mercoledì 23 dicembre 2009

Per un Buon Natale



Come ogni anno, nelle nostre opulente società mediatiche e consumistiche,
il Natale arriva inesorabile e brucia in un attimo se stesso in quel tripudio di forme conviviali centrate sulla materia-cibo ('il cenone della vigilia'), prassi commerciali reciproche centrate su oggetti concreti ('i regali'), parole e frasi stereotipate e ipertrofiche ('gli auguri'). Esso impone i suoi ritmi allegri, i suoi scintillii, le sue superfici levigate e riflettenti un modello di benessere che ci avvolge protettivo e rassicurante, ma che ci isola anche da quelle valenze intrapsichiche originariamente connesse all'avvento del Natale, che prima di essere cristiano era pagano e romano(1), e prima ancora greco, e ancora prima medio-orientale, e..e ...
Ma cosa c'è 'dietro' o 'sotto' il Natale consumistico e rutilante dei nostri tempi veloci, qual'è la 'sostanza' del Natale, o almeno qual'era, prima che venisse risucchiata dalle attuali pratiche esclusivamente mercificatorie ? La perdita del senso profondo della festa non può non avere conseguenze sul benessere psicologico individuale e collettivo. Nella nostra era 'postmoderna' infatti riscontriamo una crescente perdita di quei rituali simbolici, usi e tradizioni connessi al sacro, che nelle generazioni precedenti, per secoli, hanno rappresentato quel fondale iconografico e immaginativo su cui prendeva forma, nel silenzio della preparazione all'avvento e nella attesa della nascita del bambino divino, un processo catartico di rigenerazione della psiche collettiva, dove ogni individuo attraverso un movimento speculare, al contempo introspettivo e compartecipativo, attingeva a profonde correnti archetipiche armonizzate con i ritmi naturali e cosmici.
Il Natale è una festa antica quanto il mondo, basata su una precisa costellazione di archetipi. La sua celebrazione cade nel periodo del solstizio d'inverno, che è il periodo più buio dell'anno e in cui quindi si prefigura, in ordine ai ritmi di morte e rinascita della vita secondo una processualità naturale, l'avvento della nuova luce(2).
Come i mitologemi che narrano la rigenerazione della natura attraverso la morte e la resurrezione degli eroi mitici (Attis, Osiris, etc.., come anche la figura del Puer Eternus), la Natività esprime simbolicamente l'archetipo del rinnovamento, cioè la nascita dell'Uomo Nuovo e in generale di nuove forme di adattamento vitale all'interno del susseguirsi di fasi esistenziali e cicli evolutivi. Il bambino divino che nasce (per i cristiani sarà il Gesù nella grotta di Betlemme) esprime appunto tale dinamica, che è simbolicamente al contempo interna-psichica ed esterna-naturale-cosmica, oltre ad incarnare l'unione degli opposti, il maschile e il femminile, finalmente uniti in una immagine superiore dell'essere e quindi espressione di una coscienza integrata.
Perdere questo sfondo simbolico, questo orizzonte generale di senso,
significherebbe per l'uomo moderno smarrire quelle coordinate profonde che lo hanno fatto vivere fino ad oggi in sintonia con il suo mondo naturale, fatto di terra, acqua e cielo.Il grande e unico vero dono che dovremmo desiderare per il nostro Natale 'post-moderno' e di non smarrire questi scenari interni e di far sì che il Bambino divino continui a nascere dentro di noi.


F.Maddalena



(1)Nella Roma pagana il 25 Dicembre si celebrava il Sol Invictus, cioè l'essenza divina e 'invincibile' del sole-luce che sconfiggeva il buio dell'inverno.
(2)La centralità e l'importanza di tale costellazione di contenuti archetipici (che possiamo definire quali aggregati psichici e biologici insieme)è pertanto evidente, avendo a che fare con un simbolismo originario centrato sulla possibilità di rigenerazione e armonizzazione di psiche e corpo della nostra specie Sapiens.

lunedì 9 novembre 2009

Sul Vuoto



“Natura aborret a vacuo”...Si dice fu Aristotele a proferirla a proposito della sua concezione della materia, considerata un 'tutto pieno', una rassicurante continuità di massa solida che sfidava e si contrapponeva all'assenza del visibile.
Ma già gli 'atomisti' Leucippo e Democrito, di lui contemporanei, proponevano invece una visione della materia diversa, fatta di vuoti su cui risaltavano i pieni (gli atomi, appunto). L'Occidente però seguì Aristotele e il 'vuoto' dovette aspettare il Settecento e poi la fisica quantistica per essere riscoperto. E ora i 'buchi neri' della moderna astrofisica ne celebrano il ruolo fondamentale per la comprensione delle dinamiche spazio-temporali.
'Horror vacui', la paura del vuoto. Vuoto di forme, di sensazioni, di senso, condizione che la mente si affanna solitamente a rigettare in modo istintivo per un sacro terrore di perdersi in un mondo senza più apparenti riferimenti visibili. I vuoti che sottendono le esperienze psichiche sono solitamente percepiti in termini negativi, di assenza di qualcosa, di una mancanza. A partire dai nostri 'vuoti quotidiani', quei tempi 'morti' che ci affrettiamo a riempire con cose-merci, comportamenti, rituali, abitudini e tanta tv (un classico: il televisore sempre acceso dei film americani, anche di notte, con lo schermo latteo o a righe che frigge; ultimo baluardo per scongiurare una qualsiasi forma di consapevolezza introspettiva..).
Quindi, procedendo in senso 'discendente', il vuoto 'depressivo'; che è, per antonomasia, una condizione dell'essere in cui la potenzialità vitale è menomata, in cui una perdita di affetto si traduce in perdita di senso. La mente vacilla sul limitare dell'abisso: 'vuoto a perdere'.
Di pieno e vuoto ci parlano poi le vicissitudini dell'incontro-scontro tra mente e corpo, delle illimitate varietà di somatizzazioni-conversioni isteriformi- trascrizioni corporee (forme di arcaiche memorie su 'supporto organico'..?), che definiscono equilibri mai troppo armoniosi, sempre precari, 'eccedenti' e sbilanciati di qua o di là.
E così le esistenze svuotate delle anoressiche e i 'tutto-pieno' delle bulimiche; di come vuoto e pieno siano esperienze 'a priori' dello stare al mondo, di quanto siano fondamentali quei momenti perduti in cui madre-padre-figlio funzionano ed esistono scambiandosi pezzi di sè in un mutuo ancestrale banchetto.
Ma anche i vuoti spaventosi della/e memoria/e nelle patologie neurologiche, che espongono all'intrusione di un presente straniero e minacciano le identità costruite e consolidate nel tempo vissuto spazzandone via i ricordi.

Di fronte a tale designazione 'in negativo' del vuoto si contrappongono invece tutte le grandi correnti religiose, mistiche e meditative, dallo sciamanesimo al cristianesimo al buddhismo, che cercano nel vuoto la condizione della catarsi, del superamento di sè, della trascendenza. La psicoanalisi dal canto suo concede credito alla Parola, alla parola autentica che viene dal profondo e che si fa largo tra le pieghe del contingente mondano, ma anch'essa presuppone un vuoto dove poterla far risuonare.
Un 'risuonare vuoto', si dice di un corpo cavo percosso dall'esterno. Ma proprio in quel silenzio 'cosmico', proprio di quel singolare e misterioso microcosmo che noi siamo, permane la possibilità di udire infine le voci di dentro, quelle che le nostre vite moderne, agitate e spesso convulse, si affannano a scongiurare, ad allontanare e infine dimenticare, considerandole inutili residui, scorie di un tempo passato.
Anche il compito del 'paziente', e prima di lui quello del terapeuta, che glielo trasmette implicitamente, diventa quello di 'fare il vuoto' dentro di sé, di strutturare e consentire alla propria 'vacuità' di emergere in primo piano, facendo così tacere per il tempo della seduta il rumore di fondo del quotidiano.
Per poter ascoltare in modo nuovo se stessi (e gli altri) è necessario il silenzio del vuoto, che permetterà infine di ascoltare anche i propri silenzi.


F.Maddalena

lunedì 12 ottobre 2009

Achab, o della morte del Sé


Si parlava nel precedente articolo della difficoltà di superamento di profonde ferite, chiusure e asperità connesse ad un certo tipo di carattere, che a volte non permettono all'individuo di aprirsi al cambiamento, alla novità, alla possibilità dunque di una evoluzione psichica e spesso anche 'spirituale' della propria personalità. Un esempio letterario fra tutti, in cui tale chiusura si mostra nella sua forma estrema e si fa essenza stessa della persona, sua cifra esistenziale, unica 'ragione di vita' (e quindi 'di morte', ovviamente, come sapremo anche noi alla fine del romanzo di cui stiamo parlando).
Il personaggio in questione è quello di Achab, che Hermann Melville staglia nella solitudine accecante di una luce oscura, sulla scena di quell'affresco narrativo magistrale che è Moby Dick (o 'la balena bianca', nella tradizione letteraria, pubblicato nel 1851). A bordo del Pequod, che solca i sette mari a caccia di balene, Achab è il cinico e severo capitano che fa da contraltare all'altro personaggio principale del racconto, Ismael, un giovane mozzo al primo imbarco, che con le sue parole ci narra le dolorose vicende accadute alla nave e al suo equipaggio nell'ultimo, tragico incontro-scontro con la ineffabile balena bianca.
Achab ha giurato vendetta alla enorme e 'malvagia' balena, dall'inconfondibile manto latteo, che in un precedente episodio di caccia gli ha causato la perdita di una gamba, ma più ancora gli ha procurato una inguaribile ferita dell'anima, alla cui riparazione egli ha da allora consacrato la propria esistenza, secondo una primordiale legge del taglione. L'equipaggio è costretto dunque a seguire questa folle caccia del suo capitano, nel desiderio-timore di trovarsi finalmente di fronte la mostruosa creatura marina, che ha già distrutto innumerevoli lance e baleniere. Con lo scorrere delle pagine, mentre Achab è sempre più vicino al suo obiettivo, Ismael descrive la vita a bordo, la sua amicizia con l'indiano Queequeg, usi e costumi della vita marinara dell'epoca, ma in un crescendo di tensione per il finale che già si preannuncia tragico.
Negli ultimi capitoli Moby Dick viene infine avvistata; comincia l'inseguimento concitato con le lance che trasportano i marinai e Achab, alla loro testa, che li sprona fino allo stremo armato di arpione, assetato di sangue e di vendetta, che vede finalmente vicina. Raggiunta la preda, l'arpione viene scoccato e penetra nelle bianche carni della balena, che si contorce, salta, sbatte la coda e schianta le povere lance intorno a sé e minaccia finanche il veliero in una delle sue volute disperate, in un inferno di spruzzi d'acqua colorati di sangue. Ma Achab è rimasto impigliato nelle corde e la balena esausta ma invitta si inabissa portando con sé, come un macabro trofeo per l'abisso marino, il corpo del capitano, come crocifisso sul bianco dorso dell'animale, imprigionatovi per l'eternità dalle stesse corde del suo arpione...
Si potrebbe agevolmente scomporre l'universo simbolico creato da Melville in questo romanzo: il mare quale regno sconosciuto che alimenta le nostre paure, i 'mostri' che sfuggono all'intelligenza umana; la nave e l'equipaggio quali espressioni del 'consorzio umano' e di un microcosmo sociale (come anche, se vogliamo, di una 'gruppalità interna' alla psiche, di un insieme di personaggi-aspetti che costituiscono l'intero Sé della persona); la balena bianca quale simbolo di una realtà trascendente, del 'Male' e delle indecifrabili profondità del mondo; quindi il capitano Achab che con ostinata, spietata determinazione cerca di imprimere la sua volontà sulla natura, perseguendo l'obiettivo della sua vita, senza desiderare altro che il momento in cui la sua vendetta sarà realizzata e 'il Male' finalmente annientato.
Ma l'intuizione di Melville è profonda ed è resa con la maestria che solo un artista può avere, quando ci fa sapere che l'unico sopravvissuto al disastro è Ismael, il giovane mozzo (salvo perchè aggrappatosi alla bara dell'amico Queequeg, precedentemente morto, galleggiante sulle acque..), non a caso 'il più giovane' membro dell'intero equipaggio, che potrà così tornare alla vita, trasformato e cresciuto, e raccontare al mondo dell'immane ed eterno scontro tra Bene e Male.


mercoledì 23 settembre 2009

Ethos anthropoi daimon


Solitamente queste parole attribuite ad Eraclito sono tradotte con 'il carattere di un uomo è il suo destino' (se traduciamo il termine 'daimon' appunto come 'carattere', piuttosto che 'genio personale' o 'démone' nel senso della psicologia archetipica) a significare che è il carattere di una persona a determinarne più di ogni altra cosa il suo futuro e la qualità della sua esistenza, al di là degli eventi più o meno favorevoli che gli possono accadere, delle infinite pieghe del caso e dell'influsso costante dell'ambiente fisico e psichico in cui è immersa. La teologia cattolica identifica nel carattere quel segno indelebile impresso nell'anima ad opera del battesimo e di altri sacramenti e per esteso il complesso delle qualità spirituali di un individuo. La psicologia vi scorge l'insieme delle disposizioni psichiche e dei modi tipici di un individuo di reagire e comportarsi; 'caratteriali' è il termine, oggi un po' desueto in verità, usato in psicopatologia per indicare quei soggetti che rispondono in genere a qualsiasi input in un modo eccessivamente rigido, tale da sconfinare spesso in un agito comportamentale reattivo.
Possiamo quindi paragonare il carattere allo 'stile' di una persona, al modo abituale in cui risponde alle sollecitazioni interne ed esterne, a quella 'coerenza' personale che la contraddistingue nel suo modo di agire e di pensare. Il concetto di carattere si riferisce pertanto alle strutture profonde della personalità, quelle che sono solitamente più resistenti al cambiamento.
L'idea eraclitea – giusta la corrente interpretazione di quella famosa frase – è quindi che le nostre vite siano in ultima analisi determinate da 'come siamo fatti intimamente', che la nostra realizzazione individuale dipenda da questa nostra originaria strutturazione della personalità – come un nocciolo duro al fondo delle 'sovrastrutture' sociali e culturali che assorbiamo nel tempo – e dalle dinamiche che si sprigionano intorno a questo nucleo caldo che reagisce alle variazioni del mondo circostante.
Nella storia della psicoanalisi, particolarmente vicino a tali tematiche fu Wilhelm Reich che, insoddisfatto dei metodi canonici che allora si usavano per analizzare le resistenze, agli inizi degli anni ‘30 elaborò una nuova procedura che chiamò "analisi del carattere" e che segnò di fatto un notevole arricchimento per la teoria psicoanalitica. In psicoterapia è oggi sempre più riconosciuto come il carattere di una persona sia un elemento centrale nella considerazione delle sue effettive capacità trasformative e per l'espressione delle sue potenzialità di crescita e di evoluzione psichica.
E a considerare certi percorsi psicoterapeutici di pazienti coi quali condividiamo, in qualità di 'compagni di viaggio', un più o meno lungo tratto di strada, viene in effetti da riconoscere quanto sia vera l'affermazione eraclitea. Certe particolari difficoltà, certi 'blocchi' granitici su cui si impegnano strenue difese contro un qualsiasi cambiamento e si moltiplicano le resistenze interiori al processo terapeutico, sono inquadrabili appunto in una 'economia caratteriale' deficitaria o altamente conflittuale, che può arrivare a pregiudicare l'esito di una terapia per l'impossibilità di modificare una intima rigidità, intesa in senso ampio, psicofisico, come atteggiamento quasi 'reattivo-posturale' nei confronti del mondo esterno e in senso psicologico quale visione cristallizzata del proprio essere e del proprio futuro. Una sorta di incapacità di immaginare possibili diversi scenari in cui declinare la propria vicenda esistenziale.
Se dunque il carattere ci fornisce quell'impronta indelebile che ci distingue da qualsiasi altro, consentendoci di esprimerci in sintonia con noi stessi rassicurati dalla autopercezione di una identità indissolubile, esso può divenire anche un troppo rigido assetto mentale, un' eccessiva affermazione di alcuni singoli 'tratti' all'interno di un insieme sfaccettato e multiforme, che ci impedisce di fatto di crescere al passo con le esperienze che quotidianamente viviamo e di aprirci al cambiamento e al nuovo in noi e fuori di noi.

F.Maddalena

martedì 25 agosto 2009

Siamo un dialogo



La psicoanalisi è mutevole. Non solo intrinsecamente, nella propria essenza di apparato teorico e culturale, soggetto a continui sviluppi, arricchimenti, ravvedimenti, abiure, da quando Freud ebbe l'idea di far stendere qualcuno su un lettino per ascoltarne parole e silenzi. Ma anche nella prassi che ne segue, nel quotidiano operare del terapeuta che traduce nel rapporto col paziente tale mutevolezza 'ontologica' e che incarna le sempre più numerose 'correnti teoriche' (e metodologiche) di cui la psicoanalisi è oggi espressione.
E' questa particolarità anzi che ne fa un qualcosa di vivo, un discorso sempre aperto e in continua espansione, un universo infinito dove il Tempo rappresenta tuttavia l'elemento centrale del processo, con le sue infinite ripetizioni e variazioni su tema.
Per definizione, la psicoanalisi è un processo trasformativo che trae la propria ragione d'essere, la propria linfa vitale, nonché la sua giustificazione concettuale, dal cambiamento, o meglio dal Cambiamento; desiderato, cercato, atteso, forse solo sperato, comunque mitizzato ed inteso quale causa e meta dello sviluppo psicologico individuale e collettivo. Ma se il Cambiamento è il propulsore del 'meccanismo' analitico, esso viene invece perseguito-inseguito dagli 'attori' analitici (T e P) mediante lo strumento del Dialogo.
La parola dialogo deriva dal greco ed è composta da due elementi: dia e logos. Logos sta per 'parola', 'significato', ed in extenso per 'ragione'. Dia invece significa in mezzo a, o metà a metà. Quindi 'dia-logos' vuol dire che il senso, il significato, emergono dal rapporto, dalla relazione di senso che si stabilisce tra gli attori-agenti, e non appannaggio dell'uno o dell'altro.
Il senso allora è un 'logos condiviso' (e/o condivisibile, ma qui il discorso si farebbe più complesso1..) ed è espressione di una alterità. Il significato, o i significati, di cui siamo in perenne ricerca, emergono dunque dal rapporto, nello scambio della dimensione intersoggettiva. E solo in esso, verrebbe da aggiungere, pena la riduzione dell'orizzonte dialogico condiviso ad una solipsistica affabulazione dell'Io se-dicente, ad una autarchica affermazione del soggetto (il 'supposto sapere' lacaniano, ad esempio, declinabile nella posizione non solo del terapeuta ma anche, in alternanza, in quella del paziente, che restringe così la propria esistenza consegnandola alla nevrosi).
Gli attori della scena analitica costruiscono-decostruiscono-ricostruiscono giorno dopo giorno lungo il tragitto terapeutico il senso del mondo (privato e condiviso), a partire da quegli elementi soggettivi di entrambi che possono essere accostati in una visione d'insieme. Il Cambiamento è allora insito nella possibilità di far convivere tali differenti elementi di base affinchè producano nuove prospettive e nuovi scenari per la mente.
La 'ontologica' mutevolezza della psicoanalisi ci ricorda sempre, e questo è forse il suo più prezioso contributo, che 'siamo un dialogo'.

F.Maddalena


1 Nel senso di 'aperto potenzialmente' alla condivisione, ma non 'necessariamente'..

lunedì 15 giugno 2009

Anime digitali


Come dicono da molti anni ormai i sociologi, ma come ci avevano già mostrato la letteratura e il cinema, in libri ed immagini divenuti di culto (bastino due sole citazioni in proposito, una per parte: 1984 di Orwell e Metropolis di Lang),
siamo di fronte ad una accelerazione della già profonda trasformazione delle nostre società, che sotto la spinta del progresso tecnologico e dell'organizzazione del lavoro in modalità seriale e iperspecializzata ha travolto ormai la concezione tradizionale dell'individuo centrata su un assetto identitario costante e ben definito nelle sue caratteristiche costitutive.
La globalizzazione, se vogliamo, non è che l'aspetto economicamente centrato della odierna massificazione delle coscienze e l'esportazione su scala planetaria della condizione umana post-moderna, fatta di individui che in ogni parte del mondo fanno le stesse cose, vivono la stessa vita, patiscono gli stessi desideri irrealizzabili e sognano le stesse immagini (magari il fondale degli spot della Coca Cola!).
Qualcuno potrebbe addirittura obiettare che l'ideale 'comunista', o almeno una sua ibrida versione, abbia finalmente trovato la sua dimensione terrena, se non fosse che di 'comune' nelle nostre società moderne non c'è che il disperante sentimento di isolamento, di essere soli in mezzo alla folla, di non aver più accesso alla dimensione simbolica dello scambio umano e di quella alterità che genera senso e significato all'esistenza individuale.
Come tutto questo si rifletta nell'ambito psicologico individuale e intersoggettivo è ben visibile nelle nostre attuali esistenze, nelle modalità di interazione sociale, nella condizione alienante del 'buon consumatore', che si lascia prendere per mano dalle compulsioni al possesso e dai 'consigli per gli acquisti' fin quasi dalla culla (e così via regolarmente, fino alla tomba).
Lo stesso 'ambiente' in cui viviamo le nostre esistenze odierne, le 'città' di un tempo, sono oggi qualcosa di più simile ad agglomerati urbani in continua, incontrollabile espansione, che si connettono tra loro come accelerate proliferazioni dendritiche osservate al microscopio e che hanno nei centri commerciali (come un po' in tutti i famosi 'non luoghi' di Marc Augè: aereoporti, stazioni, metropolitana, etc..) le nuove cattedrali, nuovi punti di aggregazione in cui le differenze individuali si annullano e emerge il codice unico della specie.
Quindi il web, nuovo grande mediatore e collettore dell'immaginario moderno, che per certi versi supporta e alimenta questa condizione di alienazione dell'uomo moderno ipertecnologico con le sue 'repliche' virtuali (il modello di Second Life, ma anche la possibilità di dinamiche interpersonali fortemente sbilanciate in termini di ambiguità e illusorietà che si determinano su cosiddetti 'social networks').
Anche la psicologia e la psicoterapia quindi hanno di fronte il compito urgente di inquadrare l'esatta portata di tali scenari esistenziali in rapida trasformazione, per proporre idee nuove alle persone, poterne decifrare i nuovi e angosciati silenzi e rispondere alle mutate forme in cui si esprime oggi la sofferenza mentale.
La stessa idea di un 'Io' coeso, solido, quasi rassicurante nelle sue narrazioni nevroticizzate o cristallizzate nelle psicosi, come ce l'avevano trasmessa Freud e la psicoanalisi fin quasi alla soglia del secolo scorso (il XX, si intende), ha oggi lasciato il posto alla 'liquidità' - secondo il termine coniato da Z.Baumann - delle identità soggettive, alle versioni discontinue di una psiche moderna frammentata in sotto-identità parziali che perdono il senso del loro esserci e della loro potenziale narrazione in termini di vissuto condiviso e riconosciuto, come in modo drammatico si osserva nelle nuove forme di disagio delle fasce più giovani della popolazione.
Questa sembra la sfida oggi più importante per le attuali scienze dell'uomo: riuscire a tracciare un quadro coerente delle profonde trasformazioni psichiche e socio-culturali in atto nelle società moderne e delle conseguenti ripercussioni in termini di manifestazione del disagio psichico e interpersonale, del malessere di quella che oggi potremmo definire un'anima 'digitale'.

F.Maddalena

mercoledì 8 aprile 2009

Se la terra trema



Trema oggi la terra, dove la vita dell'uomo nasce, cresce e si costruisce giorno dopo giorno, dispiegandosi ed arricchendosi come Individuo e Persona, nel tempo degli uomini.
Non occorre scomodare la filosofia antica e moderna per rinvenire in Spazio e Tempo le coordinate dell'esistenza umana: l'uomo è il prodotto della congiunzione di tali elementi basali, la sua mente è fatta e funziona solo in virtù di tali coordinate, che gli consentono di definire un sé e un Altro, un dentro e un fuori, un qui e un altrove, un adesso, un già, un non ancora...
Congiunzione tra Terra Madre e Tempo Padre, dunque, che nella esperienza drammatica del sisma risultano stravolti; il tempo è come sospeso, lo spazio è abolito nella sua dimensione stabile, affidabile, definita...
La terra non è più una superficie sicura, un piedistallo su cui la figura umana si es-pone in plastica posa ma qualcosa di violentemente cangiante, che avvolge nei suoi spasimi le forme e le mastica e le distrugge sbriciolandole. Le certezze umane, che ci si costruisce giorno dopo giorno, crollano come gli edifici gravati dal tempo o resi più deboli dall'ignavia degli uomini.

L'esperienza psicologica di un terremoto, come quello che sta devastando in questi giorni la terra abruzzese, sembra ricondurre a ritroso la mente dell'uomo a quel 'limen' invalicabile della sua stessa costituzione, all'esperienza originaria della fondazione di sé che rappresenta il momento della sua nascita psicologica in quanto individuo separato, che avviene dopo quella fisica del parto, che sancisce l'avvenuta separazione dal corpo della madre.
L'esperienza della separatezza, intesa quale condizione e processo e non come semplice atto, deriva da tale avvenuta intima 'catastrofe' che segue la consapevolezza di essere uno e distinto dall'Altro-da-sè, dall'essere espulsi dalla confusione-fusione del corpo-mente della madre-mondo esterno..
Avvicinarci a tale pensiero impossibile, o meglio alla sua percezione indistinta, e poterlo tollerare nella sua immane intensità affettiva, grazie alla presenza rassicurante della coppia madre-padre, spazio-tempo, è tuttavia qualcosa di semplicemente vitale che permetterà alla mente, come mitico Atlante, di sostenere tutto il peso del mondo, e al bambino di diventare ragazzo e poi adulto.
Laddove ciò sia reso difficile o anzi impossibile, ce lo ricorda la catastrofe immanente e pur sempre ancora incombente che caratterizza la condizione della mente psicotica, dove la coppia genitoriale è perennemente separata e aggredita e distrutta, dove spazio e tempo sono solo fondali di cartone strappato che non nascondono il buio e il vuoto retrostanti.
E il sisma sembra ricordarci tutto questo; 'voce di Dio' che parla per ricordarci la nostra finitezza terrena, che ci pone impietosamente dinanzi la dimensione ontologica più vera - e per questo anche più rimossa - dell'uomo, la sua fondamentale fragilità.

F.Maddalena

sabato 28 febbraio 2009

Alice delle meraviglie


Capitolo I
Nella tana del coniglio


Alice cominciava a non poterne più di stare sulla panca accanto alla sorella, senza far niente; una volta o due aveva provato a sbirciare il libro che la sorella leggeva, ma non c'erano figure né dialoghi, “ e a che serve un libro – aveva pensato Alice – senza figure e senza dialoghi?”
Ragion per cui stava cercando di decidere fra sé (meglio che poteva, perchè il caldo della giornata la faceva sentire torpida e istupidita) se il piacere di confezionare una collana di margherite sarebbe valso la pena di alzarsi e cogliere i fiori, quand'ecco che d'un tratto le passò accanto di corsa un coniglio bianco dagli occhi rosa.In questo non c'era niente di tanto notevole, né ad Alice parve dopotutto così straordinario sentire il Coniglio dire tra sé:”Povero me! Povero me! Sto facendo tardi!” (ripensandoci in seguito, le venne in mente che avrebbe dovuto meravigliarsi, ma lì per lì la cosa le sembrò assolutamente naturale); ma quando il Coniglio estrasse veramente un orologio dal taschino del panciotto, lo guardò ed affrettò il passo, Alice saltò in piedi, perchè le balenò nella mente di non avere mai visto prima di allora un coniglio fornito di panciotto e di taschino, per non parlare di orologi; e bruciando di curiosità lo inseguì di corsa per il campo, facendo appena in tempo a vederlo sparire in una gran buca sotto la siepe. Un attimo dopo Alice si era infilata dietro a lui, senza minimamente riflettere a come avrebbe poi fatto per uscire.
Per un po' la tana si prolungava come una galleria, ma a un certo punto sprofondava all'improvviso, tanto che Alice non ebbe neanche un momento per pensare e fermarsi; e si trovò a precipitare giù per quello che pareva un pozzo assai profondo...



Così inizia il libro di 'Alice nel paese delle meraviglie', opera celeberrima scritta nel 1864 da Lewis Carroll, al secolo Charles-Lutwidge Dodgson, professore di Matematica all'Università di Oxford e per certi versi eccellente esempio della duplicità ipocrita e benpensante dell'epoca vittoriana.
Dal pensiero conservatore fino al fanatismo in questioni attinenti la morale, la religione, la politica, egli si rivela anche un 'geniale artista' della parola (chissà se egli stesso si rese pienamente conto di poter incarnare per i posteri una tale definizione..), che nell'opera d'arte trascende il suo quantum individuale, limitato e prevedibile, per accedere alle sublimi sfere dell'Ispirazione.
Poiché Alice è la sua musa ed egli attinge suo tramite a dimensioni ctonie e superne di insospettabile profondità psicologica, dove si intrecciano tematiche esistenziali individuali e relazionali espresse da una simbologia che molto ha offerto all'indagine psicoanalitica, più e meno recente.
Come tutti sanno, la storia narra di una bimba che seguendo un coniglio bianco finisce nella sua tana, in una buca del terreno, da dove inizia la sua avventura in una specie di sotterraneo 'mondo parallelo' abitato da persone caricaturali e bizzarre ed animali parlanti, e il suo procedere di incontro in incontro la conduce 'Attraverso lo specchio' (titolo della seconda parte del libro, che evoca l'attraversamento di una soglia e che rimanda ad una tematica di rapporto con la propria immagine e con il Sé), in una dimensione dove solo apparentemente le cose sono come nel mondo 'reale' e dove tempo e spazio si alterano e si deformano costruendo attorno ad Alice una atmosfera oniroide e a tratti inquietante per l'effetto di estraneamento che ne risulta.
I temi della caduta-scivolamento, del 'perdersi' in una dimensione sotterranea, sono chiaramente evocativi di un topos letterario che in altri contesti riceverebbe la poco rassicurante definizione di 'discesa agli inferi', da intendersi nel senso di un progressivo contatto, di una immersione o 'bagno catartico' (e l'elemento acqua ha nell'opera una particolare potenza evocativa) con la dimensione inconscia del Sé. E la storia, che era cominciata come una leggiadra favoletta di bimbe annoiate e conigli bianchi, si tinge di colori forti e cupi, di lotte per il potere e di pericoli mortali, sempre restando però nella cornice ambigua e distanziante di una amena passeggiata nella fantasia...


F.Maddalena

mercoledì 7 gennaio 2009

Parole

La psicoanalisi si dice fondata sulla parola.
Singolare paradosso, poiché essa in realtà si confronta con il territorio silenzioso, sconosciuto e smisurato della Psiche, popolata di affetti e di immagini (“Hic sunt leones..”), ivi operando con essi quella necessaria commistione che rende possibile l'incontro di presente e passato. Potere del Logos, che immergendosi nelle acque oscure del caos primigenio, ne risorge trasformato, redento e redentore.

'Talking cure' la definì in modo naif ma efficace una delle prime pazienti di Freud, la giovane Anna O. degli 'Scritti sull'isteria'(1895), e non si potrebbe pensare a definizione più calzante ed intuitiva.
E in fondo cosa fece Freud di tanto originale ed innovativo se non costruire uno scenario ad hoc entro cui le parole, certe parole, potessero essere realmente pronunciate, ascoltate, osservate, scavate, infine custodite o finalmente dimenticate..?

Al di là delle teorie e delle ipotesi (fatte sempre di parole, ma sgrossate in forma di concetti levigati, più o meno scintillanti, transeunti, deperibili..) di cui la psicoanalisi si ciba, il metodo picoanalitico, cioè la parola detta, costituisce il fulcro della cura, la sua sacralità ineffabile.
La parola della psicoanalisi è una parola piena, pesante di affetto, di emozione, di storia, corpuscolo opaco che effonde intorno a sé un campo denso di significato, onda energetica che emana dal vissuto del pronunciante ed
investe e permea l'atmosfera della seduta.
Essa rifugge sempre il mondano 'pour parler' e rifrange gli sfavillii del contingente, imponendosi con la forza di una necessità, con l'autorità di una legge, con la persuasione di un'inevitabile scoperta.

E' la parola che disvela, ma anche quella che nasconde, che avvicina oppure allontana da ciò che contiene al suo interno, parola-anima che connette – compito sovrumano - desiderio e ragione, corpo e spirito.
E' la parola autentica, Verbo mistico che si fa carne nella tensione impossibile del ricordo e che riconduce all'esperienza ineffabile dell'Uno dove forma e sostanza si annullano. Ma è anche la parola assente, la parola mancante, il mai detto, mai saputo, o mai confessato. Vuoto creatore sorgente di tutte le forme (“Nomina nuda tenemus..”).

Parola che è diretta ad un altro, e ad un 'Altro',
presenza che il terapeuta evoca e impersona ogni volta per il tempo della seduta e quindi congeda restituendola all'Aldilà della memoria.
Parola-scambio che attesta la democratica reciprocità del dire adulto.

Parola-dono che segnala una avvenuta e intima designazione (“Tu, mio interlocutore, sarai l'unico depositario dei miei pensieri e delle mie parole..”).
Parola-schermo, dove invece l'intimità si ritrae (“Parole soltanto parole parole tra noi..”).
Parola finale che prepara al commiato, laddove il dicibile è stato pronunciato, e“..Tutto il resto è silenzio.”

F.Maddalena