venerdì 11 marzo 2016

Una piccola dimenticanza, anzi decisiva.




Premetto che guardo poco la tv, limitandomi a qualche buon film (purtroppo massacrato sistematicamente dagli orribili e sempre più aggressivi spots pubblicitari) e alcuni programmi di cultura e di informazione, che tuttavia non sempre riescono a tenermi sveglio nelle ultime ore della giornata preparandomi invece con discrezione – e con mia sincera riconoscenza – alla quotidiana resa a Morfeo.
Mi ha però incuriosito una sera, di recente, tanto da strapparmi di colpo al meritato oblio, l'esordio di un 'conduttore' (in realtà il noto filosofo M. Ferraris) di un format in onda regolarmente su una delle neonate reti Rai, che rivolgeva a bruciapelo – come solo i filosofi sanno fare – all'ignaro e semicosciente spettatore, fino allora mollemente adagiato in poltrona, nientemeno che la seguente, fatidica domanda: “..La psicoanalisi è morta?”
Ripresomi a fatica dallo spavento per l'eventuale improvvisa dipartita, continuavo ormai completamente ridestato nella visione del programma che in questi termini poi introduceva nel vivo della discussione: “E’ passato un secolo dalla nascita della psicoanalisi ed è il momento di chiedersi se goda ancora di buona salute. C’è chi la dà per finita, chi ne apprezza l’evoluzione, chi è convinto che Freud abbia ancora tanto da dire. Ma forse la domanda ultima è: la psicoanalisi fa (ancora) stare meglio le persone? Guarisce? O i suoi metodi sono ormai obsoleti? Insomma, la psicoanalisi è viva o è morta?...”
In ansiosa attesa del responso, ora affidato dal conduttore-filosofo ad un primo ospite (un medico-psicoterapeuta di palese inclinazione neuro-biologista) che elencava gli aspetti desueti ed ormai insostenibili della teoria freudiana classica (alla ineffabile luce delle solite ed ennesime 'scoperte della scienza moderna', etc etc..) - tra i quali l'immancabile riferimento al troppo mitico e mitizzato complesso di Edipo, alle imperdonabili 'topiche' freudiane, alle immaginarie fasi libidiche, ad insostenibili narcisismi e vari altri residui dell'armamentario psicoanalitico ortodosso, con puntuale rigore snocciolati dall'esimio esperto intervistato – riflettevo tra me come da tempo in realtà la psicoanalisi venga data per spacciata, per quasi-morta o defunta del tutto con tanto di cippo commemorativo da detrattori, critici, fautori di altri indirizzi teorici e clinici in campo psicologico e medico e altri soggetti a vario titolo interessati a demolire la costruzione freudiana in quanto vecchia e inutile, ma come essa altresì 'risorga' dappertutto nella nostra cultura, scientifica e non, qualora si voglia andare più a fondo nella comprensione di certi accadimenti e se solo si cambi modalità di osservazione sui fatti del mondo, visti cioè non più solo attraverso la piattezza desolante delle moderne etichettature pseudo-scientifiche del disagio psichico, dei paradigmi di validazione scientifica per le pratiche terapeutiche, dei circuiti neuronali attivati in associazione a specifici comportamenti, dell'azione ubiquitaria e onnipotente dei mediatori neurochimici, etc..
Intanto, nella discussione in tivvù, era stata data la parola anche 'alla difesa' (lo psicoanalista e storico D.Meghnagi), che di fronte all'offensiva 'iconoclasta' dell'avversario cercava di contestualizzare il discorso, da un lato ricordando come Freud fosse figlio del positivismo ottocentesco e come non potesse in definitiva che servirsi anche di certi strumenti di pensiero della sua cultura, dall'altro suggerendo come una interpretazione attuale della psicoanalisi debba in sostanza necessariamente riconoscerle uno status di teoria in evoluzione, che si serve di ipotesi e metafore operative che seppure formalmente 'classiche' possano comunque avere una loro declinazione attuale ed una perdurante efficacia esplicativa e terapeutica.
Considerando il siparietto di un certo interesse – forse soprattutto riguardo al tenore non sempre pacato e 'di parte' del dibattito culturale e scientifico sull'argomento (almeno qui da noi, in Italia) – invito il benevolo lettore a prenderne visione e trarne, se può, le sue conclusioni. Questo il link:
http://www.rai5.rai.it/articoli/lo-stato-dellarte-la-psicoanalisi-è-morta-24022016/32376/default.aspx

Mi riservo di aggiungere a questo punto una semplice postilla, a mio parere doverosa e imprescindibile, nel classico tentativo di non buttare il bambino con l'acqua sporca da un lato e di ribadire dall'altro la centralità di un concetto elementare, semplice semplice, che però, mi pare, in questa sede non sia stato affatto ricordato (..o forse è stato 'rimosso'? O piuttosto decisamente 'forcluso'?) e che sembra peraltro ormai essere diventato, in questa epoca di circuiti neuronali esteriorizzati e di farmacologie futuristiche che quasi promettono la vita eterna, paragonabile al mitico Unicorno bianco dei racconti dei cavalieri medievali: l'Inconscio.
Ciò che nel confronto televisivo tra le parti non si è minimamente sfiorato è infatti l'aspetto non solo teorico, ma pratico e concreto, di 'inconscio', su cui si basa in realtà tutto l'edificio teorico-clinico freudiano e il discorso psicoanalitico vecchio, presente e sicuramente anche futuro. La psicoanalisi - questo ci ha insegnato Freud – è infatti primariamente credere (ma a ragion veduta, potremmo aggiungere, cioè sulla base di 'fatti' e non di semplici supposizioni ed ipotesi) nella presenza dell'inconscio nella nostra vita, nella sua misconosciuta azione e manifestazione sui nostri pensieri, emozioni, affetti, sentimenti. E' questa dimensione che rende la psicoanalisi non solo uno strumento di conoscenza dell'uomo ed un metodo terapeutico, ma una specifica visione del mondo che la differenzia da forme di conoscenza centrate sulla contrapposizione soggetto-oggetto, come quelle della scienza moderna, o delle metafisiche filosofiche tradizionali.
Se non ci si richiama a questa dimensione inconscia della mente, tendendo per esempio a sostituirla oggi con nozioni di tecno-bio-fisiologia del funzionamento cerebrale che niente hanno a che fare con il suo originario significato, si 'rimuove' la vera essenza della psicoanalisi e la 'novità' che essa ha rappresentato non solo per il mondo di fine Ottocento come anche per la nostra stessa civiltà.
La visione di una dimensione inconscia della mente umana, da cui quella cosciente si struttura e si distingue gradualmente, è espressione di una concezione dell'individuo considerato quindi nella sua alterità costitutiva, nella sua complessità e molteplicità, nella sua storia e nelle sue specifiche particolarità, comunque nel solco della tradizione di un pensiero umanistico e non disumanizzato o parcellizzato, sintetizzato da diagrammi di flusso e contatti sinaptici, come scienza e tecnica per loro stessa intrinseca natura e vocazione perseguono e oggi tendono ad imporre.
Finchè ci sarà una visione dell'uomo in cui una certa 'consapevolezza dell'inconscio', cioè la sapienza dell'intima alterità di sé, è conoscenza acquisita, valorizzata e praticata, la psicoanalisi certamente non morirà e rimarrà viva e utilmente aperta alla ulteriore conoscenza della mente dell'uomo ed alla 'cura' delle sue più intime sofferenze. Auguriamocelo, per una futura società di uomini più consapevoli e forse migliori.