martedì 24 febbraio 2015

Scacco al Re


Chiunque osservi per la prima volta Las Meninas (Le Damigelle) di Diego Velazquez non può sottrarsi ad una sensazione di pacato sgomento, di quasi impercettibile ma pur sottile inquietudine nel prendere gradatamente coscienza di ciò che si va costruendo nell'appercezione visiva della grande tela.
Il quadro, famosissimo, è stato dipinto nel 1656 ed è custodito a Madrid al Museo del Prado e su di esso sono state scritte migliaia di pagine dai più disparati cultori d'arte e di scienze. Mostra la versione reale di un interno di famiglia, quella del monarca spagnolo Filippo IV (il nome originario del dipinto è, appunto, La famiglia di Filippo IV), in posa disinvolta, tra cani e fantesche, davanti allo stesso pittore intento a riprendere la scena, che comprende anche se stesso.
Ma avviciniamoci e osserviamo meglio. Nella cornice di una grande stanza, identificata come la camera del Principe nell'Alcazar di Madrid, illuminata da finestre laterali e da una porta aperta sullo sfondo, sono raccolte al centro della scena alcune giovani figure. Spicca tra esse quella della bionda principessina, l'Infanta Margherita Maria Teresa d’Asburgo, figlia del re Filippo IV il Grande e di Marianna d’Austria, attorniata da due dame di corte, una nana, un bambino che poggia il piede giocoso su un cane mollemente adagiato. Dall'altro lato, in posizione leggermente arretrata, il pittore stesso con pennello e tavolozza. Dietro, nello sfondo, una monaca bisbiglia ad un uomo a lei vicino; più oltre, nel vano illuminato della porta indugia una figura d'uomo, un dignitario. Essi sembrano guardare in avanti, al di fuori del quadro, verso il luogo dove noi stessi ci poniamo quali fruitori dell'opera; oppure forse è alla grossa tela ritratta solo parzialmente – di cui noi vediamo un pezzo del retro – che essi guardano. Chissà...
C'è infatti, in posizione leggermente decentrata, un altro elemento della composizione, che solo alla fine, emergendo dallo sfondo, attira il nostro sguardo. E' uno specchio che rimanda l'immagine di una coppia in posa, che sappiamo essere la coppia reale; proprio loro, Filippo e Marianna, il Re e la Regina di Spagna.
Abbiamo dunque una rappresentazione (il quadro stesso di Velazquez) che rimanda ad una operazione di rappresentazione (la tela raffigurata di rovescio su cui il pittore sta lavorando) di cui è però testimonianza soltanto l'immagine della coppia reale riflessa nello specchio. Il Re e la Regina infatti, per quanto veri soggetti del processo rappresentativo, non sono presenti in quanto tali nella scena ma solo in modo virtuale e derivato, pure immagini riflesse e dai contorni sfumati.
Dalla disposizione delle figure e in base alle leggi della prospettiva possiamo ipotizzare che, sebbene assente dallo spazio pittorico, la coppia reale occupi 'in realtà' un posto preciso, proprio lo stesso dal quale noi, spettatori esterni, guardiamo il dipinto. Il quadro, in questo modo, sembra potersi prolungare in avanti in uno spazio decentrato, in un centro fuori di sé, che non è raffigurato eppure impone la gerarchia compositiva e interpretativa dell'opera. Tutto converge verso questo punto focale, mostrando con ingegnoso artificio l'inusitata sottrazione del vero soggetto dalla scena, il Re e la Regina.
Las Meninas mette dunque in scena una peculiare mancanza, l'assenza del soggetto 'ufficiale' del dipinto, che viene supposto essere tuttavia presente in virtù della sua immagine riflessa; una sorta di fantasma che aleggia nel quadro e che ne costituisce la trama di fondo.
Una simile provocazione (siamo pur sempre nel XVII secolo, in piena Controriforma), seppure artistica, non poteva non offrire innumerevoli spunti di riflessione a critici, letterati, studiosi di teoria della rappresentazione, che da allora hanno infatti coralmente ribadito la potenza di questa invenzione pittorica e il genio del suo autore.
Di questo fantasma del palcoscenico ante litteram si sono altresì occupati, in tempi più recenti e all'incirca nello stesso periodo, benchè ognuno dal suo peculiare ambito di ricerca, Michel Foucault e Jacques Lacan. Il primo scriverà sull'argomento un folgorante articolo (pubblicato nel 1964 sul Mercure de France, poi integrato come primo capitolo del suo Les mots et les choses) in cui riassume le sue tesi di carattere epistemologico sull'idea della nascita del Soggetto tra Età Classica e Moderna ed il limite intrinseco della rappresentazione nel periodo Classico (appunto, il Soggetto – cioè l'idea di individuo – 'ancora' mancante). Il secondo prenderà lo spunto pittorico per illustrare a sua volta, ne L’objet de la psychanalyse (Livre XIII,1966), il limite proprio della condizione umana relativo alla impossibilità ultima di pensare e rappresentare l'irrappresentabile, cioè quel 'resto' inconscio che si sottrae all'operazione conoscitiva.
Se cioè Foucault rileva in senso diacronico la perdurante mancanza tra il Seicento e il Settecento dell’idea di un Soggetto della conoscenza in grado di istituirsi quale centro di riferimento del proprio apparato rappresentativo (ciò che verrà sancito filosoficamente più tardi da Kant, entrando così nell'Età Moderna), Lacan concentra la sua attenzione sulla condizione sincronica del sistema mentale dell'uomo che, strutturalmente, si mostra costruito sul Desiderio, cioè in definitiva su una mancanza ad essere di cui l'oggetto, l'Altro-da-sè, rappresenta il modello originario espresso nei termini e nei limiti propri del linguaggio.
Se, dunque, il 'posto del Re' si riduce nel nostro quadro alla sola supposizione di un soggetto, questo stesso è soltanto – direbbe Lacan – una supposizione, fondata sulla sostanziale irrappresentabilità di sé a sé stessi, laddove rimane sempre tagliato fuori un 'resto', costitutivamente e strutturalmente irrappresentabile e indicibile; una intima alterità, un buco insaturabile al centro di una figura.
L'acume narrativo di Lacan non manca poi di renderci visibile questa scissione originaria dell'essere, la Spaltung che verrebbe altresì rappresentata nel quadro dallo sdoppiamento virtuale tra la differenza di visuale del pittore e quella del dignitario che si intravvede in fondo nel vano della porta aperta: essi hanno entrambi lo stesso cognome (il secondo fu infatti identificato come Josè Nieto Velazquez, ciambellano di corte).
Un tale 'soggetto psicoanalitico', scisso da sempre dal suo stesso desiderio e 'barrato' poi dal linguaggio, possiede allora un vettore eversivo che lo pone in aperto contrasto con la tradizione scientifico-positivista, spostando lo stesso suo rapporto con ciò che indichiamo col termine di 'verità' su un differente piano. Ciò in quanto il soggetto della psicoanalisi, nella sua inconscia indeterminazione, mette in crisi la stessa concezione classica alla base del paradigma scientifico moderno, l'assunto cartesiano di una res cogitans perfettamente trasparente a sé stessa.
Lo sguardo stesso con cui osserviamo un oggetto è il prodotto di una 'pulsione scopica' ben distinta dalla semplice impressione sensoriale retinica; l'occhio vede un oggetto, ma nel contempo lo sguardo lo costruisce in una circolarità che rompe lo schema classico fondato sulla contrapposizione netta soggetto-oggetto. All'osservatore ideale onnivedente si sostituisce un punto di vista necessariamente limitato e parziale che presenta inoltre una sua 'area cieca', non visibile né percepibile, semmai solo ipotizzabile. Proprio nell'illusione di poter vedere tutto, allora, il soggetto non vede che la sua è solo una rappresentazione della realtà e la sua stessa cecità resta inosservata.
Ma potremmo andare anche oltre e dire con Lacan che 'ciò che guardiamo non è mai ciò che vogliamo vedere': la presunta libertà o sovranità della visione si ridimensiona nella costrizione del desiderio, svincolato dal controllo della coscienza. Lo sguardo stesso è allora non un attributo funzionale del soggetto, bensì esso stesso 'un oggetto', un 'apparatus', una macchina che viene alimentata dallle vicissitudini del proprio desiderio.
Lo sguardo così inteso rovescia la sovranità egoica della rappresentazione totalizzante per introdurre uno scarto, un non visibile, un punto cieco ineliminabile o se vogliamo una 'mancanza' costitutiva. Il rapporto ordinato e ordinante tra visibilità e pensabilità è interrotto; esse, dopo la crisi del soggetto classico e della sua illusione identitaria, non sono più in relazione biunivoca e la psicoanalisi col suo 'inconscio' sono stati, fin dalla loro comparsa, artefici e testimoni di una tale rottura epistemologica, che ha assunto i connotati della 'discesa agli inferi'.
Chiunque osservi per la prima volta Las Meninas non può sottrarsi ad una sensazione di pacato sgomento. Poiché ciò che sta accadendo in quella tranquilla scena è l'anticipazione epifanica di una nuova concezione dell'uomo e insieme la scomparsa delle sue precedenti certezze terrene e metafisiche: il Re è ora solo un debole riflesso nello specchio.

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