mercoledì 12 novembre 2008

Melius Abundare ...?

Ospitiamo in questo spazio il contributo dell'amico e collega A. Carusi, che in questa ironica e spassosa provocazione ci presenta un personaggio 'scomodo', solitamente occultato tra i recessi della stanza di analisi...

Melius Abundare...
ovverosia :
“Far lavorare 'il deficiente': una riflessione”
di Antonello Carusi

C’e un “deficiente” nel terapeuta (1). E’ in azione costantemente. Rappresenta o no una minaccia alle capacità di comprensione e di relazione necessarie per lo svolgimento del lavoro psicologico? Si manifesta attraverso i vuoti di attenzione e di memoria, con la distrazione, l’assenza di empatia e la noia suscitata dalla presenza e dalle comunicazioni del paziente. Che fare del 'deficiente'? E’ pensabile il poterlo neutralizzare per ridurre al minimo eventuali effetti nocivi del suo operato? Se sì, attraverso quali strategie, tecniche o contromisure? E inoltre: qual’è il peso, l’incidenza del suo operato sulla riuscita del lavoro clinico? Questi interrogativi animano la presente riflessione, e ad essa offrono lo spunto per avviare un’indagine il cui obbiettivo sia di portare in luce, se possibile, il “senso” dell’azione di disturbo esercitata dal deficiente - qualora essa ne abbia uno.

Freud raccomandava ai terapeuti l’assunzione di uno stato mentale che definiva concisamente col termine di attenzione fluttuante. A ben vedere, l’attenzione fluttuante è affine alla condizione che caratterizza il deficiente nel terapeuta. Forse Freud ha concepito l’attenzione fluttuante quale strumento elettivo per l’accesso all’inconscio nel tentativo di dare una collocazione, un posto, una legittimazione al 'deficiente'. Effettivamente, quando un essere umano si dispone nella condizione di prestare attenzione e ascolto allo scopo di recare aiuto al suo interlocutore attraverso la comprensione delle sue comunicazioni verbali, il deficiente è fuori gioco, estromesso, forse represso; in un certo senso “rimosso”.
Ma che tipo di comprensione scaturisce da tale tipo di attenzione? 'Il deficiente' non è interessato a comprendere? Anzi… il contrario. 'Il deficiente' non si lascia incantare dalle parole; è come un animale. Sembra piuttosto vivere di una percezione atmosferica, umorale, non intellettiva. Vorrei che questo scritto fosse un’espressione quanto più possibile diretta del 'deficiente' che è in me, che sue fossero le parole. Dunque, parola 'al deficiente'.

La psicoterapia è un lavoro dalle infinite sfaccettature. E’ un lavoro…Già, direi proprio di sì.'Il deficiente'torna spesso sui suoi passi, ama rimirarsi in ogni sua manifestazione, sembra che cerchi uno specchio che ne rifletta il volto, i lineamenti. Pertanto la sua scrittura – come ogni altra sua forma di espressione - è lenta, rimuginante, reiterante, autoriflessiva, e -apparentemente - priva di scopo e frammentaria.) Se 'il deficiente' è veramente considerato tale è difficile che venga allo scoperto. Come la “Natura” di Eraclito, di esso si potrebbe dire che “ama nascondersi”. Forse per questo è il mestiere dello psicoterapeuta che meglio di ogni altro gli si addice. Per attivarsi ha bisogno di un interlocutore, un “altro da sé “, un’eco deficiente che risuoni nella stanza di terapia, soprattutto quando paziente e terapeuta non sono più presenti sulla scena.

Credo che sia il deficiente il vero artefice della tecnica psicoterapeutica di ispirazione analitica. La “libera associazione”, l’ “attenzione fluttuante”, la passione per la scomposizione e l’analisi dei sogni, l’ “interpretazione”, sono farina del suo sacco. Tutto questo ci riporta all’origine, ai primordi dell’esperienza psicoanalitica e umana. Sembra che il deficiente sia perennemente impegnato nel compito di coniugare “piacere” e “dovere”; con le parole di Freud: “amore” e “lavoro”. Ma, soprattutto, non ama correzioni. I problemi legati all’insofferenza della disciplina, l’ipersensibiltà al giudizio, lo spirito di ribellione alle regole, riflettono l’attitudine del deficiente a sottrarsi ad ogni forma di controllo esterno. Non si attiene ai canovacci del senso comune, ma segue altre piste, altre traiettorie. Forse altre regole.

E’ difficile collocare da qualche parte, in un sistema definito di pensiero, l’attività creativa.Per definizione “creativo” è ciò che forza i limiti del conosciuto, del già noto… Agli albori il nuovo appare sempre come un aspetto eversivo o inadeguato, forse carente o abnorme o, appunto, deficitario. Alle spalle occhieggia l’idea di “norma”: lettera morta, in senso fenomenologico. Chi vuole essere “intelligente”, o meglio considerato tale dagli altri, aborre il “deficiente”, che ai suoi occhi rappresenta una vera minaccia. Così le cose vanno al rovescio di quel che sembrano all’apparenza. Che sia in ciò la radice di quel capovolgimento di senso che la psicoanalisi applica alle espressioni deficitarie dell’esistenza umana? Forse per questo la “patologia” è il dominio indiscusso del deficiente. “Vita che ama nascondersi”, la si potrebbe definire, parafrasando ancora il vecchio Eraclito. Vita che quando è còlta, definita, oggettivata e legittimata, appartiene ormai al museo delle reminiscenze, al dominio del ricordo.

Non si va dallo psicoterapeuta se non si è impegnati in un’aspra lotta col deficiente. Ci tiene in basso, ci ostacola, ostruisce la comprensione, generà nausea di sé, disistima, o al contrario – un senso di autoesaltazione che ai colpi di mannaia del biasimo altrui reagisce con la rabbia, la depressione, il disprezzo o l’indifferenza. Ciò che è semplice ed elementare attira irresistibilmente, e questo spiega lo strapotere del deficiente. Quella “patologia della forza” che ne definisce il carattere diventa un bastione, e fa di esso una cittadella medioevale inespugnabile che non si lascia sottomettere all’avanzata del progresso metropolitano dell’io, in ogni sua forma di espressione. La “regressione”, sembra essere l’obbiettivo del deficiente. Tuttavia l’intelligente potrà accoglierla solo dopo averla specificata nei termini di un “servizio” che il deficiente dovrebbe rendere all’io, colla buona pace di tutti e un sorriso di benevola condiscendenza stampato sulla faccia del terapeuta.

Coll’avanzare degli anni - e del cancro alla mascella – Freud s’è fatto più cupo e pessimista, forse perché doveva progressivamente rendersi conto dell’impossibilità del compito che l’intelligente,col quale amava identificarsi, s’era posto. “Bonificare”, “prosciugare”, “normalizzare”… il deficiente. La sua “pulsione di morte”, vista da quest’angolatura, sembra essere la messa a morte del deficiente stesso, rivelatosi intrattabile. La rabbia assassina del buon padre che non sopporta più il figlio handicappato, la vergogna della famiglia…
E la chiave pass-partout che generazioni di psicoanalisti si ritroveranno tra le mani quando il clima dentro la stanza di terapia si fa troppo rovente, e l’intelligente non riesce più a dare un senso all’esperienza che sia conforme alla sua visione delle cose.

'Il deficiente' non si lascia incantare. E’ recalcitrante all’ipnosi, non sviluppa “transfert”… E’ desolatamente e irrimediabilmente isolato. E’ la risposta coerente alle manovre seduttive dell’intelligente ragionevole e disciplinato, l’ ”adulto”, contrapposto al “bambino perverso polimorfo”, altro storico epiteto psicoanalitico del 'deficiente'. Se le cose stanno così è un dato obiettivo che l’anima del processo psicoterapeutico sia 'il deficiente' stesso. Un dato destinato pertanto a restare occulto, ovvero “inconscio”, allo sguardo indagatore dell’ intelligente.

Qui concludo questa breve riflessione, non ignorando tuttavia che
“…manca ancora una adeguata concettualizzazione 'del deficiente'…”


1Si voglia benignamente prendere in considerazione la derivazione latina del termine 'deficiens' quale part. passato di 'deficere' ('mancare').

martedì 21 ottobre 2008

Il potere dell'immaginazione (2a parte)

(continua)
Si va così palesando un sempre più evidente rapporto funzionale tra l’immaginazione ‘attiva’ e le esperienze di significato archetipico: la prima può introdurci nella profondità delle seconde. Jung concepiva infatti gli archetipi come fattori costanti, autonomi, come strutture di significato ‘dominanti’ della psiche, paragonabili alle categorie a priori di Kant e appartenenti alla dimensione inconscia della mente (laddove Husserl invece identifica il suo ‘regno eidetico dell’a-priori’, avente una natura ‘trascendentale’, con un settore dell’ego cosciente). Anche rispetto al carattere di ‘realtà’ di tale dimensione archetipica, la posizione di Jung riecheggia quella kantiana in cui si ribadisce che la conoscenza è possibile soltanto attraverso ‘apparenze’ (o, appunto, per mezzo di ‘rappresentazioni immaginative’), ma con la sottolineatura di una ‘efficacia’ causale che si manifesta e trae il suo carattere di realtà (almeno in termini fenomenologici, cioè attinenti la sfera psicologica soggettiva) da ciò che esercita un’influenza sulla psiche. “Gli archetipi hanno fondamento in egual misura nella psiche - vale a dire nell’immaginazione, poiché ‘immagine è psiche’ - e nel mondo materiale.” [1]
Gli archetipi, dunque, forniscono significato all’essere, ma tale significato è inseparabile dalle immagini nelle quali è incorporato, per cui esso è sempre espresso non concettualmente attraverso la parola, che de-finisce e limita, ma metaforicamente e grazie al simbolo, per sua natura ‘insaturo’,cioè aperto a molteplici interpretazioni e ad ulteriori trasformazioni.di significato. L’immaginazione attiva è dunque una specie di spontanea amplificazione degli archetipi. Un mezzo per liberare le loro prolifiche potenzialità è immaginare attivamente e rendere psichicamente reali i modelli archetipici attuali, capaci di effetti sulla vita psichica dell’immaginante: “Vi sono certe condizioni inconsce collettive (leggi: archetipi) che agiscono come regolatori e stimolatori dell’attività creativa (cioè immaginativa)[2]; è infatti sufficiente osservare come sogni e fantasie perdano il loro iniziale carattere frammentario quando vengono assunti sotto differenti dominanti archetipiche.
Le profondità archetipali della mente sollecitano quindi l’emergenza di strutture di significato ‘trascendente’ che si manifestano attraverso l’esperienza simbolico-immaginativa. Il simbolo, che assolve una funzione sintetica fondamentale tra conscio e inconscio, è quell’elemento-immagine che rappresenta il ‘ponte’ che consente di contattare il sovrasensibile e in termini energetici converte e orienta le caotiche energie psichiche primarie in una esperienza di significato per la psiche individuale.
Ciò è evidente nell’ambito dell’esperienze religiose, spirituali, nell’attività mitopoietica, in quelle cioè che per eccellenza rappresentano le attività distintive della mente umana che risente della prossimità del ‘divino’, come anche in quelle manifestazioni dello spirito che definiamo in termini di esperienze ‘rituali’.
Il racconto mitologico, i mitologemi, rappresentano l’elemento originario che salda cosmo e psiche in una visione cripto-poetica-immaginativa della realtà vissuta dall’uomo, che diventa così co-autore del suo destino insieme agli Dei: “La molteplicità degli dei corrisponde alla molteplicità degli uomini e innumerevoli dei attendono di diventare uomini. Innumerevoli dei sono stati uomini. L’uomo partecipa della natura degli dei.”[3] Possiamo dedurne che in definitiva sia proprio attraverso l’immaginazione ‘ispirata’ dalla dimensione archetipica che diventi possibile quella condizione particolare di ‘vibrazione’ o ‘frequenza’ psichica che consente l’accesso alle divinità, sia in forma di mitologemi - che sotto la scorza narrativa appaiono sempre vivi e fecondi nella loro valenza sapienzale e maieutica - come più intensamente nelle esperienze religiose, estatiche, mistiche, magiche, le più varie e in tutte le latitudini del mondo:“Gli archetipi corrisponderebbero a forme immaginali divine usate quali categorie concettuali aristoteliche o kantiane. Invece di leggi logiche o scientifiche, le figure mitiche offrirebbero le strutture a priori presenti nelle caverne e negli antri della infinita immaginazione.”[4]
Riguardo al ‘rito’, poi, la creazione immaginale, esperita e diluita attraverso una prassi rituaria, consente di strutturare un luogo interiore, un ‘recinto sacro’ (temenos), in cui intense dinamiche psico-energetiche possono essere vissute in maniera non destabilizzante per l’equilibrio mentale soggettivo, poiché:“In quanto operazione avvolta in una rete simbolica, il rito introduce nel processo individuativo una specifica attivazione energetica mediata dal simbolo.”[5]
Il rito rappresenta dunque quella funzione contenitiva che protegge la sfera cosciente dall’irruzione dei contenuti inconsci. La strutturazione del rito - con la sua ripetizione, la regolarità, la codificazione, il ‘metodo’ - è quindi funzionale a stabilizzare la mente di fronte all’ignoto conferendo al pensiero quegli argini, quei limiti necessari affinché ci si possa accostare alla dimensione ignota, sovrasensibile, divina che acquista così per il soggetto la dimensione interiore del ‘sacro’. Anche qui però l’equilibrio tra creatività e coazione - tra vita e morte dello spirito - è sempre fragile e il rito rischia di degradarsi a ‘rituale’, a vuota e ossessiva celebrazione di atti meccanici che hanno perso l’aggancio con le dimensioni profonde di creatività e di rinnovamento energetico della mente. Allora è la stasi, la sterilità, la vuota forma priva di linfa vitale.[6]
Mantenere in vita questa ‘funzione immaginativa’ della mente, quindi, e saperla opportunamente utilizzare attraverso modalità che ne consentano una fruizione in termini di crescita individuale e spirituale, rappresenta allora un vero ‘potere’ nel senso di cui si diceva prima, quello cioè di predisporre la mente ad ‘attrarre’ il divino. Distinguendo tra immaginazione cosciente, o volontaria, e forme ‘attive’ e infine ‘archetipiche’ in cui la presa del reale ‘mondano’ diviene progressivamente meno vincolante, si giunge così a quelle regioni intermedie che Henry Corbin definisce in termini di ‘mundus imaginalis’, luogo di accadimenti teofanici che alimentato dalla corrente profonda dell’inconscio produce il rinnovamento spirituale e giunge ad esperienze vivide di una genuina visionarietà quasi profetica. Corbin parla di questa immaginazione visionaria definendola ‘magica’ - riprendendo lo scenario culturale e operativo della tradizione alchimistica - nel senso in cui essa permette una ‘trasformazione della materia (il mondo oggettuale) in corpi sottili’, cioè in un processo di ‘spiritualizzazione’ delle cose attraverso il potere immaginativo della mente, espressione quest’ultimo della funzione ‘mercuriale’ di mediazione e sintesi tra sensibile ed intelligibile.


F.Maddalena



[1] C.G.Jung,Opere vol.VIII, Ed. Boringhieri.
[2] C.G.Jung,Opere, vol.XIII, Ed Boringhieri.
[3] C.G.Jung, Ricordi,sogni,riflessioni’, Ed.Magi 1991.
[4]J.Hillman,‘Re-visione della psicologia’, Adelphi 1975.
[5] D.Kertzer, Riti e simboli del potere, Laterza 1989
[6] Si ricordi il tema fondamentale del ‘Re malato’ nel ciclo letterario del Graal.

mercoledì 24 settembre 2008

Il potere dell'immaginazione (1a parte)




Il titolo riecheggia un famoso slogan in auge qualche decennio fa, quando per le strade del mondo camminavano ‘i figli dei fiori’ e l’immaginazione era (o meglio ‘si voleva’, con quel misto di idealità ed ingenuità tipica dei giovani) al potere, spesso ricorrendo all’utilizzo di droghe ‘psichedeliche’, che avevano cioè lo scopo di ‘aprire’ le porte della percezione verso nuovi orizzonti di senso e di pienezza dell’essere. Oggi, agli albori del nuovo millennio, sembra che il ‘flowers power’ sia solo un pallido ricordo, associato dalle giovani generazioni all’icona di mitici eroi di un mondo scomparso e a pochi irriducibili nostalgici, irrimediabilmente fatto fuori dalle logiche predatorie del mercato globale e delle onnipotenti multinazionali. William Blake, che potremmo considerare un antesignano e ‘presidente ad honorem’ del movimento hippy, già un secolo e mezzo prima scriveva che l’immaginazione era la capacità di vedere ‘attraverso gli occhi, non con essi’; ciò che suggerisce l’idea di un necessario e volontario accecamento e di una inibizione della percezione diretta per poter raggiungere la dimensione ‘immaginante’ della mente…

..Ancora più indietro, nei trattati alchemici, “l’imaginatio” era invocata come atto di meditazione localizzato nel cuore (concepito questo come la sede dell’anima), che è anche una ‘chiave’ che apre la porta al segreto dell’Opus (1). Etimologicamente, la parola ‘immagine’ sembra derivare dalla parola ‘mag’, termine associato ad una condizione della mente che riflette uno stato di particolare ‘vibrazione’ della materia, che consentirebbe pertanto l’attrazione di forze divine’ (2).
Anche C.G.Jung, noto psicoanalista zurighese dello scorso secolo, si è interessato molto all'immaginazione. Già in 'Tipi psicologici' (1921) Jung considera la fantasia come il tertium quid in grado di mediare concetti contraddittori e conciliare punti antinomici. Egli mette in rilievo due caratteristiche della fantasia: la sua autonomia e il suo carattere creativo; l'autonomia ha origine nell'essere la madre di tutte le possibilità, mentre la creatività è connessa al ruolo che essa ha nella formazione dei simboli (3).
La fantasia viene poi distinta in volontaria, attiva, passiva; nella prima vi sarebbe un miscuglio di elementi consci mentre nelle altre due forme, che accentrano l'interesse dell'A., si osserverebbe l'irruzione di materiale inconscio nella coscienza. In sostanza, il modo in cui tale irruzione è trattata dal soggetto determinerà se la fantasia sarà attiva o passiva (invece di lasciarci invadere dai contenuti inconsci possiamo cioè tentare di modificare il corso dell'esperienza in atto, diventando agenti della fantasia piuttosto che semplici spettatori).
Sotto l'influsso della distinzione alchimistica tra 'phantasia' e 'imaginatio', Jung cominciò in seguito a delimitare il termine 'fantasia' ad una mera funzione soggettiva della mente che non andrebbe oltre una tendenza all'invenzione cosciente. Al contrario, egli riservò all'immaginazione la capacità di produrre creativamente immagini dotate di una loro vita propria attraverso una profonda dinamica simbolica e dotata di una sua propria stringente logica. L'immaginante diventa così il 'drammaturgo' (e, potremmo aggiungere, il 'demiurgo') delle proprie creazioni psichiche: "Se non si è compiuta questa operazione cruciale - egli scrive riferendosi a tale azione 'creativa' del soggetto - tutti i cambiamenti sono lasciati al flusso delle immagini e noi stessi rimaniamo immutati" (4).
Ma, avverte Jung, bisogna stare attenti a 'non concretizzare eccessivamente' le nostre fantasie e le immagini mentali, poichè questo contenuto drammatizzato diventa forza viva e può influenzare lo stesso immaginante, col rischio di una inflazione psichica. A differenza di quel che accade nella fantasia passiva allucinatoria o nella percezione sensoriale, il carattere di realtà qui non è dato da una pienezza traboccante o da una presenza esterna quasi palpabile. Nell'immaginazione attiva abbiamo piuttosto a che fare con una 'realtà psichica', poichè il reale 'è ciò che lavora', quindi ciò che ha effetto sulla psiche e che la modifica in qualche modo essenziale. Da questo punto di vista è necessaria l'immaginazione attiva per convertire ciò che è puramente possibile, meramente fantastico o contemplato esteticamente, in ciò che è 'chimicamente' reale: l'immaginare attivo investe la fantasia con un elemento di realtà che le attribuisce maggior peso e maggior potere di guida.
(1/ continua...)




(1) L’Opera Alchemica, intesa come processo di trasmutazione interiore dell’individuo e di liberazione di energie creative e di piena realizzazione del Sé.
(2) Si vedano in proposito i riferimenti alla 'mageia' quale 'arte di manipolazione del divenire' di derivazione zoroastriana.
(3) E.S.Casey, 'L'Immaginale', articolo per la rivista di Psicologia Archetipica , IV/ 1984.
(4) C.G.Jung, Opere, vol XIV, Boringhieri.

venerdì 11 luglio 2008

Legami danneggiati

Michael Eigen
Legami danneggiati

Astrolabio 2007

Recensione per la rivista Richard &Piggle
Studi psicoanalitici del bambino e dell’adolescente
n.2 - 2008


La consapevolezza che ogni relazione umana porti in sè aspetti non solo di crescita e di reciproco arricchimento, ma anche di natura tossica e dannosa per lo sviluppo psicologico dell’individuo e per la sua capacità di instaurare nuovi legami con se stesso e con gli altri durante il proprio percorso esistenziale, sembra essere il tema conduttore di questo ultimo lavoro di Michael Eigen, recentemente tradotto per i tipi della Astrolabio, come i precedenti: ‘La morte psichica’ (1998), ‘Mistica e psicoanalisi’ (2000) e ‘Cibo tossico’(2003).
L’idea della compresenza di ineffabili e originarie ferite dell’anima, intessute in una fitta e inestricabile trama accanto alle sensazioni di benessere, di vitalità e di reciproco godimento vissute nell’intimo rapporto con gli ‘altri significativi’ dell’infanzia, percorre infatti tutto il libro e mostra la dolorosa inestinguibilità del bisogno di sofferenza sempre rinnovato e la incancellabilità di certe cicatrici psichiche che reclamano, nella loro muta e solitaria profondità, di essere viste e rivissute insieme nella relazione terapeutica per poterle finalmente tollerare al proprio sguardo.
La doppia valenza insita in qualsiasi tipo di legame tra esseri umani viene osservata e catturata da Eigen grazie alla scomposizione prismatica della intensità luminosa e calda dell’affetto tra genitori e figli e dallo sgranarsi dei sentimenti operato dallo strumento psicoanalitico, che consente a volte l’emergere, sullo sfondo, di un paesaggio notturno freddo, desolato e vuoto, dove la sopravvivenza è difficile o impossibile, se non al prezzo di una ferita perenne o di un danno profondo alla percezione di sé e dell’altro.
E proprio da questi aspri territori di confine, da questi scenari interiori senza tempo in cui rivivono senza tregua i fantasmi del passato, giunge la dolorosa consapevolezza che il cibo che fa crescere e quello tossico sono in realtà uno stesso alimento, lo stesso latte materno, gli stessi affetti che ci nutrono e insieme ci avvelenano: “Può darsi – egli scrive nella illuminante introduzione al libro – che il danno psicologico sia parte integrante dei processi di formazione dei legami, proprio come una certa dose di danno fisico è elemento naturale del nascere. Diamo per scontata la violenza implicita del venire alla luce, ma sottovalutiamo il ruolo che la violenza e la perdita hanno nel forgiare i legami. Siamo danneggiati dai legami che ci danno la vita, menomati da vincoli che ci aiutano a crescere, tratti in salvo da processi nocivi…(pag.11)”
Ecco dunque che questi antichi e sempre rinnovati legami danneggiati possono costituire parte della nostra struttura psichica al punto da divenire elementi centrali e riconoscibili di essa, dove gravitano – come si vede nei diversi e puntuali quadri clinici che illustrano il tema di fondo del libro - abissali dinamiche centrate su percezioni frammentarie di una propria identità, o si avvitano processi che reiterano in modo meccanico primitivi e difettosi tentativi di elaborazione di lutti e perdite precoci, o dove ancora si mettono in scena pezzi della propria vita psichica in forma di traumi indicibili e segrete paure di divenire ed essere se stessi; ma comunque e sempre, esperienze mortifere assorbite dal bambino nelle mura domestiche, a contatto con la patologia degli adulti.
Il libro si compone infatti di due distinte parti, in cui può apprezzarsi appieno il merito dell’A. sia nel lavoro di personale approfondimento teorico rispetto ad alcune concettualizzazioni fondamentali della psicoanalisi (Klein, Bion, Winnicott), sia nella comunicazione di aspetti centrali del proprio ‘modus operandi’ attraverso il racconto di numerosi quadri clinici, in cui si può cogliere in controluce ed in modo illuminante il sottile gioco della dinamica transferale –controtransferale sempre sapientemente resa, puntualmente amplificata e sorretta da intuizioni profonde e significative di Eigen circa gli stati interni del terapeuta.
Nella prima parte, che ha per titolo ‘Legami danneggiati-sogni danneggiati’, aiutano l’A. soprattutto le teorie bioniane sul sogno e sulla funzione alfa, riproposte in modo esplicito quali modelli della concettualizzazione psicoanalitica ad oggi insuperati del funzionamento mentale nella sua dimensione onirica. Eigen ribadisce la funzione primaria e fondamentale del sogno quale attività della mente che permette di assimilare progressivamente i traumi, di lenire le ferite dell’anima, di intervenire quindi sui legami danneggiati interni in modo da restituire loro la possibilità di una trasformazione plastica di contro al rischio di un irrigidimento o talora di una definitiva fossilizzazione sotto l’influenza annichilente dell’oggetto ‘non sognabile’ o dell’ancora bioniano ‘SuperIo omicida’.
In questo quadro, il terapeuta diviene l’elemento catalizzatore che permette, attraverso un proprio adeguato ‘equipaggiamento alfa’ ben funzionante, di procurare strumenti idonei ed imprimere l’energia necessaria al paziente la cui funzione alfa risulti invece difettosa o troppo danneggiata, quindi di consentire la graduale ricostituzione di un apparato di pensiero che possa - prima con l’aiuto del terapeuta (una funzione alfa ‘ausiliaria’), poi più autonomamente - ristabilire o stabilire ex novo la possibilità di nutrirsi e digerire gli eventi psichici prima ‘indigeribili’ della propria esistenza.
La seconda parte del libro, intitolata ‘Lavoro in trincea’, mostra invece più da vicino il modo in cui l’A. lavora seduta dopo seduta, anno dopo anno, coi suoi pazienti, mettendo in luce l’aspetto di profonda compartecipazione dell’esperienza interna grazie allo sviluppo di quella che appare come una notevole capacità empatica e il riuscire ad entrare progressivamente in contatto creativo con le loro aree danneggiate più profonde.
Nei diversi quadri clinici di terapie individuali che scorrono sotto i nostri occhi (Laura, Milton, Neil, Ella, Nick, Sam) come anche nelle situazioni di supervisione (Pam e Margie, Carrie e Marlene), l’attenzione è costantemente centrata sul modo in cui il dialogo interno tra terapeuta e paziente (o tra supervisore e terapeuta) segna le tappe del percorso analitico in vista di una possibile riparazione di quei legami danneggiati che hanno segnato l’ingresso del paziente nella malattia e nel conflitto distruttivo con se stesso.
Nelle pagine di Eigen, infatti, la psicoterapia e il terapeuta sembrano poter garantire al paziente la assunzione di una necessaria quanto basilare e vitale condizione emotiva di ‘reverie’ in cui si riverbera un’acuta condivisione del dolore psichico dell’altro, ma al contempo anche la possibilità di aprire nella relazione nuovi spazi di pensabilità attraverso una gestazione spesso lunga e sofferta, che può giungere infine alla percezione di una migliore comprensibilità e tolleranza nella dinamica tra parti del proprio Sé in perenne conflitto, come nella contrapposizione tra aspetti slegati o scissi di natura libidica ed aggressiva. A volte, come in questo caso, il parlare dell’A. si arricchisce si sfumature ‘mistiche’ per incidere a fondo nella consapevolezza dell’uomo le sue eterne verità: “E’ cruciale il nucleo paradossale di morire per rinascere […] Occorre molta energia aggressiva per rompere il guscio del sé. Il Dio che ama e crea impiega un’immensa energia distruttiva..( pag. 154).” E di seguito: “Come si fa a trasformare l’odio di sé in qualcosa di utile? Fino a che punto è possibile? Fino a che punto è necessario l’odio di sé con le sue metamorfosi? Dobbiamo far posto all’aggressività contro noi stessi, che in forma estrema è l’impulso al suicidio. Che le lasciamo spazio o no, essa continua il suo lavoro […] Se non riusciamo a vedere che il movimento contro se stessi ha un valore e una importanza, possiamo fare davvero del male a noi e agli altri […] Dobbiamo imparare a suicidarci continuamente senza farci troppo male. Forse scopriremo come ‘uccidere’ noi stessi in modo tale da migliorarci (pag. 156).”
Chiude il libro un interessante scritto autobiografico in cui Eigen ripercorre alcune tappe fondamentali del suo passato alla luce dei ‘propri’ legami danneggiati e come sia venuta gradualmente maturandosi in lui la decisione di intraprendere il mestiere di psicoterapeuta sullo sfondo dei molteplici interessi dell’A. per la religione, per le esperienze mistiche, per il buddismo; aspetti che ne caratterizzano la personalità poliedrica ma anche l’umanità profonda, come traspare inoltre dai riferimenti conclusivi all’importanza ed all’influenza insostituibile attribuita ai legami affettivi famigliari nel permettere la crescita psicologica e spirituale dell’individuo.

Fernando Maddalena








Legami danneggiati