lunedì 29 dicembre 2014

Le parole originarie


Accade talvolta che una parola, un suono, un odore particolari rievochino alla nostra mente tutto un mondo passato, racchiuso in una piega della memoria in cui sembra essere stato fino a quel momento occultato e protetto da sguardi indiscreti, in una sorta di ovattato oblio. E' il caso di quella celeberrima opera letteraria, al confine tra ricordo vissuto e creazione artistica, che è 'A la recerche du temps perdu' di Marcel Proust, dove tutto inizia con l'immersione di una madeleine nel tè. Il fiume dei ricordi infantili riprende vita e si impossessa della memoria del protagonista in un percorso a ritroso nel tempo, dove persone antiche e lontane riprendono anch'esse vita, come fantasmi reincarnati e il passato torna a scorrere nuovamente sotto i nostri occhi come un presente perenne e turbinante di volti, figure, luoghi, cose, mai conchiuso nonostante il suo essere già avvenuto.
Se potessimo andare assai indietro con la nostra memoria, agli esordi della nostra esperienza di vita di bimbetti curiosi e capricciosi, potremmo forse ricordare un ristrettissimo vocabolario fatto perlopiù di parole-frasi che definivano un intero mondo di significazioni, designazioni e allusioni, una primitiva mappa lessicale-mentale che si andava formando giorno dopo giorno intrecciando parole o frammenti di esse a immagini, suoni a colori, odori a emozioni, nel primo abbozzo di una nascente personalità. Dov'è finita oggi quella nostra lingua originaria, quell'allora informe catalogo di emozioni e affetti collegati a persone e oggetti concreti, quel primitivo inventario di elementi fondanti la dimensione allora conosciuta del nostro microcosmo appena sbocciato da un'apparente nulla? E quanto in realtà era esteso quel selvatico territorio protolessicale, che ora ci appare nel ricordo solo come un isterilito, minuscolo orticello abbandonato?
Stiamo parlando del nostro primo linguaggio, della nostra prima forma di comunicazione con l'altro, quell'idioma personale che ci ha caratterizzati come tale o tal altro bambino, l'uno magari verbalmente precoce e loquace, l'altro meno loquace ma più assertivo, l'altro ancora più silenzioso e sfuggente, ma comunque dotati tutti di un proprio, privatissimo lessico minimo che rappresentava il primo aggancio ad una realtà simbolica condivisa, dopo l'interazione visuo-corporea e prossemica dell'abbraccio confusivo materno. La lingua originaria di ciascuno di noi è in realtà un idioma materno, una lingua-dialetto (un 'idioletto', recita il vocabolario) mediata col nostro primo genitore, memoria verbale-affettiva che si inscrive e confonde nella carne stessa della pulsione, sottoposta però formalmente alla legge paterna del Logos, da cui trae in seguito le sue multiformi espressioni e differenziazioni strutturanti.
Ma in tale iniziale commistione di generi si pone un problema di 'traduzione', dovendosi la parola trasferire da un registro ad un altro, da un piano di senso ad un altro, per inseguire la vertigine della parola definitiva, unica ed esatta, o l'illusione del dicibile. Ognuno di noi ha infatti 'tradito' quella prima lingua antica per poter nascere alla condivisione di senso e dei significati con l'altro, per approdare al discorso simbolico e normativo proprio della lingua dei padri, fatto di e per differenze, distinzioni, astrazioni, teorizzazioni, fatto cioè per governare e inquadrare l'ingovernabile vita e il caos che la sostiene. Non sono, allora, solo semplici riflessioni a margine del discorso su scrittura e narrazione la radicale affemazione di Proust secondo cui "parlare è mentire " e l'asserzione kafkiana che recita "O si è o si racconta se stessi". La letteratura, all'interno del processo di costruzione e produzione di senso, pur sempre ci ricorda come tra la parola (il testo) e il fatto (la realtà) intercorra sempre una cesura, un inevitabile scarto che produce una traduzione, come anche un tradimento, che si consuma attraverso la funzione psichica più propriamente umana della rappresentazione e conduce in ultima istanza alle narrazioni e alle finzioni letterarie; qualsiasi modalità comunicativa, diremmo, comporta una operazione di falsificazione del 'dato' originario.
Lo statuto speciale della poesia al'interno della letteratura si fonda invece proprio su una diversa accezione della parola; la parola-chiusa del testo letterario si fa parola-aperta della poesia ed essa si fa portavoce proprio di quelle istanze racchiuse originariamente nel segno scritto e parlato, votata com'è alla rievocazione ineffabile di quel mondo liquido-sommerso che ci parla ancora il linguaggio della nostra origine. E qui la psicoanalisi, nella sua doppia funzione ricostruttiva e maieutica, si pone sia come strumento trasformativo di questa differenziazione e decodificazione che passa attraverso un'operazione di attribuzione di senso condiviso alle proprie storie e narrazioni (almeno - quale condizione minimale sufficiente - tra i due diretti partecipanti al rito analitico), come anche di rievocazione e consacrazione lirica di quelle parti sentite come più vere ed autentiche di sè stessi e raggiungibili (semmai) solo in condizioni cosiddette 'ispirate'. Il compito analitico diventa quindi quello, semplice e immenso, di ricongiungere il dicibile al sensibile, il paterno al materno, custodendo al contempo e proteggendo quel primo linguaggio inenarrabile da cui tuttavia prendono forma e vita tutte le nostre parole di oggi.

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