Psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico. Iscritto Ordine Psicologi Regione Abruzzo. Riceve in Piazza Alessandrini 22 - Pescara cell. 339 3685845 sitoweb:www.fernandomaddalena.it
lunedì 17 ottobre 2016
Iudicium Dei
Anticamente, esisteva una modalità 'infallibile' per provare l'innocenza o la colpevolezza di un accusato, poiché esercitata direttamente da Dio. Era chiamata 'ordalia' (dal longobardo ordaïl che significa appunto "giudizio di Dio") ed era una procedura giuridica basata sulla premessa che Dio avrebbe aiutato l'innocente nel caso in cui fosse stato davvero tale. L’imputato era dunque costretto a sottostare pubblicamente ad una prova durissima, l'esito della quale era la dimostrazione evidente della sua innocenza – se sosteneva la prova senza subire forti danni – o viceversa della sua colpevolezza.
Tale pratica, presente originariamente soprattutto tra le popolazioni germaniche e longobarde del centro Europa, si diffuse in tutto il mondo medievale dopo il crollo dell'impero romano d'oriente, ciò che portò ad un sostanziale regresso anche in campo giuridico, fino ad allora sostenuto dal riferimento ai princìpi del diritto romano. La magistratura del periodo classico operava infatti in modo simile al nostro attuale, basato su tesi accusatorie, prove fattuali e testimonianze, mentre il sistema ordalico delegava il momento del giudizio ad una questione di pura fede religiosa, chiamando a testimone e giudice ultimo la divinità stessa.
In realtà, la pratica dell'ordalia sembra risalire a molto più indietro nel tempo ed avere una diffusione universale. Se ne hanno prove fin dalla stesura del codice di Hammurabi in Babilonia nel XVIII sec. a.C. Nella religione indiana, nel celebre Ramayana (IV-III sec. a.C.), la moglie di Rama, Sita, affronta la prova del fuoco per dimostrare di non essere stata disonorata da Ravana, da cui era stata rapita. Nell'Antigone di Sofocle (V sec. a.C.) si cita un episodio in cui alcune guardie devono provare la loro innocenza maneggiando un ferro arroventato e camminando sui carboni accesi. Presso gli Ebrei, come riportato nella Torah, era conosciuta una forma di ordalia dell'acqua (la Sotah), in particolare nei confronti di donne accusate di adulterio, che consisteva nel consumo di "acqua amara" senza subire danno. Un' altra testimonianza ce la offre lo storico Strabone (I sec. d.C.), che riferisce delle sacerdotesse di Diana che, per dare prova della loro castità, camminavano sui carboni ardenti senza bruciarsi. In particolare, in epoca etrusca e poi in quella romana, erano conosciute forme di ordalia singolari denominate con il termine di poena cullei (da culleus, cioè sacco), che consisteva nell'armare di una spada corta il presunto colpevole legato per i polsi e chiuso poi in un sacco assieme ad un gallo, un cane, un serpente e una scimmia (o una capra). Il sacco veniva quindi immerso nelle acque di un fiume: se la persona sottoposta a questo rito riusciva a liberarsi, dimostrava di avere il consenso degli dei ed era dunque ritenuta innocente.
Come si vede, vi erano diverse tipologie di ordalia, a seconda dell'elemento scelto per il rituale dimostrativo: soprattutto però – in special modo nel medioevo – quelli più frequenti erano il fuoco e l'acqua, nelle forme della prensione di un ferro rovente con le mani (la 'gestatio ferri') e dell'immersione in acqua con mani e piedi legati ('iudicium acquae frigidae').
Se dunque per i popoli barbari del nord Europa l'ordalia rappresentava un effettivo progresso culturale, poiché consentiva di limitare le continue e sanguinose faide tra clan, per quanto rimaneva dell'antico impero romano, dilaniato dalle invasioni barbariche, tale usanza fu un evidente regresso in campo giuridico, appena temperato dall'intervento della Chiesa romana, che ebbe in merito un atteggiamento ambivalente (la Chiesa non poteva infatti condividere appieno la pratica dell'ordalia nelle sue forme più cruente, ma non poteva neanche avversarla, col rischio che le faide dilagassero). Col tempo, essa finì quindi per applicare sistematicamente questo tipo di giudizio, prima come un mezzo per ribadire i diritti di chiese e monasteri, poi per schiacciare qualsiasi forma di dissenso religioso e politico (i Tribunali dell'Inquisizione contro gli eretici e la stregoneria, che si protrassero fino a tutto il XVII sec., ne sono una drammatica testimonianza).
Certamente, l'ordalia del medioevo svolgeva una precisa funzione, quella di assolvere ad una idea di giustizia sociale ed agli obblighi dell'applicazione di una legge comunitaria in assenza di una efficace struttura legislativa che perpetrasse i principi dell'ordinamento giuridico romano. Uno strumento che, si capisce facilmente, costituiva anche un facile e sbrigativo mezzo a disposizione dei 'poteri forti' – diremmo oggi – dell'epoca, per sancire senza appello la condanna di chiunque non rientrasse nei dettami dell'establishment, spesso in forma di semplice calunnia da cui non potersi difendere che assoggettandosi al(supposto) giudizio divino. Un'istituzione così antica nella storia dell'umanità deve avere tuttavia un correlativo nella stessa struttura psicologica dell'essere umano. La necessità di delegare, da parte del gruppo sociale, ad una istanza superiore il giudizio di vita e morte di un individuo ha cioè probabilmente un corrispettivo ab origine nello stesso funzionamento psichico del singolo, se consideriamo la psiche stessa nei termini di una 'gruppalità interna', di un aggregato cioè di parti e figurazioni aventi precise e diversificate funzioni (spesso in contrasto tra loro, sul modello che poi sarà reso universalmente noto dalle 'topiche' di Freud, in particolare la tripartizione Es-Io-SuperIo). Il meccanismo psicologico alla base dell'ordalia, dunque – questa sorta di ragionamento circolare per cui si rimette alla divinità il giudizio sul singolo e che gravita intorno alla dimensione della colpa – è pensabile come un primitivo modello psichico-comportamentale, inscritto nel patrimonio culturale della specie Sapiens, che si salda alla dimensione esperienziale delle prime cure ricevute dal bambino, poi all'educazione impartita dai genitori, quindi alla graduale introiezione di una morale individuale e sociale. Soprattutto le prime identificazioni, che fin dall'inizio dell'esistenza legano il bambino agli altri significativi del suo ambiente, stabiliscono le condizioni che portano ad un prolungamento indefinito del legame neotenico con le dimensioni materna e paterna (declinate rispettivamente in termini di protezione-cura e socialità-condotta morale), attraverso la interiorizzazione dei loro modelli psico-socio-comportamentali. Legame che va a costituire quello sfondo di significato culturalmente condiviso, quell'ordine simbolico che, come il fondale mobile di una scena teatrale, di volta in volta contestualizza e funge da cornice all'azione del singolo immerso nel suo contesto sociale. Nel nostro quotidiano, la 'fenomenologia ordalica' sembra rendersi ancora più visibile in un certo tipo di pensiero sia psicotico – in cui il divino è spesso caratterizzato in termini di persecutore esterno-interno (viene qui in mente il famoso caso clinico del Presidente Schreber, di cui Freud scrisse nel 1911 a proposito della genesi dei meccanismi psichici della paranoia) – che nevrotico, per cui il sentimento di colpa 'soggettivo' (quale elemento 'strutturale' e a priori dell'esperire del soggetto, ancorato alle vicissitudini dell'Edipo) precede il meccanismo della supposizione di colpevolezza 'oggettiva' e contingente che la prova ordalica dimostra pubblicamente. A differenza del 'semplice' sentimento soggettivo della colpa, infatti – che potremmo definire come 'più evoluto' strutturandosi progressivamente dalle prime identificazioni con l'altro e poi dalla introiezione di modelli sociali e dalla educazione, laica o religiosa che sia, e che mette in moto un processo di elaborazione sostanzialmente attraverso il riconoscimento e la riparazione del danno arrecato – nell'ordalia siamo di fronte ad un giudizio su di sé 'sospeso' e delegato ad una istanza, quella divina, che è ancora sentita come esterna a sé e il cui potere sul soggetto si esplica in una modalità essenzialmente giudicante e sanzionatoria che sembra potersi identificare con quella centrale figura psicoanalitica che va sotto il nome di SuperIo, ma declinato nella sua versione primitiva di istanza giudicante interiore rigidissima, anzi inflessibile quando non proprio 'spietata', tanto da poter apparire ad un occhio esterno come una pura manifestazione di masochismo (Freud parlò in proposito anche di 'masochismo morale', per distinguerlo dalle perversioni sado-masochistiche di natura sessuale).
Questa istanza superiore si identifica dunque per il soggetto con il luogo stesso della Verità, da cui promana la suprema auctoritas che non può mai, per definizione, essere messa in discussione. Esso rappresenta pure, in modo proiettato, il 'Grande Altro' lacaniano(1): l'ordine simbolico che struttura l'universo di senso dell'uomo, lo sguardo dell'altro-da-sè che funge da continuo sfondo relativizzante al nostro esperire soggettivo.
Ciò che ribadisce come il giudizio divino non sia un motivo limitato alla sfera religiosa o riservato al popolo dei credenti, ma possa rivelarsi in varie forme, comunque riconducibili tutte al medesimo meccanismo di base, anche attraverso esperienze e contesti inusitati. E' solo infatti ad uno sguardo superficiale che potremmo stupirci di come personaggi affatto lontani da una certa morale cristiana o religiosa in genere facciano ricorso sistematico ad una qualche forma di giudizio divino. E' ad esempio il caso letterario, celebre, del peraltro ateissimo marchese De Sade, noto per il suo libertinaggio e le sue perversioni sessuali, che perpetra sovente le sue nefandezze con lo scopo non dichiarato di provocare Dio, inducendolo così a punirlo e quindi a manifestarglisi: finezze della perversione!
Su tutt'altro versante, nel nostro quotidiano, riconosciamo altresì lo stesso motivo di fondo soprattutto in quelle gravi forme nevrotiche, un tempo definite 'melanconiche', in cui tra SuperIo ed Io si instaura un rapporto come tra carnefice e vittima. Come è anche evidente, ad esempio, in certi comportamenti 'a rischio' degli adolescenti, solitamente visti solo come esperienze della 'ricerca del limite' e della dimostrazione delle proprie capacità di giovani adulti, in una replica aggiornata delle antiche prove iniziatiche tribali (le prove di forza, o le guide spericolate in stato di ebbrezza). Anche qui, pur se in termini di esperienza soggettiva l'atto è eseguito affinchè un certo 'status' personale passi ad un livello superiore liberando così il giovane dalle paure infantili, è innegabile la componente di 'provocazione' insita nell'atto e rivolta, se non al Dio dei cieli, ad un altrettanto sconosciuto Dio interiore, cioè in definitiva alla vita stessa in quanto 'Grande Altro'. E' tuttavia proprio sul terreno della colpa, vera o presunta, o meglio del senso soggettivo di colpevolezza, che si gioca la partita del (e col) SuperIo primitivo, che può durare tutta una vita (“..e oltre!” - direbbe questi, sadicamente) a meno che non ci si impegni in un percorso di conoscenza di sé che ci porti a saper vedere e riconoscere le molteplici forme che esso assume nelle nostre vite, spesso inibendole pesantemente, a volte annullandole del tutto, comunque sempre impoverendole di quell'apporto fondamentale per la salute psichica che è una ragionevole fiducia in sé stessi e negli altri. Un tale lavoro richiede una faticosa elaborazione del sentimento interiore di colpevolezza, spesso collegato alle vicissitudini di un processo edipico dall'esito fallimentare, il cui peculiare trattamento consente di individuare una fondamentale distinzione in seno alle stesse prassi curative. Laddove infatti la psicoterapia in genere, declinata nelle sue molteplici forme ed applicazioni, porterebbe ad un atteggiamento terapeutico incentrato sulla relativizzazione del sentimento di colpa, ma in fondo anche sulla sua svalorizzazione e fors'anche banalizzazione, un più accorto approccio di tipo psicoanalitico non commetterebbe questo grave errore, che potrebbe compromettere irrimediabilmente l'esito di un'intera analisi. Non bisogna de-colpevolizzare alcunchè – ciò che equivarrebbe in sostanza a 'rimuovere' – poiché è solo dalla elaborazione consapevole e dal superamento del sentimento di colpa, con le sue vicissitudini intime ed implicazioni relazionali, che è possibile giungere gradualmente ad un diverso equilibrio interiore, in cui le valenze superegoiche primitive e tiranniche risulteranno attenuate e potranno così essere meglio integrate, private di quelle connotazioni sadiche che hanno reso in passato il proprio vivere una continua sofferenza. E' così che lo sguardo di Dio diventa più benevolo, più mite il suo giudizio.
(1) - Grande Altro di cui, come sappiamo, esiste anche la 'versione transferale' nell'attribuzione del paziente all'analista del titolo di 'soggetto supposto sapere', dell'analista cioè percepito come onnipotente ed onnisciente.
Illustrazione:
L'Ordalia del Fuoco(1470), Dierick Bouts il Vecchio, Musée Royal des Beaux-Arts, Bruxelles.
La contessa di Modena, che in ginocchio sostiene nella destra il capo reciso del marito mentre con la sinistra stringe una barra di ferro rovente, affronta la prova della 'gestatio ferri' di fronte all'Imperatore Ottone III, assiso in trono.
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