varco al senso di esistere nella patologia depressiva.
Egli può così riappropriarsi del suo proprio tempo, declinandolo in molteplici rappresentazioni di sé in rapporto con sé stesso e con gli altri, tra passato e presente, e con lo sguardo finalmente rivolto al futuro.



lunedì 22 novembre 2010

Lo straniero che è in noi


Homo sum, humani nihil a me alienum.
(Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo)
Publio Terenzio Afro, Heautontimoroumenos (165a.C.)



[...] Tutta l'arte del Novecento ha dato voce ad un intimo e lacerante grido di dolore, per ribadire attraverso le più svariate forme espressive la condizione dell'uomo moderno e le sue ferite mortali: l'alterità, l'estraneità, la vacuità, la perdita di senso, la solitudine, lo spaesamento. L'Urlo di Edvard Munch (1893) ne è forse la prima rappresentazione moderna attraverso il medium pittorico (così come, mezzo secolo dopo,le tele di Francis Bacon ritraggono una umanità deformata, mostruosa, in cui prevale la cifra di una estraneità aliena ed alienante). Il teatro pirandelliano e quello 'dell'assurdo'(Beckett, Ionesco), la letteratura esistenzialista di Sartre e Camus e, nel campo musicale, il progressivo utilizzo della dissonanza e poi l'avvento della musica dodecafonica, che ribalta canoni estetici millenari; tutte testimonianze di una drammatica emorragia di senso che ha minato agli albori del secolo appena trascorso la moderna coscienza umana. Opere divenute icone universali della condizione esistenziale dell'uomo moderno – o dovremmo oggi piuttosto definirlo 'post-moderno', in assonanza con una certa recente terminologia di matrice sociologica – e di quella insopprimibile vertigine della mente di fronte all'angoscia di una alterità che qui sembra proporsi come una assenza stessa di forma e di sostanza, un progressivo svuotamento di senso del mondo e delle cose fino ad esaltare la propria inconsistente corporeità e vacuità, in uno scenario piegato, alterato, distorto, quasi liquido – corrosivo - che minaccia di penetrare dal di fuori, invadere il 'soggetto', e infine discioglierlo, annullarlo [...]
In tale scenario la psicoanalisi si è posta fin dal principio, un secolo fa, l'arduo compito di accelerare quella svolta epistemica che potesse condurre l'individuo ad una visione integrale di se stesso, obiettiva e realistica, sganciata dai retaggi della trascendenza religiosa e filosofica, attraverso l'assunzione del discorso con l'altro-da-sè e con tutto quanto eccede rispetto ad un assetto identitario delimitato e racchiuso nella propria lucida coscienza morale e razionale. Essa si è proposta quale strumento conoscitivo ed operativo della ferita di senso dell'uomo moderno, impegnandosi di suturarla attraverso la “cura” del sintomo e con il ricorso ad una dia-logica in cui venisse privilegiata proprio la dimensione problematica ed estraniante del soggetto, quindi in certo senso -e qui sta la novità rispetto alle pur molteplici forme di trattamento psicologico-psichiatrico dell'epoca - facendo affidamento su quella regione interdetta della psiche che fino allora si era cercato soltanto di tenere a bada e di rendere meno devastante col ricorso alla farmacologia, a periodiche cure idroterapiche in stazioni termali e nei casi più gravi alla contenzione manicomiale.
Così, quando al principio del suo lavoro di psicoanalista, presta attenzione ai 'vaneggiamenti'delle isteriche oltre che alle loro mirabolanti contorsioni 'ad arco riflesso' osservate nelle cliniche psichiatriche del tempo; quando pubblica L'interpretazione dei sogni (1899) e cede completamente il campo all'immagine onirica – l'alterità per eccellenza nel pensiero positivista di fine Ottocento- e alla sua potente capacità espressiva, tematica che sarà poi ripresa dai movimenti dadaista e surrealista degli anni Venti; oppure quando, ne Il perturbante (1919), individua nell'Unheimlich quel sentimento di attonita inquietudine di fronte al'non familiare', Freud sta dando voce e corpo a questa oscura dimensione parallela della psiche che si manifesta attraverso le pieghe occulte della ragione e della vita di veglia.
A proposito di quest'ultimo scritto, dove le dimensione dell'alterità e della estraneità dell'inconscio e del rimosso emergono in maniera nuova ed originale vestendo i panni del 'doppio' e del 'sosia', il carattere perturbante (unheimlich) dell'esperienza attuale è strettamente associato alla sua pregressa familiarità (heimlicheit) che ha però nel tempo subito un processo di rimozione, fino al punto di perdere l'aggancio con la memoria cosciente e la tonalità intima e rassicurante del già noto. Il risultato, come sappiamo, è una esperienza ambigua ed inquietante, di turbamento soggettivo per la difficoltà o l'impossibilità di codificare affettivamente lo stimolo esterno (oggetto, situazione o persona) dotato di una tale caratteristica.
Questa ambivalenza perturbante, in cui il fondamentale sentimento di una chiara identità soggettiva viene momentaneamente oscurato, si presta infatti alla perfezione nel delineare in maniera viva e palpitante il profilo di una dimensione inconscia che si esprime attraverso una intima estraneità, di una alterità intrapsichica e 'strutturale' che è specchio di ogni successiva attribuzione di alterità verso il mondo esterno e verso gli altri. E tale meccanismo è il prototipo – diremmo – di quell'atteggiamento fondativo della coscienza razionale che consiste nella distinzione tra un dentro e un fuori, tra un me e un non-me, tra soggetto e oggetto.
Anche C.G.Jung introduce nelle sue teorizzazioni il concetto di una alterità costitutiva della psiche – che può essere in parte progressivamente integrata in un processo di 'individuazione' – distinguendola in inconscio personale e collettivo. La sua poetica ed alquanto incisiva definizione di “Ombra” ben rappresenta in termini archetipici la dimensione inconscia personale caratterizzata dalla somma delle sue 'negatività' costitutive (rappresentazioni rimosse, elementi sfavorevoli e funzioni psichiche non sviluppate della personalità).
Possiamo quindi pensare alla psicoanalisi nei termini di una scienza della alterità – se di scienza si può parlare, oggi che le declinazioni della 'verità narrativa' e del post-costruttivismo hanno progressivamente spostato il baricentro psicoanalitico verso il piano ermeneutico, oppure se sia meglio considerarla al pari di una professione di fede in chiave laica – i cui cardini concettuali, da sempre, si sono primariamente articolati sul binomio identità/alterità e sul riconoscimento della funzione centrale di legame svolta dalla coscienza nel tentativo di una migliore integrazione possibile dei contenuti inconsci.
Dal registro interno a quello esterno la funzione psicoanalitica rimane intatta, in quanto alla base di qualsiasi processo conoscitivo si riscontra un rapporto e, se vogliamo, un incontro di identità tra loro diverse, nella accezione ampia del termine (quindi non solo soggettive, ma culturali, sociali, etc..) all'interno di una peculiare esperienza emotiva.
Il tema portante dell'identità e del suo rapporto con l'alterità si snoda attraverso tutto il percorso della riflessione psicoanalitica per approdare alla metafora bioniana del 'cambiamento catastrofico', cioè dell'implosione di un precedente assetto del pensiero che può generare nuove forme di pensabilità sia soggettive che epistemologiche o scientifiche. Momento cruciale di tale passaggio è la possibilità per la mente di tollerare il disorientamento e il disancoramento da posizioni consolidate nel tempo ma ormai isterilite e prive di una prospettiva 'aperta' e interagente col mondo circostante, e al contempo una spinta autenticamente conoscitiva che consenta di accostarsi al'altro-da-sè ma soprattutto all'Altro che risiede in noi [...]



Il presente è un estratto dal saggio breve: Identità e/è Alterità, di prossima pubblicazione nella sezione 'Scritti' del sito www.fernandomaddalena.it

Nella foto in alto: Francis Bacon, Portrait of Michel Leiris (1976)



venerdì 22 ottobre 2010

A teatro


La Figliastra (facendosi avanti al Capocomico, sorridente, lusingatrice)
Creda che siamo veramente sei personaggi,
signore,interessantissimi! Quantunque, sperduti.
Il Padre (scartandola)
Sì, sperduti, va bene!
Al Capocomico subito:
Nel senso, veda, che l'autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non potè materialmente, metterci al mondo dell'arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché - vivi germi - ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l'eternità!
Il capocomico
Tutto questo va benissimo! Ma che cosa vogliono loro qua?
Il padre
Vogliamo vivere, signore!
Il capocomico (ironico)
Per l'eternità?
Il padre
No, signore: almeno per un momento, in loro.
Un attore
Oh, guarda, guarda!
La prima attrice
Vogliono vivere in noi!

(Tratto da : Sei personaggi in cerca di autore di Luigi Pirandello, a cura di C.Simioni, Oscar Mondadori)


Se volessimo rappresentare il funzionamento della psiche umana nel suo aspetto dinamico e interattivo, nel suo continuo relazionarsi ad oggetti interni ed esterni attraverso il lavorìo mentale del quotidiano - quella specie di brusìo di fondo che occupa gran parte del nostro pensiero cosciente - forse l'immagine più indicata sarebbe quella di un proscenio teatrale, dove su una scena allestita all'uopo si sta svolgendo un copione cui partecipano figure-personaggi diversi. Un teatro psichico dove si sta appunto 'rappresentando' un testo, in un perenne proporsi, farsi, decostruirsi e ricomporsi nel qui ed ora del momento vissuto.
La metafora teatrale si presta infatti particolarmente bene ad inquadrare icasticamente il discorso 'muto' ma inarrestabile della mente (pensiamo anche nel sonno: anzi lì pensiamo di più e, diremmo, a trecentosessanta gradi!) che si articola in un intimo dialogo a più voci, in una temporalità sottratta all'oggettivazione seriale delle ore (un tempo 'sospeso' in uno spazio virtuale e puramente allusivo, come quello appunto di una scena teatrale). A fornirle cioè quella cornice concettuale, quella messa in parentesi della realtà, entro cui poter fare emergere le sue sensazioni, le emozioni e la passione, le sue ferite, le sue contraddizioni insanabili, la sua follia.
Che il medium teatrale-scenico sia uno strumento privilegiato e naturale per esprimere in modo elettivo le passioni e i travagli dell'animo gli uomini devono averlo capito subito; tutte le culture umane hanno sentito l'esigenza di creare all'interno del loro ambiente vitale un 'luogo della rappresentazione'. Nei primi aggregati di tipo nomade questo luogo era lo scenario naturale stesso, di volta in volta ridefinito e circoscritto in uno spazio d'azione intorno ad un focolare, che potesse illuminare ciò che quei primi attori dell'umanità cercavano di comunicare ai loro simili. Poi vennero le prime antiche grandi città del medioriente e quindi le poleis greche, le urbs romane, con quegli splendidi gioielli architettonici, gli anfiteatri, che possiamo ancora oggi ammirare. La storia del teatro ci rende visibile la sua traiettoria attraverso epoche e culture fino ad oggi: generi teatrali in origine schematici e ripetitivi si sono nel tempo modificati, arricchiti, diversificati, seguendo la stessa evoluzione del pensiero e del costume umani. Fino ad arrivare – come sappiamo – al teatro moderno ed al cosiddetto teatro 'dell'assurdo', quel genere sorto a metà del secolo scorso, che riflette la trasformazione di una società, quella moderna, in cui sono elementi costitutivi la tragicità della condizione umana privata delle sue certezze, come l'inautenticità e la sostanziale incomunicabilità tra le persone.
Quella teatrale è dunque creazione artistica per eccellenza, se con ciò si intende la possibilità di esprimere la verità attraverso la finzione rappresentativa, che mette in scena, in una accezione pienamente 'democratica'; finzione che fa da tramite e da amplificazione per una pluralità di voci interiori che tendono a realizzare una maggiore pienezza espressiva e comunicativa.
Ma se quella teatrale è in fondo solo una finzione, la psiche ha bisogno di una tale finzione scenica per poter funzionare. Ha bisogno di creare una storia, di metterci delle figure, delle emozioni, di dare cioè un senso alle cose dentro e fuori di sé, di produrre quindi attraverso la sua stessa messa in scena il racconto di una ordinata e almeno verosimile, se non veritiera, successione di fatti. Così facendo ci si accosta abbastanza a quel nucleo di autenticità che muove tali esigenze espressive e rappresentazionali secondo una modalità catartica e liberatoria che restituisce all'individuo l'accesso alle radici profonde dell'esistere.
Se la psiche è per sua natura teatrale, ciò che accade in una psicoterapia non si sottrae ad una tale suggestione, laddove la scena è la stanza di analisi, il luogo deputato dagli autori-attori (paziente e terapeuta) e dai vari personaggi ed interpreti (dell'uno come dell'altro) ad incontrarsi in tante repliche successive (mai però uguali a se stesse, pena la conclusione delle rappresentazioni. Qui si recita infatti come fosse sempre una 'prima').
Le poche o tante parti rappresentate, i personaggi centrali e quelli secondari, le semplici comparse, quelli in ombra o rimossi (la cui mancanza però aleggia nell'aria), tutto questo viene messo in scena nella seduta. Gli attori fanno vivere (e talora ri-vivere) i loro molteplici personaggi ora nella commedia, ora nel dramma o nella tragedia, prestando attenzione affinchè ognuno di essi possa esprimere con la propria voce ciò che ha da dire, come anche ciò che non può essere detto a parole e solo vagamente percepito con un'emozione o una sensazione.
E' allora in questa funzione-finzione trasformatrice che gli elementi reietti o anche impensabili della nostra mente possono addivenire ad una forma, ad un primo abbozzo vitale che se adeguatamente sostenuto e nutrito potrà giungere ad una esistenza riconosciuta con consapevolezza.



lunedì 20 settembre 2010

Quando si dice 'Inconscio'




L'immagine che sorge spontanea in tutti noi quando si pensa all'inconscio è probabilmente quella di un luogo nascosto, oscuro, un sotterraneo dove si rintanano i fantasmi del passato, ricordi cancellati, pulsioni e desideri rimossi, o abbozzi di pensieri mai pensati. Una sorta di cantina dei nonni, dove nel tempo è finito di tutto, pentole e piatti sbreccati, culle in disuso, bici arruginite, fino ad ingombrare tutto lo spazio disponibile, lasciando solo un passaggio angusto in direzione dell'unica finestrella, troppo in alto e troppo piccola e opaca di sporco rappreso per lasciar filtrare più che un incerto chiarore dall'esterno...
La nozione di “un inconscio”, di un 'entità cioè definita e dotata di una sua realtà fisica e fenomenica e non solo concettuale o virtuale, è cosa relativamente recente nella storia della cultura umana (perlomeno intesa nei termini della cultura dominante, o 'di massa' come si dice oggi) e coincide con l'apparizione - appena cento anni fa - e la diffusione della psicoanalisi ad opera di Sigmund Freud prima e dei suoi seguaci e sostenitori poi. Freud per primo, nel suo saggio sull'inconscio del 1915, ne aveva messo in risalto il carattere di 'sistema' autonomo, articolato su specifiche modalità di funzionamento quali la condensazione, lo spostamento, l'assenza di reciproca contraddizione, l'atemporalità e la sostituzione della realtà esterna con quella interna-psichica, come potè rilevare anche dal lavoro analitico sulla formazione dei sogni e sulla loro interpretazione. La sua sottolineatura poi di 'processi psichici primari' contrapposti ad altri 'secondari', sancisce al contempo la complementarietà e la diversità dei due sistemi psichici di Inconscio e Coscienza, che soltanto interrelati ed integrati permettono la vita psichica ed un funzionamento mentale adeguato.
Talmente recente tutto ciò, dicevamo, che una tale 'scoperta' - che potremmo definire copernicana per l'influenza avuta sul pensiero umano - non sembra ancor oggi essere patrimonio di tutti noi, nel senso di una effettiva acquisizione di conoscenza; anche se il termine 'inconscio' circola nei discorsi di qualunque caratura, più spesso nelle frasi fatte (“Sì, ma inconsciamente tu invece volevi dire che etc etc..”), la sua reale valenza rimane limitata alla consapevolezza ed all'interesse di coloro che per vari motivi sono entrati in contatto con certe tematiche, studiosi o cultori della materia e/o persone che per loro particolari bisogni e vicende personali si sono accostati alla psicoanalisi per un percorso di conoscenza di sé.
L'idea che l'inconscio sia un aspetto fondamentale della nostra mente e del suo funzionamento, che sia cioè rappresentabile in termini di un sistema-processo sempre attivo, parallelo ma ben più vasto (anzi 'infinito',per dirla con I. Matte Blanco) rispetto a quello riferibile all'Io-coscienza, non sembra ancora essere 'patrimonio dell'umanità', e viene da chiedersi se lo sarà mai, in futuro...Prevale infatti nel senso comune una visione parziale e al contempo rigida dell'inconscio, caratterizzato esclusivamente dal ricorso a similitudini spaziali; appunto, una specie di luogo delle cose dimenticate (un 'dimenticatoio', diremmo..), o una 'parte' o 'zona' della mente dove far confluire certi contenuti scomodi o secondari. Insomma, una specie di grande pattumiera dove si accumulano rifiuti, 'scarti' prodotti dalla nostra mente, laddove poi quest'ultima viene ad essere identificata col solo aspetto cosciente, razionale, logico...
Pare indubbio e anche ben comprensibile che uno dei motivi, o forse 'il' motivo, di questa concezione semplicistica dell'inconscio sia attribuibile all'inquietudine che tutti ci prende allorquando sentiamo vacillare le nostre pseudo-certezze costruite su una supposta razionalità, quando cioè percepiamo di essere attraversati e spesso agiti da forze ben più potenti di quelle gestibili dal nostro piccolo (ma eroico, gliene va dato merito!) Io. D'altronde, l'illusione del 'controllo assoluto' sul proprio mondo interno, oltre che esterno, è anzi necessaria, almeno in una fase iniziale del proprio sviluppo psicologico, quando abbiamo bisogno di costruire certezze più o meno durature che ci permettano di consolidare e rafforzare una sufficiente 'fiducia di base' in noi stessi.
Vero è anche però che i casi della vita ci portano a volte, o meglio sempre, sotto la spinta di un continuo adattamento alla realtà di per sé instabile e mutevole, a dover rimettere in discussione, anche radicalmente, quelli che credevamo essere dei 'punti fermi' e dei riferimenti inamovibili del nostro vivere. Viene a delinearsi ad un certo punto una crescente esigenza di cambiamento, unitamente alla percezione che certe modalità di controllo sul proprio mondo interno non hanno più effetto e il rapporto con noi stessi inizia a declinarsi in senso sintomatico, attraverso il disagio e la sofferenza. E' in questi casi, solitamente, che ci si rivolge a qualcosa o 'a qualcuno'; come 'allo psicologo', per esempio...
La richiesta di una psicoterapia è innanzitutto richiesta fatta ad un 'altro' di un ascolto attento e partecipe alle proprie vicissitudini e nel contempo possibilità di trovare un senso ed un significato alla propria sofferenza. Si può rispondere in modi diversi a tale richiesta, come diversi e molteplici sono gli orientamenti teorico-clinici in campo psicoterapeutico.
Potremmo dire che il compito principale, la 'missione' di una psicoterapia analiticamente orientata – e ciò che la differenzia da altre forme di psicoterapia – è primariamente quello di far prendere 'coscienza' al paziente che appunto esiste un inconscio (ma stavolta in carne ed ossa, diremmo, e non per frasi fatte; in un modo tale che ne possa sentire cioè l'effettiva presenza operare da dietro le quinte dello scenario psichico), che la sua mente è eterogenea e complessa, che la sua coscienza razionale non ha il monopolio della situazione e che è anzi 'ospite' in un tutto più grande, quindi che il suo Io non è che un piccolo guscio di noce sull'immenso mare ignoto del Sè. Quindi, paradossalmente, una tale visione apporta all'individuo anche la consapevolezza di una intrinseca alterità e di essere per certi versi strutturalmente, ontologicamente, irreparabilmente scisso, separato, distante. Straniero a sé stesso. Ma proprio su questa rottura, su questa faglia intima che lacera la continuità del quotidiano sentimento di essere un individuo, la psicoanalisi ha costruito la sua visione dell'uomo, ponendone in luce le contrastanti pulsioni, le contraddizioni talora insanabili di una solo apparente razionalità, i lati oscuri della mente, la sua distruttività.
Se nonostante ciò il paziente, sorretto dal rapporto terapeutico, non perde la speranza e la fiducia di poter operare un cambiamento evolutivo nel proprio modo di essere e di 'stare' al mondo, e se questa visione, per certi versi terrifica, non lo costringe a rigettare la realtà, a rifugiarsi in agiti o in vane illusioni, ma permette al desiderio di conoscere la 'sua' verità conoscendo meglio il proprio mondo interno, allora potremo senz'altro dire che la psicoterapia ha avuto successo e il terapeuta, compagno di un lungo e faticoso viaggio in terra straniera, può esserne soddisfatto e intrinsecamente ripagato. Infine, il 'massimo dono' che un paziente può ricevere dal terapeuta, dopo la scoperta in sé stesso di una vita inconscia sullo sfondo del suo stato di veglia, è imparare ad entrare in un rapporto nuovo e diverso con una tale dimensione, in una modalità più evoluta e meno conflittuale, quanto più possibile creativa e arricchente per l'individuo.



lunedì 10 maggio 2010

L'Io e il Sé. L'ineffabile necessità della trascendenza




“Se io non sono me stesso, chi lo sarà per me? E, se non ora, quando?”
(Massima ebraica della raccolta Pirke' Avoth, nel Talmud)


Fin dalla sua nascita 'ufficiale' dalle esperienze cliniche di S.Freud sulle pazienti isteriche (ma prima di lui avevano preparato il terreno altri luminari della neurologia dediti all'ipnotismo, come i francesi J.M.Charcot e P.Janet) che troverà espressione nel lavoro del 1895 degli 'Studi sull'isteria', la psicoterapia 'moderna' ha avuto come obiettivo manifesto il raggiungimento di una condizione di maggiore 'benessere psichico', o se vogliamo il ristabilimento di una certa armonia interiore, attraverso un lavoro di chiarificazione, interpretazione, scavo interiore attuato per mezzo della parola autentica, di una visione del proprio percorso esistenziale che potesse essere condivisa e resa più comprensibile dalla presenza sullo sfondo di 'un altro' (il terapeuta), testimone e al contempo garante di un mondo di significati e di senso. Su un piano meno esplicito e più 'tecnico', l'obiettivo del 'benessere' potrebbe tradursi con il raggiungimento di una maggiore integrazione nella propria personalità di aspetti di sé un tempo rimossi, negati, scissi, proiettati, comunque sottratti – attraverso il ricorso al sintomo ed alla patologizzazione – alla possibilità di un più consapevole confronto con il nostro Io cosciente, che in tal modo risulterebbe invece arricchito ed ampliato da elementi vitali ed energie profonde.
Freud, con suggestiva metafora spazio-topologica, scriveva come col procedere della psicoterapia l'Io cosciente dovesse strappare progressivamente e annettersi i selvatici e sterminati territori dell'Es (“..Wo Es war, soll Ich werden.”), apportandovi – questo era il senso delle sue parole – cultura e civiltà. Chiaramente, la metafora freudiana va inserita in quel particolare contesto storico e culturale di inizio secolo scorso (o meglio a cavallo tra '800 e '900, in cui Freud viveva), in cui un certo spirito di conquista intellettuale, di 'colonialismo' ad oltranza – potremmo dire – di certi aspetti egoici collegati alla volontà ed alla razionallità, trovavano una loro diretta corrispondenza nei grandi progressi scientifici della medicina, della biologia, della fisica. E la psicologia sembrava allora potersi inserire tra queste più blasonate discipline, ricorrendo a concetti e paradigmi già utilizzati dal positivismo scientifico di fine 'Ottocento.
Le cose non andarono proprio così e la psicologia fu costretta per alcuni versi a rivedere quei desiderati orizzonti 'di gloria' (sub specie scientifica!) recuperando la soggettività dell'individuo, la sua 'interiorità' e 'unicità' (o se usassimo la terminologia della psicologia archetipica potremmo dire senza remore: 'la sua anima'), ponendoli al centro delle sue interrogazioni e ricerche al pari dei suoi comportamenti 'oggettivamente' quantificabili e misurabili. E tutto questo grazie comunque a quella peculiare concezione di fondo della psicoanalisi secondo cui la storia personale e le vicissitudini dei primi e primissimi rapporti tra sè, gli altri e il mondo conferiscono ad ogni individuo una impronta costante, inesauribile, inalienabile...
L'esigenza di individuare il ruolo di una dimensione ulteriore e sovrarazionale, quindi distinta e inglobante lo stesso Io soggettivo, è stata in particolare recepita da C.G.Jung, contemporaneo di Freud, ed espressa con la sua teoria psicologica essenzialmente fondata sulla concezione del “Sè”(mentre, a quanto è dato sapere, fu in campo filosofico che tale termine fece la sua prima comparsa, ad opera dell' inglese John Locke che sul finire del '600 indicò con 'the self' quel modo peculiare in cui la realtà personale appare al soggetto nell’autoriflessione).
Oggi tale visione 'allargata' del nostro apparato psichico, costituito cioè da una dimensione egoica inclusa in quella del Sè, appare ormai implicita e universalemente riconosciuta dai diversi e molteplici orientamenti teorici in psicologia, psichiatria, filosofia e sociologia.
In particolare, a partire dagli ultimi anni '50 il termine è stato così sistematicamente utilizzato da autori e clinici in ambito psicologico per indicare una modalità esistenziale e temporale ampliata in cui il vertice di osservazione non è più quello dell'Io individuale, con le sue 'umane' parzialità e limitazioni, ma quello relativo ad una prospettiva longitudinale e sintetica, in cui obiettivi minori e contingenti cedono il passo a progettualità e strategie 'a lunga scadenza' e in stretto contatto con più profonde motivazioni 'spirituali' e scelte esistenziali (la psicologia archetipica di derivazione junghiana, ad es., ha proposto delle metafore suggestive per definire questa condizione di 'inclusione' del nostro Io in una dimensione superiore e oltrepersonale; quando si parla di 'chiamata del daimon', di 'vocazione', di 'destino', in realtà si fa qui riferimento a tale dimensione esistenziale ed alla sua dilatata caratterizzazione spazio-temporale rispetto al più limitato angolo visuale della coscienza individuale).
Ogni approfondito percorso psicoterapeutico (come ogni autentico processo di conoscenza che conduca ad una evoluzione e alla crescita della personalità, fin dai tempi in cui sul portale del tempio di Delfi campeggiava il monito pindarico del “divieni ciò che sei”) si fa portavoce di quella esigenza naturale della nostra mente, di quel bisogno psichico che mira ad una condizione di maggiore trasparenza e consapevolezza interna, così come alla realizzazione delle intime potenzialità dell'individuo e di gratificazione delle sue peculiarità pulsionali e di quelle creative e 'spirituali'. Ciò sposta il discorso in una ottica sostanzialmente diversa rispetto ad una concezione fin troppo moderna e disinvolta del 'benessere mentale' in quanto assenza (sempre relativa, ovviamente) di conflitti psichici e di problematiche di rapporto che si vogliono magari semplicemente ed onnipotentemente risolti 'per delega', affidando temporaneamente al terapeuta la totale gestione di quel 'motore inceppato' che scorgiamo nel disfunzionamento della nostra mente: è in sostanza il modello medicalistico e meccanicistico (oggi, come ieri, in realtà molto in voga!) centrato sulla cura esternalizzata del corpo, in cui la mente è considerata anch'essa un 'pezzo', una ruota di un ingranaggio che 'dovrebbe' girare in sincronia con tutte le altre, e invece ci crea ostacoli e si ribella ostinata alla 'ragione'...Ciò che non riusciamo a vedere in questi casi è quanto la nostra ottica risenta di un siffatto modello meccanicistico e quanto si sia affidata ad una pseudo-razionalità anch'essa permeata di abitudini mentali e precetti morali, che spesso invece non sono altro che conformismo, senso comune, de-responsabilizzazione e rifiuto di una reale crescita interiore.
Centrare il discorso sul Sé, al contrario, sposta la visuale psichica in una dimensione 'altra' rispetto a quella vissuta nel quotidiano. E' una forma 'laica', se vogliamo, di trascendenza, ma soprattutto è riconoscere il ruolo fondante e anticipatore dell'Inconscio nella costruzione della personalità e prefigurare la possibilità di una sintesi armonica tra Io e non-Io, in un rapporto tra individuo, mondo interno e mondo esterno in cui emergono come centrali i riferimenti alla natura 'spirituale' dell'uomo ed in cui anche la dimensione fideistica (nella sua accezione più vasta) assume una primaria importanza.
Possiamo in conclusione pensare che tale bisogno di autenticità e di integrazione nella propria personalità cosciente di aspetti ancora indefiniti del Sé, risieda nella struttura stessa della mente umana e che tale processo si possa 'attivare' in qualsiasi momento della nostra vita, come per altri versi durante una fase di profondi cambiamenti interiori, di perdite e lutti significativi, attraverso la percezione di una condizione esistenziale di disorientamento e di intima sofferenza o in seguito ad una acutizzazione di sintomi, costellando una dimensione che prima ancora di essere esternalizzata ed oggettivata in un dato percorso psicoterapeutico è 'auto-terapeutica', cioè interna e già psicologicamente dinamicizzata.
In tale condizione emotiva interiore, la richiesta fatta allo 'psicologo' diviene la modalità di dare corpo e concretezza ad un orientamento della psiche che è già in qualche misura all'opera, rispondendo a sollecitazioni endogene evolutive e di crescita individuale, nell'ottica della realizzazione del proprio 'Sé' in quanto struttura più ampia e comprensiva del nostro 'limitato' Io cosciente.



giovedì 11 marzo 2010

Edipo non abita più qui ?



Che le fondamenta della costruzione psicoanalitica siano state poste dalla osservazione e dallo studio clinico delle isteriche di fine '800 sembra un dato oggi riconosciuto. Che il perno su cui ruota tutta l'edificio freudiano sia l'Oedipuscomplex, il complesso di Edipo, e quindi la focalizzazione dell'intero processo sulle conseguenti dinamiche transferali tra paziente e terapeuta, questo sembra meno evidente man mano che la psicoanalisi ha allargato da un secolo a questa parte il suo orizzonte applicativo ed esplicativo a psicopatologie e categorie diagnostiche più gravi connotate da disturbi 'strutturali' della personalità e profondamente radicati nella primissima relazione (anche intrauterina) con l'oggetto materno.
Sappiamo tutti oggi, nell'era informatica che colma e livella le conoscenze, cos’è il complesso di Edipo che Freud, sulla base delle sue osservazioni cliniche, individuò quale naturale tendenza del bambino a sviluppare dei sentimenti libidici e di possesso verso la madre e di rivalità verso il padre, riprendendo ed adattando un racconto mitico della antica Grecia narrato da Eschilo prima, da Euripide e Sofocle poi (le due versioni oggi conosciute sono appunto quelle sofoclee, l'Edipo Re e l'Edipo a Colono). Ma solitamente la nostra erudizione si ferma a queste scarne notizie e manca di approfondire quegli aspetti del mito che risultano invece centrali per comprenderne l'importanza che ebbe agli occhi di Freud, sì da farsi strumento stesso della metafora analitica nel suo complesso e di rappresentare l'esempio letterario perfetto dell'intreccio di passioni e sentimenti che risiedono fantasmaticamente nel triangolo madre-padre-bambino, nucleo originario e indiscusso della teoresi freudiana.
Ma andiamo con ordine e facciamoci riacciuffare dal mito, preceduto magari dall'etimo; 'Edipo' sta in greco letteralmente per 'piede gonfio', il che ci orienta per una congettura apparentemente poco lusinghiera del calibro del personaggio, una pars pro toto che potrebbe fuorviarci in bislacche considerazioni secondarie se non ci si chiedesse a cosa sia dovuto questo particolare nomignolo. Ed è infatti presto svelato nella tragedia sofoclea che esso deriva da un brutale accadimento che ha inciso fin nella carne l'Edipo-bambino: il suo essere stato abbandonato appena nato dal proprio padre, il re Laio, che in tal modo volle punire la moglie Giocasta per averlo ingannato e aver voluto avere da lui un figlio nonostante il divieto degli Dei (una profezia lo metteva in guardia dall'avere un figlio, poiché altrimenti sarebbe stato ucciso da lui). Quindi Laio fora i talloni del bimbetto con un chiodo (da qui il 'piede gonfio') e lo affida ad un pastore affinchè lo esponga, appeso, sul monte Citerone finché morte sopraggiunga. Ma il pastore mosso a pietà lo salva da morte certa e sarà così che il piccolo Edipo giungerà alla corte di un altro re, Polibo, che lo adotta e ne segue la crescita come un figlio. Ed egli cresce infatti nella convinzione di esserne il figlio fin quando una nuova profezia dell'oracolo delfico gli rivela che un giorno non lontano ucciderà il padre e possiederà carnalmente la madre. Edipo sconvolto fugge dalla corte di Polibo per evitare il realizzarsi del sinistro presagio, ovviamente credendo di salvare così i suoi genitori adottivi e sé stesso dalla catastrofe imminente, ma lungo la strada per Tebe si scontra con uno sconosciuto che non vuole cedergli il passo e che lo investe col suo carro (ancora ferendolo al piede!). Ne nasce una colluttazione in cui Edipo uccide lo sconosciuto arrogante, che si rivelerà però essere nient'altri che suo padre Laio. Il destino oracolare procede inesorabile, ma Edipo non lo sa e prosegue nella costruzione della sua sciagura; dopo essersi sottoposto alla prova della Sfinge tebana, superandone con acume la famosa domanda, prenderà infatti il trono di Laio e si congiungerà carnalmente con la regina Giocasta ritenendola sua sposa. L'omicidio è compiuto, e anche l'incesto. Quando in seguito il veggente cieco Tiresia gli rivela la verità egli sconvolto lo accusa di tramare contro il trono, lo definisce pazzo. Ma al di là della trama incalzante, perfetta nei suoi meccanismi narrativi e nei molteplici riferimenti di cui qui non possiamo che rilevarne una assai esigua traccia, ciò che si evidenzia nel racconto è soprattutto il modo in cui la verità si sottrae sistematicamente all'indagine serrata dello stesso Edipo, che fin dall'inizio della tragedia è alle prese con la necessità di smascherare l'assassino del re Laio di fronte alla corte e ai sudditi, chiaramente non supponendo che non si tratti altro che di sé stesso. E così, in un movimento oscillante tra passato e presente, il quadro tragico lentamente ma inesorabilmente si ricompone tassello dopo tassello e infine si chiude quando egli, non potendo più nascondere a sé stesso l'evidenza dei fatti, decide di accecarsi, rendendo così attraverso quel gesto concreto manifesta e irreversibile la sua colpa di 'cecità interiore', il non aver saputo vedere la realtà delle cose...
Appare forse più chiaro ora il motivo per cui Freud sia stato tanto affascinato dal mito edipico da farne la metafora principale del processo analitico, la narrazione prediletta che meglio potesse esprimere quella tendenza al 'conosci te stesso' insita nel 'messaggio' psicoanalitico. Il metodo analitico si è identificato fin dall'inizio con una modalità apollinea di lettura della realtà (i riferimenti ad Apollo ed ai suoi oracoli sono centrali nella tragedia edipica) e di ricerca della verità. Il divenire consapevoli, l'insight, la progressiva scoperta di sé e del proprio passato alla luce delle relazioni intrafamigliari, sono stati elementi fondanti della prassi analitica e ne hanno costituito per oltre un secolo il peculiare sfondo di riferimento interpretativo.
Ma lo scenario edipico (o anche la 'finzione' o 'invenzione' edipiche), sembra già da tempo risentire del peso degli anni che cambiano la realtà stessa della psicoanalisi, in un movimento in cui questa metafora sembra essere stata progressivamente spinta ai margini non solo della teoria (si pensi p.es. all' anti-Edipo di Deleuze e Guattari degli ultimi anni 'Settanta), ma anche della prassi terapeutica, fin al punto di trovare oggi spesso a fatica una sua collocazione netta e definita al suo interno. La trasformazione delle modalità di espressione del disagio psichico in forme sempre più attinenti a disturbi precoci di sviluppo e a patologie più gravi che non le cosiddette 'nevrosi' (ma esiste forse ancora il paziente 'nevrotico'?) hanno reso la metafora edipica più come un ipotetico punto di arrivo che non punto di partenza per l'indagine delle problematiche strutturali in senso psicopatologico. Scavalcando a ritroso il triangolo edipico e le sue relative angosce di colpa si è dunque aperta la smisurata estensione del 'pre-edipico' quale dimensione di ricerca e di intervento, con il conseguente inevitabile restringimento della centralità della esperienza edipica messa sempre più tra parentesi: una condizione 'virtuale', punto ideale di approdo dopo l'eventuale superamento di arcaiche angosce di annichilimento, re-inghiottimento, frammentazione, perdita di identità...
Così come, nel mito, l'accecarsi finale di Edipo suggerisce un allontanamento dalla netta, rasserenante e superiore visione apollinea del vero, della ricerca delle cause prime secondo logiche stringenti, della chiarezza interpretativa che risale alla enucleazione dei rapporti del triangolo incestuoso/amoroso madre-padre-figlio. Non è casuale forse che il 'sequel' - per usare un termine alla moda - sofocleo dell'Edipo Re sia quell'Edipo a Colono, che ritrae un Edipo cieco ed ormai vecchio e stanco, che accompagnato dalla figlia Antigone vaga esule per terre straniere fino ad approdare alle porte di Atene, a Colono appunto, dove trova ospitalità e potrà infine riabilitare se stesso riconoscendo che il ruolo primario di quanto è accaduto è quello degli Dei che hanno tramato il suo destino tragico. Ma questa è un'altra storia.



venerdì 19 febbraio 2010

Il richiamo di Pan



“Dove c'è panico, lì c'è anche Pan..” - dice J.Hillman in un suo famoso saggio, che ripercorre nel suo stile mitologico-archetipico i luoghi concettuali e culturali collegati alla presenza del dio della natura; dal piede caprino e fornito di corna, abitatore delle grotte e delle selve impervie dell'antica Grecia, egli è colui che sotto il sole a picco del mezzodì si attarda a suonare la siringa e sorprende uomini e animali di un sacro terrore che ne sconvolge le membra e ne ottenebra le menti. “Se Pan è il dio della natura 'dentro di noi – continua Hillman – allora egli è il nostro istinto […] La figura di Pan rappresenta la coazione istintuale e nel contempo offre il mezzo mediante il quale la coazione può essere modificata attraverso l'immaginazione [...]Quando l'anima è presa dal panico, Pan si rivela con la saggezza della natura. Essere senza paura, privi di angosce, invulnerabili al panico, significherebbe perdita dell'istinto, perdita di connessione con Pan..”. Se dunque in questa lettura archetipica il dio-capro rappresenta l'ambivalenza dell'istinto e il suo potenziale destabilizzante per la mente umana, esso esprime anche quella saggezza del corpo che è in connessione col divino e che ne esprime le imperscrutabili geometrie.

Lasciando le vette dell'Olimpo e tornando ad un più prosaico piano del discorso, prima di vedere da vicino cos'è e come si manifesta un attacco di panico, potremmo intanto innanzitutto chiederci se esso sia un fenomeno di natura essenzialmente psicologica oppure neuro-biologica, se alla sua origine cioè vi siano motivazioni legate al vissuto intrapsichico e relazionale oppure cause di tipo sostanzialmente chimico, la cui alterazione produce quelle sensazioni corporee così disturbanti. Ma impostare la riflessione su questa domanda sembra allontanarci dal fenomeno in sé e farci perdere di vista la compresenza di entrambi gli aspetti, che potrebbero invece essere considerati concomitanti anziché antagonisti, nel senso che l'uno alimenta e rinforza l'altro, quindi all'interno di un paradigma di tipo olistico (lo 'psiche-soma', anziché il dualistico 'psiche' e 'soma'), in cui il sintomo fisico è simultanea traduzione ed espressione di un vissuto psichico, in questo caso primitivo e mai giunto ad una forma di elaborazione mentale superiore-cosciente, quindi in sostanza non altrimenti rappresentabile dalla mente se non attraverso il codice somatico.
Ovviamente poi, non bisognerebbe ridurre il complesso quadro clinico in esame, che si rivela peraltro in differenti forme di sofferenza psicologica e psichiatrica, ad una categoria psicopatologica 'pura' e isolata, come a volte si tende a fare quando la 'tentazione' medico-classificatoria prende il sopravvento su una riflessione più consapevole delle innumerevoli dinamiche psicologiche sottese alla formazione di un qualsiasi sintomo. E' il caso della 'etichettatura' diagnostico-clinica spesso banalizzante offertaci da noti 'manuali' di stampo psichiatrico in auge negli ultimi anni, laddove occorrerebbe invece cercare di individuare dei tratti peculiari che possano offrire una sufficientemente corretta lettura in termini esperienziali-fenomenici e psicodinamici, all'interno cioè di un'ottica che predilige l'osservazione di movimenti interni e relazionali sullo sfondo di una concezione sistemica-conflittuale della mente, considerata questa come il risultato di forze e pulsioni antagoniste che si stemperano e trovano un equilibrio intorno ad un oggetto primario di riferimento, le immagini interiorizzate della madre prima e della coppia genitoriale poi...



(Il brano è tratto da un recente articolo dal titolo: Attacchi di panico: una lettura psicoanalitica in cinque atti, di prossima pubblicazione nella sezione 'Scritti' del sitoweb: www.fernandomaddalena.it)



lunedì 11 gennaio 2010

Qui ed ora

“Siamo ogni solitario istante”
J.L.Borges


Viviamo nel presente, e solo in esso. Questa banale ma indubitabile verità (una delle poche, forse, rimasteci dallo sconvolgimento epistemologico dell'era tecnologico-scientifica che stiamo vivendo) fa da contraltare alle nostre più che dubitabili certezze, frutto di decenni di sotterranee identificazioni, interiorizzazioni, come anche di scelte e costruzioni più o meno deliberate di aspetti di sé.
Quante volte abbiamo letto queste tre parolette scritte in fila (magari nella loro traduzione latina - 'hic et nunc' - quasi per accentuare un che di sacrale, di consolidato dalla tradizione dei prischi padri) come una specie di recitativo, un mantra la cui efficacia risiede nello sfondo concettuale che è in grado di allestire dinanzi agli occhi della mente, una sorta di caduta verticale nella consapevolezza di sé, del momento, degli altri e di ciò che ci sta intorno.
Qualsiasi studente di psicologia saprà, p.es., che il 'qui-ed-ora' è quel motivetto concettuale divenuto 'a la page' in una certa fase di espansione dello sviluppo della cultura psicologica, quel ritornello da applicare ai momenti topici della presa di coscienza, della sincronizzazione interna rispetto ai propri sentimenti ed emozioni, laddove peraltro qualche studente di filosofia potrebbe agevolmente collegarvi l'heideggeriano 'esser-ci' della presenza, che si apre al mondo ed alle sue innumerevoli possibilità esistentive.
D'altronde, anche il 'carpe diem' oraziano sembra esserne una piacevole parafrasi
e viene così in mente, spaziando nelle associazioni, 'L'attimo fuggente' di P.Weir, il bel film di qualche (ormai) decennio fa, il cui tema conduttore altro non è che questo benedetto e misterioso 'presente' che ci vive attimo per attimo, questo altrimenti 'non luogo' e 'non tempo' su cui le nostre coordinate esistentive sembrano annullarsi per un momento, giusto il tempo di sentirsi (se accade, ovviamente) esistere, essere vivi, poiché aperti al possibile nuovo, al diverso, all'inusitato.
Nel 'qui ed ora', dunque, come recita la prassi dello 'psicoanalitichese', si avvererebbe il momento dell'incontro con noi stessi, con la nostra realtà più autentica e quindi con le nostre inevitabili contraddizioni, nel momento puntuale e unico del proprio riconoscimento, in quanto mente-corpo, al di là delle nostre ulteriori personificazioni che spingono dal passato, gran calderone del vissuto che sentiamo come la nostra personalità piena di sfaccettature e dalle mille diverse rappresentazioni che abbiamo e creiamo continuamente di e su noi stessi. Così come il raggiungimento di quell'agognato 'insight' (altro termine 'a la page' dell'immaginario collettivo psicoanalitico e non solo, ovviamente..) che ha mietuto nei passati decenni schiere di vittime di volenterosi pazienti assorbiti dall'unica preoccupazione di ricevere finalmente “l'illuminazione” del Verbo Analitico...
Quella dunque che sembra essere una formula ormai consolidata, anzi 'classica' diremmo, della teoria psicoanalitica e in generale psicoterapeutica, si scontra tuttavia nella realtà quotidiana con la prassi del vivere del paziente, la cui preoccupazione fondamentale è quella – fin troppo umana in verità – di evitare al più presto la sofferenza e di guarire in un sol colpo dai propri sintomi (magari per essere subito dopo vittima di altri, ma questo è un altro discorso..). E si finisce col dimenticare che il 'qui ed ora' introduce invece un vero e proprio cambiamento di paradigma nell'esperienza vitale del soggetto, poiché cambia l'ottica da cui si osservano i fenomeni del vivere e dell'essere, nonché del percepire.
Nel 'qui' infatti non c'è altra dimensione sensibile che l'intersoggettività della relazione in presa diretta con l'altro, mentre si sta facendo sotto i nostri occhi nell'incontro dei due soggetti analitici e di cui la dinamica di co-transfert è l'espressione più diretta; mentre nell''ora' non c'è che il riferimento a quella sospensione del tempo derivante dalla focalizzazione sull'istante vissuto, su quell''attimo fuggente' appunto, che condensa nel suo infinito presente tutta la gamma di possibilità che la mente dei due interlocutori può concepire e porre in atto in senso fenomenico.
Nel Qui ed ora il discorso analitico si rende vivo e realmente foriero di trasformazione e cambiamento, poiché si trascende per un attimo (sempre 'fuggente', appunto..) il 'Lì e allora' (o anche 'mai'', in alcuni casi) della mente, quale vecchio paradigma votato alla santificazione laica del passato, imprigionato nell'abitudine delle nostre coazioni a ripetere ciò che fummo e che saremo in eterno, se un qualche accadimento improvviso non ci portasse di tanto in tanto sotto gli occhi il fatto, indubitabile, che viviamo nel presente, e solo in esso.